Le molestie sessuali nel mondo della comunicazione sono casi di “competitive porn”

I casi di chat pornografiche e molestie sessuali nel mondo della comunicazione emersi di recente in Italia non stanno ancora sfociando in una esplosione diffusa di rabbia da parte delle donne né in una presa di coscienza collettiva all'altezza del problema. Questo perché le logiche competitive e ipocritamente inclusive vigenti nell'industria rendono molto difficile comprendere che le molestie e il "competitive porn" sono meccanismi per ribadire le gerarchie di potere.

Federica D'Alessio

Se ne sta iniziando a parlare, molto timidamente, sui giornali e nei gruppi di professionisti: sono avvenuti ripetuti casi di molestie sessuali nel mondo della comunicazione pubblicitaria italiana, con almeno una personalità di spicco accusata di aver usato la sua posizione di potere per molestare ripetutamente stagiste e giovani professioniste, “dal 2007 al 2016” secondo le parole di un noto pubblicitario, Massimo Guastini, che in una recente intervista ha fatto il nome di un suo collega – a oggi espulso dall’associazione professionale Adci; sul suo conto non pendono denunce né indagini giudiziarie – legandolo a numerosi episodi di molestie e approcci abusanti che sarebbero avvenuti in quegli anni. Almeno uno di questi è stato confermato da una professionista da cui Guastini aveva raccolto a suo tempo la denuncia – parliamo di un episodio del 2011 – e che ha protetto, rispettando la sua volontà come quella di tante altre donne che con lui si sarebbero confidate: finché lei stessa non ha raccontato, anche ai microfoni di Radio Popolare, l’episodio di molestia vissuto da stagista, appena ventenne.

Ma la vicenda delle molestie non si esaurisce con l’accusa a una singola persona: sempre Guastini, in quell’intervista, ha reso nota l’esistenza di una chat professionale, cui prendevano parte tutti i dipendenti uomini di una grande agenzia di comunicazione milanese parte di un gruppo internazionale, il gruppo We Are Social – in cui in maniera sistematica le dipendenti donne venivano rese oggetto di fantasie di stupro, commenti volgari sul loro aspetto, classifiche di valutazione del loro corpo. Anche in questo caso, le umiliazioni sul piano sessuale erano un tutt’uno con le umiliazioni sul piano professionale: in agenzia esisteva, a quanto hanno raccontato diversi ex dipendenti, una stanza dai vetri trasparenti che era quella in cui avvenivano i rimproveri e le reprimende affinché potessero essere a vista di tutti, creando in un questo modo un clima mortificante e intimidatorio, che valeva per uomini e donne; secondo i racconti fatti e da più persone confermati, quando alcune dipendenti avrebbero provato a denunciare le molestie e le umiliazioni subite in azienda, loro stesse invece di ricevere ascolto sono state sottomesse all’umiliazione della reprimenda trasparente. In queste ore è stato reso noto che l’agenzia We Are Social ha deciso di avviare un’indagine e si è autosospesa dall’associazione Una – Aziende di comunicazione unite – che ha preso atto della scelta con queste motivazioni: “Riteniamo necessario questo passo, a tutela e garanzia di tutto il settore e della stessa WAS, che avrà la possibilità di chiarire l’accaduto. Molte aziende hanno già intrapreso da anni percorsi importanti di diversità, equità e inclusione, definendo linee guida e adottando codici di controllo e prevenzione dei comportamenti. Quello che vogliamo fare è creare percorsi applicabili a tutte le agenzie associate, anche le più piccole, affinché si abbia sempre più cura delle relazioni che si sviluppano all’interno dei luoghi di lavoro nel rispetto di ogni singola lavoratrice e ogni singolo lavoratore, tutelandone la diversità e la dignità”.
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Il fantoccio dell’inclusione
E proprio qui, su queste motivazioni, occorre una riflessione che vada oltre il fatto di cronaca. A differenza di quanto affermano tanti titoli giornalistici in queste ore, e nonostante siano state diverse le voci di professioniste che hanno affidato ai social il racconto di vicende di molestie subite in prima persona, i toni che il mondo della comunicazione – dai vertici istituzionali alle discussioni che avvengono nei gruppi professionali, fino ai singoli profili delle varie personalità conosciute nel settore –  sta scegliendo per affrontare questa vicenda, al netto di alcune eccezioni, sono toni deboli. La sensazione generale è in realtà che non siamo, sicuramente non siamo ancora, di fronte a un travolgente #metoo. Se si confrontano per esempio le reazioni su queste vicende all’esplosione scandalizzata di commenti che il settore della comunicazione ha riservato poco tempo fa alla vicenda della campagna “Open to meraviglia”, la differenza di temperatura e intensità di reazione salta subito all’occhio.

