L’anomalia italiana: l’esempio dell’università

Il particolarismo, il familismo e la burocrazia sono i tre difetti del sistema Italia che i fondi europei rischiano persino di aggravare.

Mauro Barberis

È difficile non essere d’accordo con l’editoriale del “Secolo xix” del Primo maggio, intitolato L’occasione di essere italiani diversi: sorta di appello alla responsabilità di ognuno di noi per le sfide che aspettano il Paese. Si tratta di trasformare in opportunità la pandemia che ci ha colpiti per primi in Occidente, come ha ricordato anche Anthony Fauci. Gli aiuti europei, in particolare, possono davvero diventare un’occasione irripetibile di cambiamento, dopo trent’anni di stagnazione: un nuovo inizio, come si diceva una volta.

Ma che italiani diversi dobbiamo/vogliamo diventare? Quali sono i nostri vizi che ostacolano il cambiamento, denunciati dagli osservatori sia stranieri sia italiani? Sino a trasformarsi in una retorica dell’anomalia italiana che rischia di diventare a sua volta in alibi: siamo fatti così, che ci volete fare? A partire dal problema che conosco meglio – l’università, la ricerca – qui cerco d’indicare tre difetti del sistema Italia che sospetto si trovino anche in molti altri campi, e che i fondi europei rischiano persino di aggravare.

Nel caso dell’università, i vizi emergono da testimonianze diverse. Da un lato, i recenti documenti della Conferenza dei Rettori (CRUI), che propongono di reagire ai problemi acuiti dalla riforma Gelmini del 2010 proseguendo nella stessa direzione: moltiplicando le figure dei precari e distinguendo fra atenei di eccellenza, dove concentrare gli investimenti, e sedi di serie B, buone solo ad aumentare il numero dei laureati disoccupati. D’altro lato, c’è il libro di uno studioso inglese che ha insegnato da noi per quarant’anni, Tim Parks, intitolato in italiano Italian life. Una fiaba moderna di amori, tradimenti, speranze e baroni universitari (Rizzoli, 2021), che rispetto a John Foot, già criticato da me in un post precedente, ha almeno il merito di aggiornare il quadro all’università post-Gelmini.

Il primo vizio nazionale è il particolarismo, localismo o campanilismo, tutte parole che fanno rima con il regionalismo provato sulla nostra pelle durante la pandemia. La moltiplicazione degli atenei pubblici e privati li ha portati a provincializzarsi, in tutti i sensi. E non parliamo degli atenei telematici, il cui modello, con l’insegnamento a distanza, rischia di generalizzarsi. Così, l’università, da modo di conoscere il mondo alternativo alla leva militare e al servizio civile, oggi chiude in casa gli studenti e impedisce la mobilità agli stessi docenti.

Il secondo vizio nazionale è il familismo. Certo, non il familismo amorale denunciato da Edward Banfield nel meridione rurale anni Cinquanta: benché differenze familiari e disuguaglianze economiche – fra nord e sud, città e campagna, centro e periferia – da allora, spesso sembrino persino peggiorate. Parlo del familismo immorale per cui la qualità della tua istruzione e le occasioni di lavoro dipendono sempre più dal ceto da cui provieni e dai padrini che trovi.

Il terzo vizio nazionale è la maledetta burocrazia: il formalismo con cui le leggi s’interpretano per gli amici e si applicano a tutti gli altri, e che peggiora più si parla di semplificazioni e digitalizzazione. È un vizio atavico – Italia, patria del diritto… – che colpisce particolarmente gli osservatori stranieri, compresi i cittadini comunitari che lavorano da noi. Così, qualcuno chiede di nuovo a gran voce una riforma organica dell’università, naturalmente su modelli stranieri, specie se nel frattempo sorpassati, e a chi c’è già passato più volte viene voglia di rispondere: un’altra riforma organica, quando non siamo ancora riusciti a digerire la precedente? Poi si ripiega su un più vago: ma sì, facciamo pure un’altra bella riforma organica, basta che non ci vogliano altri dieci anni per applicare anche questa, e che nel frattempo un’altra generazione di studenti e di studiosi non sia costretta a emigrare.



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