La modernità imperfetta. Lavoro, territorio e società a Roma e nel Lazio tra Ottocento e Novecento

I complicati rapporti tra Roma e la sua regione, il Lazio, alla luce di uno sviluppo economico e civile che ha cambiato molti dei connotati di riferimento. Un volume che indaga da più angoli visuali un terreno del quale si è detto tanto, senza poi esplorarlo troppo.

Francesco Bertinato

«Ecco un libro che mancava e del quale si avvertiva il bisogno». Questa è la frase che mi è uscita spontanea la prima volta che ho sfogliato le pagine di La modernità imperfetta. Lavoro, territorio e società a Roma e nel Lazio tra Ottocento e Novecento (Odradek, 2021). Semplicemente perché si tratta di un volume che indaga da più angoli visuali un terreno del quale si è detto tanto, senza poi esplorarlo troppo. Mi riferisco ai rapporti – anzi, ai complicati rapporti – tra Roma e la sua regione, il Lazio, alla luce di uno sviluppo economico e civile che ha cambiato molti dei connotati di riferimento.

La storiografia ha analizzato e raccontato in lungo e in largo di come le rivoluzioni energetico-tecnologiche, l’avvento del lavoro salariato in fabbrica, la fioritura di nuove ideologie politiche e la nascita dell’opinione pubblica abbiano completamente trasformato la società a cavallo tra XIX e XX secolo. Tutto questo ha avuto declinazioni particolari nei singoli territori: in certi casi si sono avuti mutamenti precoci e pionieristici, in altri casi ritardi acclarati, in altri ancora sensibili scostamenti dal modello per così dire originario.

Dove si colloca Roma? E dove di collocano le varie aree del Lazio? Chi si è occupato di questi temi, in precedenza, ha costruito alcune basi importanti, ma sono soprattutto gli autori del libro curato da Roberto Carocci, Daniele D’Alterio e Tito Menzani a darci una risposta convincente e strutturata. Roma ha scontato il suo essere la capitale d’Italia e quindi l’alveo della burocrazia ministeriale e più in generale pubblica, che ha rappresentato un ceto peculiare nel contesto civile dell’Urbe. Non che abbia contrastato apertamente le trasformazioni in atto, non che abbia voluto essere un contraltare della classe operaia, non che abbia scelto uno stile di vita del tutto disallineato ai tempi, ma ha comunque rappresentato un fattore non troppo contemplato nel modello classico di modernizzazione.

In più, Roma è la città dei Papi e del Vaticano, che nella fase storica indagata rappresentano essenzialmente un ostacolo al pieno processo di nazionalizzazione. Il principale riferimento è al non éxpedit disposto dalla Santa Sede del 1868, che dichiarava inaccettabile per i cattolici italiani la partecipazione alle elezioni politiche del Regno d’Italia e quindi, per estensione, alla vita politica nazionale. Non che i cattolici di Roma fossero un corpo estraneo al Paese, non che tramassero chissà quali congiure contro il Regno d’Italia, non che avessero tagliato completamente i ponti con le istituzioni liberali, ma certamente la loro identità personale doveva fare i conti con sentimenti politico-religiosi contrastati.

Ecco allora che si spiega già molto bene il bel titolo La modernità imperfetta. E non a caso, nel sottotitolo, si citano sia Roma che il Lazio, proprio perché, come anticipato, è all’interno di questo controverso rapporto che si risolve una parte delle analisi proposte dai vari saggi. Mentre è possibile studiare la storia otto-novecentesca di Verona a prescindere da quella di Venezia, o quella di Taranto a prescindere da quella di Bari, non è possibile fare altrettanto con quelle di Viterbo, Rieti, Frosinone o Latina, ovvero studiarle prescindendo da quella di Roma. Infatti, l’Urbe assume un ruolo ingombrante e accentratore, come se fosse un astro attorno al quale gravitano i pianeti e i loro satelliti, costituiti dalle città e dalle località delle province laziali.

Il volume qui recensito ha anche un’ulteriore chiave di lettura, ovvero il lavoro. Alcuni dei saggi sono esplicitamente costruiti con un classico approccio di labour history, molti altri esplorano ambiti e temi legati all’agricoltura, alle manifatture e ai servizi, senza però sposare pienamente il taglio storiografico menzionato pocanzi, ma ben collocando l’analisi nell’alveo della storia contemporanea di carattere politico-sociale.

Nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo, al di là delle già menzionate considerazioni sui limiti del processo di modernizzazione, Roma e il Lazio furono comunque interessati da un sensibile sviluppo economico e sociale. Da area fortemente irrelata all’economia agricola, si passò a un territorio con una importante vocazione industriale e terziaria, che ha vantato anche alcuni casi di rilievo nazionale. Anche se gli stereotipi hanno storicamente impedito di percepire Roma come una città operosa, il volume chiarisce che la «cultura del fare» ha avuto una chiara trasversalità, che ha interessato uomini e donne, giovani e meno giovani, lavoratori delle province e dei contesti urbani, addetti all’agricoltura, all’industria e ai servizi, dipendenti, imprenditori, artisti e liberi professionisti.

Nella seconda metà dell’Ottocento, il Lazio era contraddistinto da una netta prevalenza di lavoratori agricoli, con numerose famiglie contadine e mezzadrili dedite alla gestione di appezzamenti medio-piccoli, in cui prevalevano produzioni cerealicole e orticole. Oltre alla piccola e media proprietà fondiaria, vi erano anche tenute più grandi, possedute da agrari di origine aristocratica o alto borghese, o riconducibili ai beni ecclesiastici, che erano mandate avanti grazie al lavoro di un cospicuo numero di salariati. Questi erano operativi anche sul fronte dei lavori di bonifica, in particolare nell’attività di movimento terra, fatta con vanga e carriola, tanto che nella zona di Ostia erano definiti «scariolanti».

Il lavoro nei campi era integrato dalla zootecnia, dalla pesca – in mare e nelle acque dolci – e da attività abbastanza elementari di trasformazione dei prodotti agricoli, per produrre formaggi, vino, conserve alimentari e simili. Nel Novecento, gran parte di queste produzioni uscì dalle aie e dalle cascine, per dare origine a stabilimenti zootecnici e agroalimentari più grandi e meglio organizzati, in cui i saperi tradizionali erano declinati nella nuova veste di una modernità industriale.

Contemporaneamente, i lavori artigianali che avevano caratterizzato Roma e il Lazio in età preindustriale avevano anch’essi trovato un percorso di sviluppo. In questa trasformazione appare assolutamente centrale il crescente impiego di rudimentali ma ingegnosi impianti tecnologici, che andavano a meccanizzare certe fasi di lavorazione. Il lavoro tradizionale si trasformava: si accorciavano i tempi di realizzazione, si abbattevano i costi di fabbricazione e si avevano nuove opportunità di innovare i processi produttivi, per cui la semplice manualità artigiana evolveva nella dimensione e organizzazione industriale.

È il caso della produzione di tessuti e di abbigliamento, caratterizzata dal progressivo abbandono del contesto domestico, o dell’edilizia, che sempre più ha utilizzato gru, betoniere e altri macchinari; in estrema sintesi, tutti i lavori preindustriali sono stati letteralmente stravolti dalle potenzialità offerte dalla tecnologia, che a sua volta è stata possibile grazie a una significativa crescita dei livelli di istruzione. E alcuni settori manifatturieri sono così diventati strategici nell’area romana. All’inizio del XX secolo, operai, tecnici, progettisti e ingegneri hanno riempito nuovi stabilimenti manifatturieri – piccole officine o medie realtà industriali – dove venivano realizzati ritrovati di vario tipo. Si andava da prodotti di una certa complessità, come gli impianti industriali, ad altri meno sofisticati, come le tecnologie per l’illuminazione pubblica, ad altri ancora di carattere elementare, come tutta la produzione delle reti di subfornitura, che realizzavano ingranaggi, valvole, minuteria metallica e componentistica in genere.

In definitiva, il lavoro appare il fil rouge costante e puntuale di questa narrazione, al di fuori dei rigidi schemi preconfezionati, ma declinato in maniera più specifica per dare conto dell’associazionismo sindacale, del dibattito fra urbanisti, del mondo del cinema, delle donne in fabbrica, degli operai della Viscosa, di contesti artistici riferiti alla ceramica e alla poesia.

Un’ultima nota su un aspetto spesso ingiustamente considerato secondario. Alcune belle immagini impreziosiscono il volume, conferendogli un piacevole orpello figurativo. Ma soprattutto è magistrale la fotografia scelta per la copertina – il Gazometro –, che si sposa magnificamente con il titolo La modernità imperfetta.

 

 



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