Le mafie come “sistema sociale” e l’attacco al reddito di cittadinanza

Le mafie approfittano della povertà per sostituirsi allo Stato. Un welfare criminale favorito dall’assenza in Italia di un vero sistema sociale universalistico.

Alessandro Bellardita

Le mafie hanno sempre lucrato sulla mancanza di un vero e proprio sistema sociale. Non a caso, proprio negli ultimi due anni, in piena pandemia, i vari clan hanno approfittato di un’economia messa in ginocchio dal Covid. Quando le imprese e le famiglie cominciano a boccheggiare, i clan sono sempre pronti a prestare soldi. E quando le banche perdono tempo oppure negano un prestito, c’è sempre un affiliato dietro l’angolo ad aspettare il suo turno per mettere a disposizione il suo “denaro”. È anche con questa chiave di lettura che vanno interpretate le parole di Marcelle Padovani nella prefazione alla prima edizione di Cose di Cosa Nostra: “La mafia che si fa Stato dove lo Stato è tragicamente assente”[1].

Non a caso, dal 2020 le denunce di reati legati all’usura sono aumentate del 9,7 per cento[2]. Secondo la Direzione investigativa antimafia, “è evidente che le organizzazioni […] si stanno proponendo come welfare alternativo a quello statale, offrendo generi di prima necessità e sussidi di carattere economico”. Si tratta, dunque, “di un vero e proprio investimento sul consenso sociale, che se da un lato fa crescere la rispettabilità del mafioso sul territorio, dall’altro genera un credito, da riscuotere, ad es. come pacchetti di voti in occasione di future elezioni”[3].

Inoltre persiste il problema ormai cronico legato alla disoccupazione di massa: nelle periferie italiane, specialmente del Meridione, dove il lavoro scarseggia, sono le mafie a garantire l’esistenza di molte famiglie. Se poi si considera che più della metà dei disoccupati sarebbe disposta a lavorare per le mafie[4], la situazione diventa paradossale. Difatti secondo una ricerca condotta in Puglia e in Basilicata, è proprio la criminalità organizzata a ridurre il Pil dal 15 fino al 20 per cento e a incrementare il problema legato alla disoccupazione[5]. È un autentico circolo vizioso: se è vero che la criminalità organizzata trova terreno fertile dove imperversa la disoccupazione, è anche vero che questa è una conseguenza della presenza dei clan. Infatti, una grande azienda con concrete intenzioni di investire il proprio denaro non costruirebbe mai uno stabilimento laddove comandano i clan. Troppo rischioso.

Ed ecco il punto: come sostiene il sociologo Rocco Sciarrone, la specificità della mafia rispetto ad altre organizzazioni criminali sta proprio nelle funzioni di protezione e di controllo delle attività economiche e sociali che si svolgono su un determinato territorio. Le mafie si contraddistinguono soprattutto “per la capacità di radicarsi in un territorio, di disporre di notevoli risorse economiche, di controllare le attività comunitarie e di influenzare la vita politica e istituzionale a livello locale, ricercando un certo grado di consenso sociale”[6].

Se da una parte è dunque vero che le mafie approfittano della povertà, del precariato e della disoccupazione, è altrettanto vero che dovrebbe essere lo Stato a intervenire per arginare le conseguenze di questi fenomeni. Non a caso proprio l’art. 38 della Costituzione italiana prevede che ogni cittadino “inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”. Inoltre sempre l’art. 38 riconosce ai lavoratori un “diritto” ai “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di […] disoccupazione involontaria”. Un sistema sociale universalistico, che preveda un reddito di cittadinanza, un sussidio di disoccupazione e persino, in casi estremi, un sussidio sociale per garantire un’esistenza dignitosa ai cittadini che per un motivo o l’altro non possono lavorare, è un modo efficace per contrastare la criminalità organizzata. Ciò infatti aumenterebbe notevolmente le difficoltà di reclutamento di persone disposte a violare la legge pur di sbarcare il lunario e inoltre comporterebbe la fine del welfare criminale, dove le mafie sostituiscono lo Stato proprio nel momento in cui i cittadini avrebbero, invece, bisogno di un sostegno sociale.

