L’attacco alla diga di Kakhovka: cosa stabilisce il diritto internazionale

L’International Law non consente gli attacchi deliberati contro le dighe e le installazioni che possono provocare seri danni all'ambiente e alla popolazione civile.

Maurizio Delli Santi

L’analisi dei profili giuridici di diritto internazionale sull’ultima vicenda della guerra in Ucraina richiede necessariamente una verifica puntuale degli elementi resi noti da fonti aperte. Occorre cautela e non escludere le ipotesi di un sabotaggio ucraino o di un incidente, ma rimangono le valutazioni che propendono per la tesi che l’attacco alla diga di Kakhovka sia una distruzione deliberata, praticata con mine, imputabile ai russi. L’ampiezza del varco è di circa 200 metri per cui è da escludere il bombardamento con missili, e la demolizione con mine ad opera di un’azione ucraina di sabotaggio, al centro della diga, risulta improbabile in un’area sotto pieno controllo militare russo. D’altro canto, l’attacco alle dighe, nonostante gli evidenti rischi di catastrofi ambientali e umanitarie, non è una novità per l’irresponsabile stato maggiore russo. Si può dire che esso rientra in una deliberata strategia dell’aggressore per colpire le risorse idroelettriche, intimorire la popolazione e ora per respingere la controffensiva su una importante direttrice. A settembre un attacco missilistico russo ha distrutto nel sud dell’Ucraina la diga nel bacino di Karachunivske, e sono seguiti attacchi missilistici alle dighe di Zaprorizhzhia, Kremenchuk e al serbatoio di Karlivskyi, provocando inondazioni e l’esodo dei residenti.

Quanto siano gravi gli effetti della distruzione della diga di Kakhovka lo si vedrà nei prossimi giorni, sebbene già i primi riscontri siano indicativi del dramma catastrofico: si parla di 24 cittadine allagate sulla destra del fiume Dnipro, area rimasta sotto il controllo di Kiev, e di 16mila i residenti evacuati. Si prevedono ulteriori innalzamenti del livello dell’acqua con rischi per almeno altri 80 insediamenti e la stessa centrale nucleare di Zaporizhzhia, per la quale al momento l’Aiea ha comunque escluso emergenze. Otre 40mila persone potrebbero essere costrette ad evacuare, di cui 25.000 nei territori occupati dagli stessi russi. La diga è il principale fornitore di acqua alla Crimea, che non ha risorse idriche proprie, per cui la sua compromissione potrebbe esporre le popolazioni della penisola occupata dai russi all’insufficienza di risorse idriche. I russi avrebbero comunque fatto affidamento su una demolizione ‘controllata’, che non escluderebbe le manovre di pompaggio dirette ad alimentare la Crimea. Gli esperti ambientalisti dell’Onu hanno tuttavia richiamato anche il rischio di contaminazione delle acque per effetto del rilascio di varie sostanze pericolose sia degli esplosivi sia di altri residui metallici, fangosi o comunque nocivi presenti sui fondali del bacino.

Sotto il profilo del diritto internazionale il quadro giuridico è sul punto molto preciso, e non vi sono dubbi che l’attacco alla diga costituisca una grave violazione alle norme sul diritto dei conflitti armati, sino a configurarsi tra i crimini di guerra sanzionati dall’articolo 8 dello Statuto della Corte penale internazionale. La fattispecie è puntualmente delineata all’articolo 8 paragrafo 2 sub iv), laddove si sanziona l’attacco intenzionalmente deliberato, “pur sapendo che tale attacco comporterà una perdita di vite umane tra la popolazione civile o lesioni ai civili o danni ad obiettivi civili o un danno grave, diffuso e duraturo all’ambiente naturale, che sia chiaramente eccessivo in relazione al concreto e diretto vantaggio militare complessivo previsto”.  L’ipotesi sub v) in ogni caso pone il divieto di attaccare costruzioni che non costituiscano “obiettivi militari”.

Si può prevedere l’obiezione dei comandanti incriminati in un processo internazionale: l’attacco alla diga risponde ad una “necessità militare”, ammessa dal diritto internazionale, vale a dire alla finalità di perseguire il vantaggio “complessivo, diretto e concreto”, di bloccare una controffensiva. Sul punto tuttavia tanto gli indirizzi delle Risoluzioni delle Nazioni Unite adottate per i vari conflitti di quest’epoca, quanto gli orientamenti giurisprudenziali del Tribunale per la ex Jugoslavia e altre determinazioni delle Nazioni Unite (la più nota è il Rapporto Goldstone approvato dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite sulla operazione israeliana “Piombo fuso” a Gaza, 2008-2009) hanno sempre rimarcato che il criterio della  necessità militare va declinato con quello della proporzionalità. Questa va considerata imperativa rispetto al principio fondamentale di non coinvolgimento e di tutela precauzionale della popolazione civile, per cui in diversi casi è anche previsto un obbligo giuridico di “preavviso” degli attacchi (art.57 del I Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra).