C’è timidezza e riluttanza a far uscire fuori queste vicende, e un tentativo goffo di provare ad andare avanti con il business as usual che stride, in modo che fa male, con il presunto livello culturale del settore in cui tutto ciò è avvenuto. Perché da questa considerazione non si può prescindere: l’industria pubblicitaria e della comunicazione da anni ha puntato tutto sulla formazione in base ai termini della Inclusion and Diversity. Stiamo parlando di un segmento che spende copiose risorse – ma anche macina ingenti profitti – nella “formazione”, attraverso scelte meticolose sul linguaggio e la convalida di tutte le identità esibite attraverso costanti meccanismi di virtue signaling sui propri profili social, nell’uso dei pronomi che rispettano le identità di genere e via discorrendo. Tutte buone pratiche che non spostano di un millimetro la consapevolezza delle radici profonde di atteggiamenti misogini e abusanti, anzi attraverso il linguaggio tendono a coprirle, a mascherarle, come una colata di correttore sul viso.

Quando è emerso il nome dell’agenzia di comunicazione nella quale, stando alle denunce raccolte, sarebbero andati avanti sistematicamente per anni non “episodi di sessismo” bensì scambio di materiale verbalmente pornografico che aveva per oggetto le proprie colleghe (specialmente i professionisti della parola  dovrebbero sapere che le fantasie di stupro messe per iscritto hanno equivalente potenza di quelle per immagini), è emerso infatti immediatamente, candidamente ammesso da alcuni manager, come l’agenzia difendesse la sua reputazione attraverso il solito paradigma formativo. Come se fosse davvero possibile fermare chi si lascia andare alla violenza verbale ribadendo l’importanza dell’inclusione, e non innanzitutto attraverso la stigmatizzazione del comportamento violento e di chi lo mette in pratica: l’unico strumento efficace, da che esiste la comunità umana, per evitare che le persone che hanno già messo in atto comportamenti nocivi continuino a nuocere ad altre persone. Quindi in questo caso, i richiami, i licenziamenti, gli allontanamenti. Al contrario, partecipare a quella chat per molti neoassunti sembrava quasi una speranza di scorciatoia per farsi notare da altri colleghi. Una forma di inclusione, in poche parole. Perché il problema non è e non è mai stato, appunto, includere, bensì in cosa includere.

Competitive porn
Non si può parlare di sessismo, di fronte a vicende simili. Quando sono gli ex mariti o fidanzati che espongono le donne a questo tipo di umiliazioni condividendo le loro immagini e invitando altri uomini alle fantasie di stupro su di loro, si parla di revenge porn. In questo caso, forse è giusto parlare di competitive porn. Una forma di violenza che è tutta interna alla convivenza competitiva sul posto di lavoro, in un mondo come quello della comunicazione in cui le donne rappresentavano fino a qualche anno fa il 65% della forza lavoro (in forte flessione dopo la pandemia), molte di esse sono giovani ma soprattutto, come evidenzia il rapporto dell’associazione di settore Una, sono tenute saldamente fuori dai ruoli apicali.

