“Le due schiavitù” degli Stati Uniti secondo Beniamino Placido

Il pamphlet "Le due schiavitù", scritto dal critico letterario Beniamino Placido nel 1975 e ora ripubblicato da Feltrinelli, si propone di esaminare il tema della schiavitù in America attraverso l'analisi di opere letterarie, cinematografiche, fumettistiche e addirittura pornografiche.

Giuseppe Balducci

La schiavitù in America è stata un fenomeno tristemente reale, ma ha anche trovato espressione in letteratura. Per marcare questa presenza e per considerarne il peso sociale, Beniamino Placido, nel 1975, scrisse il pamphlet Le due schiavitù – ora riedito da Feltrinelli –, nel quale esaminò innanzitutto due opere letterarie, per estendere la sua analisi al cinema anni Trenta, ai fumetti e persino alla pornografia: La capanna dello zio Tom (Uncle Tom’s Cabin, 1852) di Harriet Beecher Stowe e Benito Cereno (1855) di Herman Melville. Questi i due classici passati al vaglio dal celebre critico letterario e televisivo; agli occhi del quale «tentano di organizzare le tensioni ideologiche, emotive della cultura americana», costituendo un grande metatesto in cui confluiscono ideologie di oggi e di ieri.
Beniamino Placido inizia la sua analisi a partire dalla distinzione tradizionale tra letteratura popolare, cioè consolatoria, di evasione e ideologicamente irrilevante, e per questo giudicata reazionaria, e letteratura colta, cioè impegnata e finalizzata a cogliere le contraddizioni del reale, e quindi progressista. Il romanzo di Harriet Beecher Stowe sarebbe rappresentativo della prima tendenza, il Benito Cereno di Melville della seconda. Sono chiaramente due opere molto diverse, sia per valore che per fortuna: la Capanna ha «la struttura di un romanzo popolare» e ha conosciuto da subito una notevole fortuna, Benito Cereno ha «una struttura drammatica, sobria, elegante e un destino ingrato, che corre parallelo del resto a quello del suo autore».
Inutile dire come Beniamino Placido non condivida questa distinzione rigida. La realtà è molto più complessa, non può aderire ad un principio rigidamente binario. Non c’è in realtà un confine netto tra letteratura popolare e letteratura colta. Bisogna «correggere la vecchia ottica nobiliare che vede la cultura di élite e quella di massa sempre rispettivamente alla destra e alla sinistra del Signore, come il buono e il cattivo ladrone. Latrones ambo. O almeno arcades ambo. O almeno almeno, diciamo pure che ogni forma di produzione letteraria (di massa o di élite) è più o meno consolatoria, più o meno “progressiva”, più o meno “eversiva”».
Beniamino Placido supera quindi la logica binaria, che separa con l’accetta la letteratura colta dalla letteratura popolare, e accoglie una classificazione più fluida, graduale, delle categorie[1]. La prima manichea distinzione si fonda del resto su un giudizio soltanto estetico, ed è perciò ritenuta insufficiente. Placido trova opportuno implementare la “cassetta degli attrezzi” del critico avvalendosi degli strumenti d’analisi dell’economia politica. Ed è allora che avviene un ribaltamento: La capanna, da reazionario, diventa un libro progressista e Benito Cereno diventa reazionario, o almeno conservatore: «Se si vuole collocare il libro in coordinate significative, bisogna risolverlo nella politica: la politica che ha fatto, la politica che per suo tramite è stata fatta. Ancora un passo in questa direzione e sarà Benito Cereno, invece, malgrado tutta la sua nobiltà formale e di sentimento, a presentarsi come libro conservatore». Un confronto tra i due romanzi sotto l’aspetto politico torna tutto a favore del romanzo della «piccola signora che ha provocato questa grande guerra»[2] (i.e. la guerra civile americana), che avrebbe sollecitato con il suo patetismo l’indignazione del «medio lettore bianco del Nord, che di indignarsi per la schiavitù non aveva, in realtà, alcuna voglia». Era necessaria, osserva Beniamino Placido, «quella forza d’urto patetica (anche volgare, certo) per smuovere un pubblico che le analisi più recenti ci descrivono rozzo, approssimativo, insofferente degli abolizionisti e della loro propaganda».
