Le lezioni di Kabul. Il business della guerra e il nuovo ordine mondiale

“Esportare la democrazia” con le armi ha causato 240 mila morti, di cui oltre 71mila civili, moltiplicando profitti e potere dell’industria bellica. L’ordine mondiale non può più essere assicurato da USA e Nato.

Giorgio Pagano

Vent’anni fa, tra l’11 settembre e il 7 ottobre 2001, dopo l’attacco terroristico di Al Qaeda alle Torri Gemelle a New York, si scatenò la vendetta degli USA e dei loro alleati contro i “nemici dell’Occidente”. La scelta cadde sull’occupazione dell’Afghanistan, nonostante nessuno degli attentatori fosse cittadino afghano. I terroristi erano in realtà legati all’Arabia Saudita, fedele alleata di Washington. Osama Bin Laden, il saudita che rivendicò l’attentato, si rifugiò in Pakistan, dove fu ucciso nel 2011. La guerra come risposta all’attentato dell’11 settembre si basò dunque su una prima finzione, subito seguita dalle menzogne sulle armi di distruzione di massa detenute da Saddam Hussein, che furono all’origine dell’invasione americana dell’Iraq.

Fu una sorta di crociata. Chi allora avanzava dubbi era tacciato di simpatizzare con Bin Laden. La retorica dominante, guidata in Italia da “la rabbia e l’orgoglio” (titolo di un articolo e poi di un libro di Oriana Fallaci), imponeva una visione salvifica dell’intervento militare, considerato necessario per sradicare il terrorismo e per imporre la democrazia in quei Paesi. Due obiettivi entrambi falliti: nei vent’anni di guerra al terrorismo le vittime della guerra del terrorismo sono state centinaia di migliaia, mentre la democrazia – che non è un set di valori, e quindi un prodotto d’esportazione – non è stata esportata.

Nella generale sconfitta, c’è tuttavia chi ha vinto: il complesso industriale-militare, l’industria bellica che in vent’anni ha visto straordinariamente lievitare profitti e potere. Un mondo che dalla caduta del comunismo nel 1989 all’11 settembre 2001 era entrato in crisi, in assenza dell’avversario epocale, e che fu “salvato” da Osama Bin Laden e dalle guerre disastrose che dal 2001 generarono il grande riarmo degli Stati Uniti, e non solo. Gli Stati Uniti hanno speso per la guerra in Afghanistan più di 2 mila miliardi di dollari, l’Italia almeno 8,5 miliardi di euro. Tutte armi che ora sono rimaste ai talebani. Spiegano Francesco Vignarca e Giorgio Beretta su “il manifesto” del 20 agosto 2021:

«[…] questo conflitto è alla base della crescita poderosa e inarrestabile delle spese militari mondiali, comprese quelle dedicate a nuove armi, dopo il calo post Guerra fredda. L’infinita “guerra al terrorismo”, emersa come mantra politico nelle relazioni internazionali dopo l’attacco alle Torri Gemelle ha fornito agli Stati di tutto il mondo e alle lobby transnazionali degli armamenti il pretesto e la giustificazione politica per dedicare sempre più risorse e fondi a eserciti e armamenti. Lo testimoniano i dati del Sipri di Stoccolma, che evidenziano l’enorme crescita delle spese militari, quasi un raddoppio tra il 2001 e il 2020 (da 1.044 a 1.960 miliardi di dollari a valori costanti comparabili) con un trend in aumento che è destinato a rafforzarsi negli anni a venire. E che ha garantito in questi ultimi due decenni risorse e contratti facili ai produttori di armamenti».

Anche l’Italia ha avuto la sua parte, pur non brillando: Alenia ha venduto agli USA per l’Afghanistan gli aerei da trasporto G. 222, del tutto inadatti e presto rottamati (i relitti giacciono presso l’aeroporto di Kabul).

Un ruolo crescente lo hanno avuto le compagnie militari private. Una parziale “privatizzazione della guerra”, che ha significato un aumento di violenze, torture, traffici di armi proibite.

Tutto ciò ha avuto un costo umano enorme per gli afghani. Gli attentati terroristici sono aumentati del 3800% dal 2001 al 2014, la metà dei quali in Afghanistan e Iraq. Dal 2015 al 2020 gli USA hanno lanciato oltre 13 mila attacchi con droni, causando circa 10 mila vittime, tra cui numerosi civili. Nel complesso la guerra afghana ha provocato 240 mila morti, di cui oltre 71 mila civili.

Aveva ragione, contro la Fallaci, il giornalista e scrittore Tiziano Terzani, su “Il Corriere della Sera” del 4 ottobre 2001:

«Quel che sta accadendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci all’inevitabilità di nulla, tantomeno all’inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio».

Aveva ragione Gino Strada. Avevano ragione le centinaia di migliaia di persone che nell’ottobre del 2001 marciarono da Perugia ad Assisi, che nel gennaio e nel novembre 2002 si ritrovarono nel Forum sociale mondiale di Porto Alegre e in quello europeo di Firenze, che nel febbraio 2003 marciarono a Roma e in tutte le capitali del pianeta. Ma il movimento, definito “l’altra superpotenza mondiale”, fu sconfitto.

Chissà, forse il complesso militare-industriale sta preparando una nuova guerra. Il movimento arcobaleno che sognava un altro mondo possibile si è disperso, vive in tanti frammenti. Deve rendersi visibile, tornare a pesare politicamente.