E qual è uno dei modi più efficaci per tenerle fuori? L’umiliazione, quella che le femministe di più lunga data chiamano la “reificazione” del corpo, la deumanizzazione. È competitive porn perché quel modo di fare pornografia verbale sulle colleghe è, ed è sempre stato, un modo per esorcizzare la competizione nei loro confronti, per sminuirne le qualità umane, per ridurle a corpi da stupro in modo che non diventassero mai un serio problema le loro capacità professionali; molto probabilmente superiori, o forse no, in ogni caso in grado di far vacillare, per numeri e per risultati, le tradizionali gerarchie di potere dentro l’agenzia. È competitive porn perché esprimere giudizi di sminuzione verso le persone, adoperando per di più i sistemi che abbiamo scoperto esistere, come le vetrate dell’umiliazione in bella vista, in un sistema di altissimo livello meritocratico come quello pubblicitario serve a levare di mezzo, a spingere diversi gradini più in basso le proprie rivali sul lavoro. È competitive porn perché divide le donne fra loro e le mette in competizione anche le une contro le altre. Dal primo giorno che mettono piede nel mondo della comunicazione le stesse professioniste vengono spinte a entrare in un tunnel di misurazione costante del proprio valore contro quello degli altri. E se per chi subisce molestie direttamente intervengono senz’altro sentimenti di paura e vergogna che spingono a non denunciare le violenze subite, quando parliamo di climi intimidatori più ad ampio spettro e di una misoginia diffusa che passa per umiliazioni quotidiane, la mancanza di denuncia è figlia della solitudine, e la solitudine è figlia dell’insufficiente solidarietà reciproca. Nel mondo pubblicitario come nel mondo lavorativo in generale esistono dinamiche piramidali da azienda, spesso basate sul potere carismatico – e d’altro canto non è proprio ad amare questo tipo di fascino, che ci ha insegnato una serie come Mad Men? – che creano l’humus tale per cui non solo è possibile l’esistenza di personaggi che si dedicano alla molestia seriale, ma che per denunciare tutto questo molte donne preferiscano passare da figure altrettanto carismatiche, autorevoli, in alto nella scala gerarchica, più che dalle loro colleghe. E questo, più che il segnale di un coinvolgimento degli uomini nel problema – i numeri di questo coinvolgimneto sono tuttora talmente risicati da non consentire in alcun modo di parlare di questo – è piuttosto un segnale del fatto che le donne non hanno dispiegato a sufficienza la loro forza.
Che tutta la vicenda di molestie sessuali nel mondo della comunicazione veda finora le donne coinvolte in prima persona e le loro colleghe, lavoratrici in generale e professioniste del settore in particolare, solo nella posizione di vittime e non innanzitutto in quella di rivoltose grazie all’indispensabile solidarietà e rabbia di tutte, e parliamo di decine di migliaia di donne; che in seguito alla vicenda pubblica le reazioni di tante professioniste siano state finora così controllate, così tiepide, è un segno che le donne stesse sono pienamente integrate nel sistema competitivo di questo mondo professionale e che hanno incamerato su sé stesse i giudizi che lo puntellano e le logiche piramidali che lo costruiscono. Gli uomini le incamerano e le sfruttano a loro vantaggio. Le donne non ne traggono invece il minimo vantaggio personale, ecco perché è da loro innanzitutto, e non dai colleghi uomini, che dovrà necessariamente cominciare una rivolta.

Ma le logiche in vigore nelle aziende, le logiche moralistiche che fanno credere che la cultura possa passare dalla formazione e dall’iperformazione, dall’attenzione alle desinenze e ai linguaggi come chiave del cambiamento non aiutano per nulla in questo senso. Sono illusioni superficiali, per non dire vere e proprie ipocrisie, che insegnano a inserirsi nel sistema così com’è imbellettando le manifestazioni più superficali ma lasciando intatte le gerarchie di potere. Salvo poi pagare sulla propria pelle l’intima inumanità del mondo aziendale, e il fatto che la misoginia di fondo che attraversa questo mondo gerarchico e di competizione non solo non venga neanche sfiorata, ma viene di fatto protetta dalla cultura della Inclusivity.

C’è tutto un modo di concepire il lavoro, e il proprio lavoro, che andrebbe ribaltato. C’è tutto un modo di vedere le dinamiche sociali che andrebbe stravolto e rivoluzionato. Uno degli insegnamenti che viene da questa storia è che la competenza e la formazione non fanno la coscienza. Che la formazione aziendalistica non intacca neanche un minimo l’autocoscienza dei rapporti fra i sessi e dei rapporti di potere in generale, la quale passa dal conflitto diretto e dalla messa a nome di posizioni, gerarchie, interessi di classe, di genere, personali. Che l’innovazione dei linguaggi non corrisponde in alcun modo a possedere una cultura più avanzata dei rapporti umani. E che la pubblicità, parente stretta della propaganda, rappresenta da sempre la miglior ancella dell’esercizio del potere; sarebbe pertanto molto meglio smetterla, nel mondo della comunicazione, di cercare di moralizzare a tutti i costi il proprio lavoro, di ammantarlo di valori e di etica, quando al fondo ciò che questo settore produce e alimenta non sono che i desideri e le fantasie di potere di gente accomodata o che sogna di accomodarsi nelle sue gerarchie.

CREDITI FOTO: © Andrea Gastaldon



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