Ma il saggio non finisce qui. Beniamino Placido fa un passo ulteriore e si rende conto di una traccia d’ambiguità che percorre tutto il romanzo di Harriet Beecher Stowe, connessa alle ragioni di fondo della guerra civile, e al suo carattere di «ultima rivoluzione capitalistica». Questa si rivela chiaramente nella protesta nera nei confronti dello “zio Tom”. Se «l’apparente paradosso in base al quale l’America libera i ne*ri per poi segregarli» si spiega con la necessità da parte del Capitale di «una forza-lavoro libera», allora la Capanna dello zio Tom appare come una «articolazione funzionale» del progetto capitalistico: «Se la paura (del ne*ro, e della riduzione di distanza dal ne*ro) ostacola il dispiegamento di questo progetto, Uncle Tom’s Cabin esorcizza il terrore; lo fa attraverso la predisposizione di una serie di modelli immaginari di comportamento che ridefiniscono le distanze dal ne*ro anche quando questi abbia avuto la libertà». E questa è la prima delle “due schiavitù” annunciate dal titolo del libro, «quella strutturale all’economia statunitense, esperita direttamente dagli afroamericani, in procinto con la guerra civile di convertirsi da forza-lavoro agricola, stabile, in forza-lavoro industriale, di cui è essenziale la mobilità»[3]. L’altra è quella «immaginata, cioè rimossa dalla cultura e dall’ideologia egemone dell’America ottocentesca e contemporanea»[4].
Nessun altro racconto di Melville – è stato osservato – soddisfa «le esigenze di suspense e di fusione senza sbavature» quanto Benito Cereno. «Si aggiunga poi che l’argomento della nave misteriosa è di per sé carico di suggestioni sinistre e poetiche»: dalla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge a La zattera della Medusa di Géricault, fino al Naufragio artico di Caspar David Friedrich[5]. Benito Cereno, la storia della nave rimasta nelle mani dei neri ammutinati, ha davvero, come scrive Beniamino Placido, «la tonalità dell’incubo». Il tema che viene qui toccato è uno dei centrali della ricerca melvilliana: l’ambiguità delle apparenze; e in Benito Cereno la cancellazione del velo di apparenza permette di scorgere una verità in cui convivono tutte le contraddizioni possibili nel dibattito sulla schiavitù. Se «quel che il pubblico voleva era un ne*ro unidimensionale: tutto buono, come Uncle Tom, per accettarlo, o tutto cattivo, come Nat Turner-Babo» (il carceriere che costringe Benito Cereno a recitare una parte) «per respingerlo. Un ne*ro dal quale fosse facile, in ogni modo, prendere e mantenere le distanze», Melville apparecchia per il lettore «non una, ma due realtà sgradevoli»: «La prima: il ne*ro “buono” ed il ne*ro aggressivo sono la stessa cosa, convivono nella stessa persona […]. La seconda: non ha senso tentare di distinguere il nero dal bianco, tentare di interporre distanze di sicurezza: il ponte di una nave è così stretto, in fondo, che i ne*ri e i bianchi ci devono assolutamente convivere, non solo, ma a contatto strettissimo, e nella prospettiva sempre presente di un rimescolamento delle parti».
Con il pretesto di raccontare una storia di mare, Melville – osserva Beniamino Placido – ci conduce dritto al cuore di una questione irrisolta che riguarda, senza distinzioni tra Nord e Sud, la cultura e la storia degli Stati Uniti: « Il Nord non può permettersi il lusso di prendere le distanze dal Sud, usandolo come capro espiatorio, ripetendo a ogni passo: ma nel Sud è peggio; il Nord è intimamente implicato nel Sud; il Nord è come il Sud; il Nord è il Sud; c’è un senso in cui Amasa Delano e Benito Cereno si scambiano le parti». E prosegue: «Il passato, sia esso passato prossimo o remoto appartiene di diritto all’America, che deve farci i conti abbandonando la futile pretesa di essere diversa, di essere migliore per investitura divina». Ciò spiega anche la scarsa fortuna che l’opera, oggi annoverata tra i capolavori di Melville, ebbe al suo apparire. Dinanzi a un testo del genere, «l’unica lettura possibile […] era la non lettura, la rimozione, la censura».