Purtroppo in Italia il sistema sociale per molti anni non è stato inteso in senso universalistico (come invece è ad es. in Germania, Francia o Inghilterra). Come chiarisce Giovanni Perazzoli in Contro la miseria, la politica italiana del dopoguerra, nonostante la repentina espansione dei sussidi sociali per la disoccupazione nel resto d’Europa, ha voluto consolidare il “fronte mutualistico”, retaggio dello Stato sociale fascista, che all’universalismo preferiva semmai il particolarismo[7]. In questo contesto il welfare italiano è stato per decenni incentrato sulle pensioni e sul sistema sanitario. Solo per alcune fasce di lavoratori era previsto il sussidio di disoccupazione e solo per un breve periodo. Con il decreto legge n. 4 del 28 gennaio 2019, convertito poi con modifiche nella legge n. 26 del 28 marzo 2019, l’Italia ha – finalmente – promosso il reddito di cittadinanza. Questa legge va sicuramente nella direzione giusta, anche se sussistono criticità nel disegno della misura, che andrebbero modificate per renderla più equa ed efficace. Queste riguardano soprattutto i criteri di accesso alla misura e la difformità nel grado di sostegno al reddito a seconda dell’ampiezza della famiglia[8].

Un sistema sociale equo ed efficace è stato invece fin dall’inizio una colonna portante della Germania. L’art. 1 della Costituzione tedesca mette infatti al centro dell’intera architettura costituzionale proprio la dignità umana (Die Würde des Menschen ist unantastbar) e dichiara che lo Stato tedesco – nell’art. 20 – è uno Stato “sociale” (sozialer Bundesstaat). Non a caso già nel lontano 1954, in una sentenza della Corte federale amministrativa, si riconosceva a ogni cittadino tedesco il diritto a un’esistenza minima e dignitosa[9]. E pochi anni dopo, nel 1961, il Bundestag varò la legge federale sul sussidio sociale (Bundessozialhilfegesetz), che prevedeva, per l’appunto, un sussidio sociale di tipo universalistico.

In Italia invece tutto questo non avvenne. Tra il 1945 e il 1946, secondo la documentata ricostruzione dello storico Paolo Mattera, si registrò una vera fioritura di pubblicazioni e di interventi volti a commentare “i modelli esteri” di previdenza sociale e a proporne l’adozione anche in Italia[10]. È documentabile anche l’interesse da parte del democristiano Alcide De Gasperi e del socialista Pietro Nenni. Anche la confederazione sindacale Cgil di quei tempi si era espressa a favore di un welfare universalistico. Tuttavia, dopo questo iniziale interesse, prevalse la diffidenza, soprattutto da parte del mondo imprenditoriale, che temeva l’onere di maggiori contributi[11]. In questo modo il progetto di un welfare state moderno fu accantonato. Ma quando lo Stato non garantisce un sistema sociale, i cittadini debbono arrangiarsi: c’è chi emigra, chi magari lavora in nero e chi, purtroppo, sceglie la strada della delinquenza. In questo contesto il ruolo della famiglia diventa ovviamente anche quello di sostituire la previdenza sociale da parte dello Stato. Se poi si considera che il pensare mafioso è un modo di essere ereditato e trasmesso personalmente proprio in seno alle famiglie, i giochi sono fatti, tutto sembra combaciare.

