Le due piazze di Berlino contro la guerra

In questo fine settimana a Berlino contro la guerra decine di migliaia di persone sono scese in piazza, in due diverse manifestazioni. Venerdì contro Putin e in solidarietà all’Ucraina, sabato per chiedere a “entrambe le parti” il cessate il fuoco immediato e l’avvio di negoziati di pace.

Cinzia Sciuto

Quando esattamente vent’anni fa attraversai questa stessa Unter den Linden, il vialone che da Alexanderplatz porta alla Porta di Brandeburgo, nessuno immaginava potessero esistere due piazze a Berlino contro la guerra. La guerra era una, quella di Bush contro l’Iraq, e uno era il sentire pacifista di allora: contro la guerra di Bush. Vent’anni dopo, quando la guerra ci tocca molto più da vicino e imporrebbe una unità e compattezza ancora maggiore, il fronte “contro la guerra” si sfalda, e la linea di divisione non è come potrebbe superficialmente sembrare, solo la questione “armi sì, armi no”. Se fosse solo questo, si tratterebbe di una mera questione strategica, una risposta diversa alla domanda: “Come facciamo a fermare la guerra di Putin?”. Ma invece è la domanda stessa che divide, perché non tutti riconoscono che questa è una guerra unilaterale di stampo imperialista di Putin contro l’Ucraina, e non sono pochi nel fronte pacifista a condividere l’analisi di Silvio Berlusconi: “Bastava che [Zelens’kyj] cessasse di attaccare le due repubbliche autonome del Donbass e questo non sarebbe avvenuto”. Che non è molto diverso da quello che sostiene Putin: “Chiediamo al regime di Kiev di cessare immediatamente il fuoco, tutte le ostilità, la guerra che ha scatenato nel 2014 e di tornare al tavolo dei negoziati”, così aveva detto il presidente russo il 30 settembre 2022 nel discorso con il quale spiegava al suo popolo la decisione della mobilitazione parziale. È dunque la diversa lettura della realtà che spacca il movimento: una guerra unilaterale di stampo imperialista di Putin contro l’Ucraina, da una parte, una guerra di reazione di Putin alle varie “provocazioni” (della Nato, di Zelens’kyj ecc.), dall’altra.

Se questa è una guerra unilaterale di stampo imperialista di Putin contro l’Ucraina, allora il movimento contro la guerra non può che rivolgersi alla Russia di Putin, esattamente come hanno fatto le decine di migliaia di persone che hanno attraversato la Unter den Linden il 24 febbraio scorso. Avvolte nelle bandiere ucraine, scandendo “Slava Ukraini! (Gloria all’Ucraina)”, si sono fermate davanti l’ambasciata russa, a indicare in maniera chiara chi è l’unico responsabile di questa guerra e chi è che deve dunque deporre le armi per farla cessare. “Se la Russia smette di combattere non c’è più la guerra, se l’Ucraina smette di combattere non c’è più l’Ucraina”, recita uno degli slogan più efficaci, che riassume perfettamente lo spirito della manifestazione del 24. Molto orgoglio nazionale attraversava il corteo, ma non nazionalista. Orgoglio per un piccolo Paese avviato nel tortuoso percorso democratico che tiene testa al grande aggressore autoritario e imperialista che non vuole cancellare solo i confini geografici ma anche la storia democratica dell’Ucraina. È l’Ucraina che viene difesa in questa piazza, sì, ma l’Ucraina democratica. Non un solo accenno sciovinista, non un solo simbolo nazionalista ha circolato fra le migliaia di bandiere azzurre e gialle che hanno inondato le vie di Berlino dal Cafe Moskau (un centro congressi eretto nel 1961 come simbolo del legame fra la Ddr e l’Unione Sovietica e per l’occasione, e solo momentaneamente, ribattezzato Cafe Kyïv) fino alla Brandeburger Tor. E chissà quante di queste persone non avevano mai indossato prima i colori nazionali ucraini, chissà quante hanno scoperto uno spirito patriottico che non gli apparteneva. Chissà quanti di noi si riscoprirebbero improvvisamente attaccati alla proprio Paese se questo venisse aggredito da una potenza straniera.