NOTA DELLA REDAZIONE: La scelta di usare la formula “ne*ro” e suoi derivati in alcune citazioni non è né dell’autore della recensione né della redazione di MicroMega, ma della casa editrice che ha curato la nuova edizione del libro qui recensito e da cui sono tratte le citazioni. La figlia di Beniamino Placido, Barbara, spiega la scelta con questa nota al testo: “Come il lettore avrà modo di osservare, questa nuova edizione di Le due schiavitù presenta la grafia “ne*ro” (con le sue varie declinazioni al femminile e al plurale) laddove il testo, in prima pubblicazione, riportava un termine il cui uso ha oggi una connotazione estremamente dispregiativa e offensiva e che non trova, o non dovrebbe trovare, più spazio. L’obiettivo non è la censura, bensì la volontà di rinnovare un testo leggendolo sotto la lente della contemporaneità, con una consapevolezza che negli ultimi cinquant’anni si è evoluta. È una consapevolezza che risulterà evidente proprio da quanto Beniamino Placido scrive nelle Due schiavitù. Semplicemente, quando l’autore lavorava a questo testo, essa non aveva ancora investito un termine che all’epoca non aveva la connotazione che gli riconosciamo ora, ma era usata come vox media. L’enorme scarto nella percezione di questa parola tra il 1975 e oggi è l’unico elemento dissonante in un testo la cui modernità sorprende anche me nel rileggerlo. Ma sono certa che, se avesse scritto Le due schiavitù ora, avrebbe proposto un testo emendato in questo senso: la decisione di inserire un asterisco da una parte dà ragione della sua scrittura, dall’altra rende giustizia al suo spirito critico e alla sua sensibilità sociale”. 

[1] Nelle postume Ricerche filosofiche (tradotte in italiano nel 1967), Wittgenstein aveva proposto un nuovo modello di classificazione delle conoscenze (detto per “somiglianze di famiglia”), che superava la tradizionale classificazione binaria aristotelica, riconoscendo tra una categoria e l’altra delle zone di sovrapposizione, dei punti in comune. Eleanor Rosch si spingerà oltre con il suo modello prototipico in cui le categorie non sono più intese in modo discreto né in modo continuo e graduale, come quelle proposte da Wittgenstein, ma sono costruite intorno a un centro ottimale dal punto di vista cognitivo che viene chiamato “prototipo”.
[2] La frase sarebbe stata pronunciata da Lincoln durante un incontro con la scrittrice della Capanna dello zio Tom, la quale, è opportuno notare, dovette risentire nella stesura del suo capolavoro dell’influenza del padre, il teologo Lyman Beecher. Questi partecipò attivamente al movimento protestante del Grande Risveglio, che aveva infatti tra le sue prerogative la lotta allo schiavismo. Cfr. F. Ferrario, Il protestantesimo dalla fine del XVI secolo ai giorni nostri, in Storia delle religioni. Ebraismo e Cristianesimo, a cura di G. Filoramo, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 531.
[3] F. Marenco, Le due (o tre) schiavitù di Beniamino Placido, in «Quaderni piacentini», 60-61, 1976, p. 199.
[4] Ibid.
[5] M. Praz, Melville tradotto male, in «Il Tempo», 2 agosto 1975, p. 3; ora in Id., Studi e svaghi inglesi, 2 voll., Garzanti, Milano 1983.



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