Il mito del “miglioramento” nella scuola italiana

Il concetto di miglioramento legato alle prove standardizzate è declinato in forma competitiva, nel pregiudizio indimostrato che se gli enti formativi cominciano a competere tra loro, questo dovrebbe innescare un circolo virtuoso. In realtà tale dinamica rischia di produrre stress e demotivazione, oltre che impoverimento culturale.

Carlo Scognamiglio

Il sistema pubblico italiano, negli ultimi vent’anni, è stato investito in ogni sua articolazione da politiche ispirate alla valorizzazione del “ciclo della performance” e all’idea di “miglioramento” continuo. A prescindere da ciò che questo concetto possa significare nelle molteplici funzioni dello Stato, è del tutto evidente che la responsabilità di risultato di un dirigente pubblico (sia esso un direttore sanitario, un dirigente scolastico o un alto funzionario di qualsiasi comparto), se correlata a obiettivi di empowerment, implicherà una traduzione quantitativa di quel concetto, tale da poter produrre comparazioni con altri istituti analoghi (pubblici o privati) oppure con le proprie performance precedenti.

Ma la parola “miglioramento” contiene in sé qualche insidia, dal momento che in termini di senso comune nessuno potrebbe sostenere di preferire il “peggioramento” in quanto tale. Quindi è un concetto ovvio. Ma ciò che è ovvio, direbbe Hegel, proprio per questo non è conosciuto.
Uno dei riferimenti-chiave del concetto di “miglioramento” nel sistema scolastico ha a che fare con i dati delle prove standardizzate, nazionali o internazionali. Ammesso e non concesso che lo scopo ultimo della scuola sia quello di aumentare i livelli di apprendimento nelle competenze linguistiche e matematiche, e ammesso (ma non concesso) che i sistemi di rilevazione standardizzati siano effettivamente in grado di misurare quegli stessi livelli, è del tutto evidente che per ciascuno Stato un sistema scolastico sarà considerato in “miglioramento” nella misura in cui avrà guadagnato posizioni in una graduatoria globale, nel passaggio da un anno all’altro. Ma questo può accadere solo se altri Stati peggiorano, o rimangono in condizione statica. Perché se crescessero tutti allo stesso modo (cosa che qualunque pedagogista dovrebbe augurarsi), non si registrerebbe alcun miglioramento per via comparativa.
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Si potrà dire però che ciascuno può potenziare sé stesso, rafforzando i propri risultati. Ma attenzione: il livello di sufficienza in qualsiasi competenza non è un valore assoluto, giacché è derivato dalla media di risultato di un determinato gruppo sociale e di una circoscritta fascia anagrafica, rispetto a un pattern di compiti. Se tutti migliorassero contemporaneamente, salirebbe anche la soglia della sufficienza, e dunque nulla sarebbe modificato nel quadro generale. Non si registrerebbe alcun miglioramento.
Vale lo stesso per le misurazioni Invalsi nelle scuole. Osserviamo che nella restituzione Invalsi ogni anno vengono fornite alle scuole delle schematizzazioni degli esiti delle prove in cui – utilizzando freccette colorate – l’Agenzia per la valutazione esterna fornisce alle scuole una sorta di feedback sul proprio grado di successo o insuccesso rispetto a istituti analoghi nella medesima regione o rispetto al quadro nazionale. Ma lo schema logico è il medesimo: una scuola sarà definita in “miglioramento” se inverte l’orientamento della propria freccia (dal basso verso l’alto). Dunque sarà migliorata solo se le altre scuole saranno a loro volta rimaste ferme o, peggio ancora, avranno registrato un calo di risultati. Finiremo tutti a fare il tifo per i fallimenti altrui?

Il concetto di miglioramento è dunque declinato in forma competitiva, nel pregiudizio indimostrato che se gli enti formativi cominciano a competere tra loro (sui risultati d’apprendimento nelle prove standardizzate, in particolare), questo dovrebbe innescare un circolo virtuoso. In realtà tale dinamica rischia di produrre stress e demotivazione, oltre che impoverimento culturale.

Una recente pubblicazione di Francesco Milito, dedicata ad Autovalutazione d’Istituto e Rendicontazione sociale (Anicia, 2023), documenta una comparazione tra i documenti “strategici” di alcuni istituti scolastici, proponendo un modello di interpretazione degli stessi. Si tratta di un lavoro onesto ed equilibrato, che si può ricondurre interamente al lessico e alla logica del Sistema Nazionale di Valutazione. E proprio per questo contiene alcuni passaggi particolarmente interessanti, aiutandoci a ribadire il nostro sospetto iniziale di una sorta di traslazione distorta di un concetto amministrativo-gestionale (dove pure ha una sua legittimità e necessità) in ambito educativo. Si prenda infatti la pagina con cui l’autore inaugura il terzo capitolo, dedicato alla “Rendicontazione sociale”: in una sola pagina la parola “miglioramento” viene ripetuta ben otto volte, e definita come “elevazione della qualità del servizio”. Posta la discutibilità della concezione della scuola come servizio (semmai potremmo considerare come servizi la refezione scolastica o lo scuolabus, a cui evidentemente il progetto formativo ed educativo non può essere ridotto o ricondotto), non è del tutto chiaro come si possano misurarne in modo univoco la qualità e la sua “elevazione”.  Secondo quali referenti intenderemo il “servizio reso”: chi sarebbe stato reso? Agli alunni? Alle famiglie? Alle imprese dislocate sul territorio? Evidentemente la risposta, nella declinazione del verbo “servire”, non potrà essere la medesima. Ecco perché, nel mettere a fuoco un “punto di debolezza” di un istituto scolastico, l’autore evidenzia “un curricolo rispondente ai bisogni formativi degli studenti, ma non alle attese educative e formative del contesto locale” (p. 45). Il “servizio” scolastico dovrebbe dunque essere declinato in favore del contesto socio-economico, e non ai reali bisogni formativi delle persone, per essere considerato degno di una buona valutazione (e auto-valutazione) che ne attesti la qualità.
Ma la scuola non è un servizio, è una funzione dello Stato.

Non manca il passaggio dedicato a esiti misurabili e comparabili delle prove. Infatti, tra i “punti di forza” di un istituto, si osserva: “la scuola, a livello di classi parallele e di dipartimenti, ha progettato prove strutturate in uscita per tutte le discipline” (p. 46). E anche qui, si tratta di un’ingiustificata convinzione purtroppo assai diffusa. A proposito delle prove parallele o prove comuni, specialmente se strutturate (cioè a risposta chiusa), non mi risulta sia mai stato dimostrato che possano avere alcun impatto significativo sulla qualità dell’insegnamento o dell’apprendimento; rappresentano solo un carico di lavoro aggiuntivo non necessario, utilizzato per lo più come strumento di controllo, in qualche caso venerato come un feticcio di oggettività. Sono dispositivi didattici che sortiscono per lo più l’effetto di scoraggiare la creatività di insegnanti capaci di approcci educativi sperimentali o alternative a prassi reiterate, talvolta inefficaci per una parte della classe.
Appare dunque del tutto equivoco qualche abuso terminologico nel riferirsi ai sistemi educativi, che hanno una peculiare specificità, rispetto ad altri comparti della spesa pubblica. Il “miglioramento” particolare, secondo l’incremento di dati quantitativi nei risultati, è bene precisarlo, non corrisponde in senso proprio ai compiti sociali e pedagogici assegnati alla scuola repubblicana, la cui finalità è invece l’emancipazione generale.

 

Foto Pixabay | airunique

 



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