La questione chiave è quella dell’esportazione della democrazia. Che tra l’altro l’Occidente vorrebbe esportare dove gli fa comodo. Perché se ti comporti bene con Washington, a casa tua puoi comportarti come ti pare. Come l’Arabia Saudita, che è una monarchia assoluta che tratta le donne come i talebani, a cui però non chiediamo conto di nulla perché sono i migliori clienti delle nostre armi e sostengono il complesso militare-industriale americano. Un’ipocrisia vergognosa.

In ogni caso la democrazia non si esporta. La cultura occidentale si presuppone universale ma è etnocentrica. Ovviamente anche le altre culture lo sono. E quindi reagiscono in chiave identitaria. In Afghanistan i mujahaddin, appoggiati dagli americani, avevano già resistito contro i sovietici negli anni Ottanta. Come non pensare che resistessero anche agli americani? Noi occidentali siamo nel mondo, ma non siamo il mondo: le popolazioni europea, americana, canadese, australiana rappresentano nel loro insieme circa un decimo del totale della popolazione mondiale, e un reale governo del mondo deve essere policentrico, non può avvenire a trazione forzosa e minoritaria. La globalizzazione neoliberista non può prevedere di standardizzare tutto. Gli ideali universali della democrazia vanno storicamente declinati in luoghi e tempi determinati, attraverso vie molteplici. La democrazia è l’esito politico di un processo storico e sociale complesso e conflittuale, di cui sono protagoniste le forze interne dei popoli. Abbiamo dimostrato invece una sciagurata ignoranza della storia e della cultura delle forze interne dei popoli. Non abbiamo minimamente studiato cos’è l’islamismo, il rapporto tra islamizzazione e ribellione all’allargarsi delle diseguaglianze sociali, la presenza nell’Islam dell’elemento democratico, addirittura dell’elemento nonviolento anti fondamentalista. Pochi sanno che Abdul Ghaffar, detto Badshah Kahn – il Gandhi musulmano – operò proprio in Pakistan e in Afghanistan, fondando il primo “esercito” nonviolento della storia addestrato professionalmente, per cui pagò con due attentati e trent’anni di prigionia.

Rinunciare alla pretesa, sbagliata e ingenua, di esportare la democrazia non significa dunque rimanere impotenti di fronte alla violazione dei diritti e delle libertà democratiche. Ma non servono le armi: servono la diplomazia, la cooperazione, gli interventi civili, l’impegno dei diretti interessati a lottare per se stessi.

Da questo punto di vista non dobbiamo tralasciare l’importanza del ruolo giocato, nella vicenda afghana, dalla situazione economica e sociale e dagli aiuti internazionali. Le diseguaglianze sono oggi maggiori di ieri. La maggioranza degli afghani non era entrata nell’élite costruita dagli occidentali, ha visto morte, distruzione, aumento della miseria. Nessun vantaggio dalla presenza occidentale, se non per piccole fasce urbane impiegate nell’indotto degli aiuti. Ecco perché i talebani hanno continuato a fare proseliti.

Una riflessione non può non riguardare anche gli aiuti internazionali. I governi donatori hanno investito per lo sviluppo del Paese un ventesimo di quanto speso per guerreggiare. E solo un decimo di quel ventesimo è stato investito in progetti agricoli, in un paese in maggioranza contadino. I cooperanti avevano salari e tenori di vita troppo distanti da quelli delle masse degli esclusi. Soprattutto la logica che guidava i loro progetti era quella, come a volte succede, di rispondere alle convenienze dei donatori e non a quelle delle popolazioni. La cooperazione allo sviluppo va “decolonizzata”, e il beneficiario non va più nemmeno definito tale: perché non deve essere “oggetto” degli aiuti, ma ne deve diventare “soggetto”, coprotagonista insieme al donatore. Il “faro” deve essere l’autodeterminazione della società civile, l’autogoverno, la costruzione di un tessuto civile coeso. Nessun governo regge a lungo se non offre risposte a queste esigenze. Figuriamoci se può reggere un progetto d’aiuto. A fine agosto si è tenuto il vertice del G5 Sahel (Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Burkina Faso). Il Presidente burkinabé, Roch Marc Kaborè, al termine ha dichiarato: «[…] necessitiamo di fondi della comunità internazionale per programmi di sviluppo, visto che i gruppi jihadisti capitalizzano le lamentele locali e che le soluzioni devono arrivare proprio da lì». Programmi che devono vedere le popolazioni locali protagoniste.

Ma la vera, grande riflessione da fare è sull’ordine mondiale. Scomparsa l’URSS è venuta meno pure la funzione dell’alleanza atlantica, che si è riciclata nel ruolo di esportatore della democrazia, affidatogli dagli USA. Un compito decisamente non adatto per un organismo militare come la Nato, come i fatti si sono incaricati di dimostrare. L’ordine mondiale non può dunque essere assicurato dagli USA e dalla Nato. Con la caduta di Kabul un’era è finita e se ne apre un’altra. Ritorna d’attualità il tema del ruolo universalistico delle Nazioni Unite. E quindi l’elaborazione di Gorbaciov sull’interdipendenza, che pose fine alla Guerra fredda anche se durò lo spazio di un mattino. Certo è che non ha fondamento l’idea di un anacronistico blocco militare atlantico contro “l’alleanza sino-islamica”. Il «vero dramma», ha scritto Barbara Spinelli su “il Fatto” del 20 agosto 2001, sta nell’«incapacità di costruire un sistema di sicurezza internazionale che oltrepassi il multilateralismo – la forma gentile dell’atlantismo – e diventi infine multipolare, composto di potenze non omologabili alle idee di civiltà di volta in volta dominanti in Occidente». L’unico sistema in cui forse potrebbe trovare soluzione il problema dell’attuale inconsistenza dell’Europa.

 

(credit foto EPA/STRINGER)



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