A dirimere dubbi interpretativi sovvengono in ogni caso più specifiche previsioni del I Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra, adottato nel 1977. In primo luogo è l’articolo 52 a stabilire che “i beni di carattere civile non dovranno essere oggetto di attacchi né di rappresaglie”, e che deve valere, in caso di dubbi, un principio generale di presunzione – quindi superabile altrimenti solo in casi ben documentati – del non utilizzo a scopi militari di strutture civili (paragrafo 3). L’articolo 54 prescrive inoltre il divieto di ricorrere a metodi di guerra che compromettano l’utilizzo di beni necessari alla sopravvivenza della popolazione civile, e indica espressamente il divieto di attaccare “installazioni e riserve di acqua potabile e le opere di irrigazione”, e di “intraprendere in nessun caso, contro detti beni, azioni da cui ci si potrebbe attendere che lascino alla popolazione civile alimenti e acqua in misura talmente scarsa che essa sarebbe ridotta alla fame o costretta a spostarsi”.
Inoltre, l’articolo 55 impone che la guerra debba essere condotta curando di “proteggere l’ambiente naturale contro danni estesi, durevoli e gravi”.

Infine, ancora più centrate sono le previsioni dell’articolo 56 “Protezione delle opere e installazioni che racchiudono forze pericolose”.  Al paragrafo 1, si indica che le dighe e le centrali nucleari per la produzione di energia elettrica “non saranno oggetto di attacchi, anche se costituiscono obiettivi militari, se tali attacchi possono provocare la liberazione di dette forze e causare, di conseguenza, gravi perdite alla popolazione civile”. Qualora queste strutture fossero utilizzate per “l’appoggio regolare, importante e diretto a operazioni militari” gli attacchi saranno consentiti solo se rappresentano “il solo mezzo pratico” per porvi fine. In tutti i casi vale il principio di precauzione generale del paragrafo 3, secondo cui la popolazione civile deve poter continuare a beneficiare di tutte le protezioni previste dal diritto internazionale, e “tutte le precauzioni praticamente possibili dovranno essere prese per evitare che le forze pericolose siano liberate”, incluso “un avvertimento in tempo utile e con mezzi efficaci” previsto dall’articolo 57.

Per ultimo è bene richiamare anche quanto, già prima della distruzione della diga di Kakhovka, è stato intimato alla Russia in importanti determinazioni delle organizzazioni internazionali in materia di osservanza del diritto internazionale umanitario. Fondamentale rimane la Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite A/ES-11/L.2, Conseguenze umanitarie dell’aggressione contro l’Ucraina, in cui espressamente si chiede di garantire la tutela dei civili e, in particolare, il rispetto e la protezione per i beni indispensabili alla sopravvivenza della popolazione civile, per le infrastrutture civili, nonché per la fornitura dei servizi essenziali.
Un profilo particolare ha poi assunto la Risoluzione del Parlamento europeo del 23 novembre 2022 (adottata con 494 voti favorevoli, 58 contrari e 44 astensioni) che ha formulato la prima accusa alla Russia di condurre la guerra all’Ucraina nella forma del “terrorismo di Stato”,  perché ha tra l’altro colpito “deliberatamente le infrastrutture critiche ucraine nell’intero paese allo scopo di terrorizzare la popolazione e impedirle l’accesso a gas, elettricità, acqua, internet e ad altri beni e servizi di prima necessità”. Le accuse del Parlamento di Strasburgo sono state rivolte anche al “terrorismo geopolitico” della Russia per aver causato la crisi mondiale della sicurezza alimentare, con il blocco dei porti marittimi ucraini, la distruzione delle scorte, l’interruzione della produzione e le restrizioni alle esportazioni di generi alimentari e fertilizzanti.

Su questi scenari, anche valutando responsabilità diverse, la distruzione della diga Kakhovka richiederebbe ora una maggiore consapevolezza della comunità internazionale, in particolare da parte di quegli Stati che ancora non hanno deciso di essere netti nella condanna dell’aggressione di Putin all’Ucraina. Molti guardano con speranza alle iniziative di pace del Vaticano, ma probabilmente una decisa presa di posizione di potenze come Cina e India, e anche del c.d. “Sud globale”, potrebbe avere la forza di ricondurre la Federazione Russa e l’Ucraina a riprendere i negoziati per il cessate-il-fuoco. Qui il ruolo dell’Occidente e preferibilmente quello rinnovato delle Nazioni Unite, stavolta, dovranno essere determinati a porre in essere, in ogni caso, quelle “garanzie di sicurezza” che mirino a realizzare una tregua che non si rilevi fragile e ingannevole per il futuro di quella parte dell’umanità. Anche per questo sarà necessario sostenere la Corte penale internazionale perché prosegua il suo percorso per affermare le regole dell’Humanitarian International Law e i principi di effettività della giustizia penale internazionale.

di Maurizio Delli Santi (membro dell’International Law Association)

 



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