Le alterne fortune della destra “social”

Internet sarà sicuramente divenuto un medium indispensabile per la comunicazione politica: se non lo sai usare, come il PD, sei fuori. Però non sostituisce la politica: non ancora, almeno.

Mauro Barberis

Sembra passato un secolo da quando, sei anni fa, l’uso solo apparentemente disinvolto dei social, in realtà studiatissimo, portava al potere Donald Trump, e poi i Brexiter, nelle due più antiche democrazie occidentali. Solo un biennio dopo, due tipici movimenti populisti, l’uno digitale, il M5S, l’altro digitalizzato, la Lega, andavano al potere anche in Italia. Non solo, ma la Lega, alle europee del 2019, scavalcava un M5S già traumatizzato dall’esperienza di governo, quasi solo grazie alla campagna social sulla sicurezza migratoria portata avanti da Salvini ministro degli Interni: roba che adesso interessa al 7% degli italiani, pare. Fenomeni sufficienti, comunque, a far parlare di populismo digitale, e a indurre anche il sottoscritto ad avvertire che la democrazia (liberale) poteva essere travolta da internet.

A che punto siamo, sei anni dopo? Trump, sconfitto e privato per anni del suo social preferito, Twitter, fa ancora notizia più per le traversie giudiziarie che per le velleità di rivincita. La Brexit ha destabilizzato il quadro politico inglese, con un succedersi di premier conservatori l’uno più improbabile dell’altro, tanto da indurre l’Economist a parlare di Britaly, Britannia italianizzata. A proposito, e l’Italia? La patria del populismo mediatico, inventato negli anni Novanta da Berlusconi, che oggi, a paragone dei successori, sembra un grande statista, vede la lotta neanche troppo sotterranea, benché condotta dalle poltrone dello stesso governo, tra due destre entrambe digitali, ma in modi diversi e diversamente efficienti.

L’ormai vecchia destra di Salvini, orfano della “Bestia” di Luca Morisi e del proprio sfondo prediletto, il Viminale, annaspa nei sondaggi, incerta fra vecchio repertorio (il Ponte sullo Stretto!) e gaffes da incubo, come quella di ieri sull’incidente di Alessandria. Invece, la seminuova destra sociale, aggiornata anch’essa a destra “social”, veleggia con il vento in poppa, trasformata da populismo in nativismo (con l’aggiunta di Sangue-e-Suolo al classico Dio-Patria-Famiglia), eppure resa presentabile dall’immagine della propria leader. Con le sue spalle insospettabilmente robuste, infatti, Giorgia copre i deserti di competenze e le jungle di istinti piccolo borghesi e sottoproletari che si stendono dietro di lei.

Come usa i social, Giorgia? Dopo aver manifestato una tipica insofferenza populista/nativista per le conferenze stampa (è la disintermediazione, bellezza!), ha pensato bene di sostituirle con il suo Taccuino su Facebook, che ha fatalmente evocato la mitica Agenda Draghi. Il problema è però che questo tipo di comunicazione many to many, da molti a molti, come dicono i massmediologi, funziona solo con le masse: provate un po’ a usarla con Macron, o con le istituzioni europee. E qui, passi Macron, antipatico ma non scemo. Il punto è che ancora l’altro ieri il commissario Gentiloni ha dovuto ricordarci che con il PNRR l’Unione europea ci regala sì un sacco di soldi, ma non per i nostri begli occhi, bensì in cambio di riforme che ancora non si vedono, sostituite con tipici provvedimenti social come l’alt ai Pos e l’ulteriore estensione della Flat Tax per le partite IVA.

Insomma, internet sarà sicuramente divenuto un medium indispensabile per la comunicazione politica: se non lo sai usare, come il PD, sei fuori. Però non sostituisce la politica: non ancora, almeno. I social, in particolare, funzionano come le baionette secondo Talleyrand: aiutano a prendere il potere, ma non permettono di sedercisi sopra.



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