Ancora oggi in Italia possiamo notare una diffusa diffidenza nei confronti del sistema di previdenza sociale, in particolare verso il reddito di cittadinanza. Ai politici che lo vorrebbero abolire, ai critici che lo attaccano per motivi teorici-ideologici, si aggiunge, aggravando la già scarsa considerazione da parte dell’opinione pubblica nei confronti di chi percepisce il reddito di cittadinanza, una serie di notizie di cronaca che riguarda proprio mafiosi, i quali avrebbero usufruito del reddito di cittadinanza e, dunque, truffato lo Stato. Nel Catanese per esempio all’inizio del 2022 sono stati denunciati cinque esponenti del clan Santapaola per avere percepito irregolarmente il reddito di cittadinanza[12]. La stessa cosa è emersa nel corso di un’operazione della Guardia di finanza condotta in Puglia, denominata Veritas. Gli indagati sarebbero oltre cento persone: gli interessati avrebbero percepito illecitamente il reddito di cittadinanza per complessivi 900.000 euro[13]. Anche in Calabria non sembrano mancare i “furbetti”: i finanzieri del Comando provinciale di Catanzaro hanno scovato nel 2021 oltre ottanta persone nell’ambito delle attività finalizzate al controllo della spesa pubblica nazionale in collaborazione con l’Inps[14]. Il danno nei confronti dello Stato pare ammontare a circa 700.000 euro.

Ogni sistema ha purtroppo delle lacune. Non è sempre possibile da parte delle amministrazioni individuare chi abusa dei diritti sociali. Quel che resta da queste vicende, oltre al sapore amaro nel vedere sperperare i contributi dei cittadini onesti, è una diffidenza ancor più accentuata nei confronti del reddito di cittadinanza. A questo punto, però, sorge una domanda: possiamo escludere che i mafiosi, proprio perché vedono nel reddito di cittadinanza un “nemico”, un “concorrente” sul loro territorio, abbiano magari l’intenzione di far screditarlo, aggirandolo, abusandone, coltivando in questo modo la speranza che la politica reagisca abolendolo?

[1] Falcone/Padovani, Cose di Cosa Nostra, p. 28.

[2] Vedi: Luigi Ciatti, Usura e Covid, ecco come la pandemia ha arricchito le mafie, Domani, 29.8.2021.

[3] Riportato da: RetiSolidali, 17.7.2020 (https://www.retisolidali.it/dalle-mafie-un-welfare-alternativo-che-nella-crisi-prospera).

[4] Ricerca dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, promossa dalla Coldiretti con la presidenza del comitato scientifico del procuratore Gian Carlo Caselli (2014).

[5] Si tratta di una ricerca condotta da Paolo Pinotto (Bocconi, Milano) nel 2017 e riportata dal sito www.piolatorre.it.

[6] Rocco Sciarrone, Il capitale sociale della mafia. Relazioni esterne e controllo del territorio, Quaderni di sociologia, 18/1998, p. 53.

[7] Giovanni Perazzoli, Contro la miseria, Laterza (2014), p. 32.

[8] Chiara Saraceno, Quali sono i veri limiti del reddito di cittadinanza, lavoce.info, 16.11.2021. Uno straniero, a. es., per avere il diritto al reddito di cittadinanza, dev’essere residente in Italia da almeno dieci anni.

[9] Sentenza del Bundesverwaltungsgericht del 24.6.1954 – numero d’ordine: V C 78/54, NJW 1954, 1541. Vedi anche sul sistema sociale tedesco: Alessandro Bellardita, I Vostri diritti in Germania, pp. 130.

[10] Paolo Mattera, All’alba della Repubblica: i progetti di riforma sociale degli anni Quaranta e la “Commissione D’aragona”, in Momenti del welfare in Italia. Storiografia e percorsi di ricerca, Viella (2012), p. 93.

[11] Giovanni Perazzoli, Contro la miseria, Laterza (2014), p. 32.

[12] Fabio Albanese, Reddito di cittadinanza a mafiosi, 5 denunce nel Catanese, La Stampa, 21.1.2022.

[13] 20.10.2021 (www.ilmessaggero.it/italia/mafiosi_reddito_di_cittadinanza_puglia_bari_barletta_andria_trani_operazione_finanza_sequestri_900mila_euro-6269362.html)

[14] Il Tempo, 17.3.2021 (www.iltempo.it/attualita/2021/03/17/news/reddito-cittadinanza-furbetti-condannati-per-mafia-26570675).

(credit foto ANSA/CARABINIERI)



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