Se invece la lettura della guerra è “più complicata” perché le responsabilità sono certo di Putin “ma anche” (se non soprattutto) di altri, allora il “contro la guerra” non può che rivolgersi a “entrambe le parti” che però nei fatti significa a una parte sola: l’Occidente che sostiene l’Ucraina e che deve invece smettere di inviare armi e mettersi alla testa di “una alleanza per il cessate il fuoco e negoziati di pace”, come si legge nell’appello firmato da Alice Schwarzer, storica figura del femminismo tedesco, e Sara Wagenknecht, ex leader del partito Die Linke, e sottoscritto da più di 600mila persone, che ha anch’esso portato in piazza il giorno dopo, sabato 25 febbraio, decine di migliaia persone. “Negoziare”, si legge ancora nell’appello, “non significa capitolare. Negoziare significa scendere a compromessi, da entrambe le parti. Con l’obiettivo di evitare altre centinaia di migliaia di morti e peggio”.

Una piazza, quella di sabato, dove non sventolava neanche una bandiera ucraina e dove nessun cartello, nessuno slogan era rivolto a Putin. L’obiettivo dei manifestanti raccolti da Schwarzer e Wagenknecht era completamente un altro: l’Occidente e la Nato. E a scanso di equivoci ad aprire la manifestazione di sabato un videomessaggio di Jeffrey Sachs che ha senza mezzi termini sostenuto che la colpa di questa guerra è degli Stati Uniti responsabili della caduta di Janukovyč (alle proteste di Euromaidan neanche un accenno) nel 2014. La sensazione che si avvertiva in questa piazza è che la guerra in Ucraina venisse usata per regolare un po’ di conti “interni” all’Occidente e per portare avanti lotte ideologiche e politiche che con l’attuale conflitto hanno poco a che fare.

A rispondere nella maniera più chiara all’appello di Schwarzer e Wagenknecht è stato dai microfoni della manifestazione del giorno prima il leader dei Verdi tedeschi, Omid Nouripour: “Questa è la vera grande manifestazione per la pace che si tiene questo weekend a Berlino. Fra di noi ci sono tanti che vengono dalla Georgia, dalla Bielorussia, dalla Cecenia e che sono qui perché sanno cosa accade se Putin non viene fermato. La pace non è semplice. La pace non si ottiene dicendo indistintamente a tutti ‘mettete giù le armi’. La pace non è fare come se diplomazia e armi fossero in contrapposizione. Pace è quando un popolo che viene aggredito in completa violazione del diritto internazionale è messo nelle condizioni di difendersi. Putin ripete sempre che la Germania ha una responsabilità storica nei confronti della Russia, ed è vero. Ma abbiamo una responsabilità storica anche nei confronti dell’Ucraina. E oggi che quelle stesse città ucraine dove il regime nazista ha perpetrato crimini orrendi vengono bombardate dalla Russia di Putin è nostro dovere stare al loro fianco. Se non lo facciamo vuol dire che non abbiamo imparato niente dalla nostra storia”.

C’è un dato che dovrebbe chiarire in maniera inequivocabile quale sia la giusta lettura di questa guerra: secondo i dati delle Nazioni Unite, dall’inizio dell’invasione sono morti almeno 8mila civili ucraini, più di 13 mila sono rimasti feriti, 18 milioni di civili hanno quotidiano bisogno di assistenza umanitaria per mancanza di acqua ed elettricità e 14 milioni hanno dovuto abbandonare le loro case. Niente di tutto questo riguarda i civili russi, e tanto dovrebbe bastare per capire che non ci sono due Paesi in guerra che si combattono reciprocamente ma un tentativo da parte di una grande potenza militare autoritaria di annientare un altro Paese.

Nouripour ha concluso il suo intervento con queste parole: “Certo, alla fine ci sarà un tavolo delle trattative ma se consideriamo gli ucraini come un soggetto politico a quel tavolo di fronte alla Russia siederà il presidente dell’Ucraina, e noi saremo al suo fianco. Non ci potrà essere un accordo fra grandi potenze che ignori la soggettività dell’Ucraina. Mai più accordi al prezzo del sacrificio di altri Stati, non dell’Ucraina né di altri. C’è chi dice che se l’Ucraina smette di combattere si arriverà alla pace. A costoro dico: non c’è pace sotto l’occupazione russa”.

CREDIT FOTO: MICROMEGA



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