Le proteste pro palestinesi, fra pretestuose accuse di antisemitismo e ambigue reticenze

Chiunque esprima solidarietà al popolo palestinese deve far fronte all’accusa di antisemitismo. Un’accusa spesso pretestuosa, che però potrebbe essere più facilmente respinta se si chiarisse inequivocabilmente il proprio rapporto con Hamas.

Cinzia Sciuto

Cosa significa oggi stare “con Israele”? E cosa significa oggi stare “con i palestinesi”? Davanti alla facciata del comune di Francoforte come di tanti altri comuni tedeschi sventola la bandiera israeliana, accanto a quella ucraina. Immagino che quella bandiera sia stata issata l’8 ottobre, all’indomani del barbaro attacco di Hamas contro cittadini israeliani: 1.200 vittime, per la maggior parte civili, e circa 250 persone prese in ostaggio, tra questi anche bambini e persone anziane e malate. Un evento che in tutto il mondo, e in Germania in modo particolare, ha innescato un immediato e spontaneo sentimento di vicinanza e solidarietà con il popolo di Israele. Eppure, vista oggi quella bandiera sembra assumere tutto un altro significato: è ancora la bandiera di un popolo impaurito e in cerca di sicurezza o è la bandiera di uno Stato dotato di uno degli eserciti più potenti del mondo che da sette mesi sta portando avanti una atroce vendetta che colpisce un intero popolo, costringendolo all’esodo in massa, assediandolo, uccidendo indiscriminatamente migliaia di civili?

Come si può oggi continuare a esprimere solidarietà con il popolo israeliano attaccato il 7 ottobre senza allo stesso tempo esprimere solidarietà con il popolo palestinese che in questi sette mesi ha subìto un sistematico massacro, senza peraltro avere i mezzi adeguati per difendersi? Ed è mai possibile tenere insieme queste due solidarietà? Che sia possibile lo dimostrano le tante iniziative comuni fra israeliani e palestinesi, i tanti ebrei che partecipano alle manifestazioni pro-Palestina. “Ci sono 7 milioni di ebrei e 7 milioni di palestinesi che vivono nello stesso piccolo pezzo di terra”, ha dichiarato per esempio Zahra Sakkejha, esponente della sezione di Los Angeles dell’associazione di ebrei e palestinesi Standing Together che fa parte del movimento degli studenti della Ucla (l’università della California dove proprio in queste ore la polizia sta per sgombrare una accampamento pacifico che due notti fa è stato attaccato da un folto gruppo di militanti pro-Israele mascherati). “Nessuno andrà da nessuna parte. Dobbiamo lottare per la libertà, l’uguaglianza, la giustizia e la sicurezza reciproca”, ha concluso Sakkejha. Questa doppia solidarietà con i due popoli è dunque non solo possibile, ma più che mai necessaria. E si fonda sul reciproco riconoscimento delle rispettive ferite. Da qui, credo, bisogna ripartire.

Negli scorsi giorni in un convegno organizzato dalla Heinrich Böll Stiftung lo storico tedesco-israeliano Dan Diner ha posto due domande che contengono un nodo cruciale per entrambi i fronti: “Lo Stato di Israele è una realtà coloniale? E, posto che lo sia, cosa facciamo?”. Che Israele sia uno Stato coloniale è una realtà storica che anche tutti i suoi sostenitori devono, per amore di verità, semplicemente riconoscere, come ha fatto appunto Dan Diner dicendo che è “indiscutibile” che lo sia. Sono quelle modeste verità di fatto a cui ci richiama Hannah Arendt. Una modesta verità di fatto dimostrata, per esempio, da un dato su cui spesso sorvoliamo e su cui invece val la pena porre maggiore attenzione. Prima di questa guerra una gran parte dei palestinesi viveva in immensi campi profughi. Si tratta di campi nati per accogliere i profughi, appunto, della prima guerra arabo-israeliana del 1948. Per la precisione, secondo la definizione dell’Onu, si tratta di persone il cui “luogo di residenza normale era la Palestina durante il periodo dal 1° giugno 1946 al 15 maggio 1948 e che hanno perso sia la casa sia i mezzi di sostentamento a causa del conflitto del 1948”. Persone che dunque vivevano in quello che oggi è Israele e che sono state costrette a lasciare le loro case.

Non serve oggi andare a indagare le ragioni e i torti di quel conflitto. Quello che conta è non ignorare il fatto che da 76 anni milioni di palestinesi vivono in campi profughi. Ci sono ormai più generazioni di palestinesi nati nei campi, che la loro “casa” non l’hanno mai vista ma solo sentita dai racconti dei parenti. Riconoscere il dolore e la rabbia che la nakba ha provocato in intere generazioni di palestinesi è doveroso, e anche i più convinti amici di Israele non possono in tutta onestà esimersi dal farlo. Così come non si può non vedere la natura coloniale dell’occupazione della Cisgiordania.

Poi c’è la seconda domanda di Dan Diner: ok, una volta riconosciuta la natura coloniale dello Stato di Israele, che facciamo? E questa seconda domanda devono porsela invece con grande sincerità i sostenitori dei palestinesi. Il colonialismo dello Stato di Israele è di tutt’altra natura rispetto a quello “classico” – britannico, francese, spagnolo, portoghese – che abbiamo studiato sui libri di storia. Gli israeliani non hanno una madrepatria, non possono semplicemente “ritirarsi” (se non ovviamente da quelli che, non a caso, sono chiamati “territori occupati”). Israele è oggi uno Stato consolidato e discutere della legittimità o meno del modo in cui è nato è – deve essere – ormai materia per gli storici.

Mentre materia di discussione politica attualissima è – deve essere – la natura della democrazia israeliana, il profilo etnonazionalistico che ha deciso di darsi definendosi “Stato ebraico” nonché l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza (da cui Israele si è sì ritirato nel 2005, ma che di fatto ha continuato a controllare sotto molti punti di vista, e che comunque oggi ha nuovamente occupato) e ovviamente il massacro che sta perpetrando da sette mesi. Tutti questi sono temi che devono poter essere liberamente dibattuti, senza che la discussione venga costantemente riportata sul piano della legittimità o meno dell’esistenza stessa di Israele se non, peggio, dell’antisemitismo.

Ed è questo mi pare il focus centrale delle proteste degli studenti nelle università americane delle ultime settimane. Le parole d’ordine che hanno caratterizzato le manifestazioni sono state principalmente due: “cessate il fuoco” e “disinvestite dalle aziende che vendono armi a Israele”. Sono certamente proteste di stampo anti-israeliane, nello stesso senso in cui erano anti-americane le proteste ai tempi delle manifestazioni contro la guerra in Vietnam o in Afghanistan: sono proteste contro la guerra israeliana a Gaza. E sono certamente in larga parte proteste antisioniste, ossia contrarie a quell’ideologia politica che ha visto e continua a vedere nella costruzione di uno “Stato ebraico” la soluzione alla sistematica e secolare discriminazione e persecuzione degli ebrei. L’antisionismo è però antico quanto il sionismo stesso, che fin dai suoi albori e poi nel corso delle sue varie evoluzioni è sempre stato oggetto di critiche da parte di molti ebrei. Confondere l’antisionismo con l’antisemitismo è una delle più disoneste operazioni che si possano compiere, così come appiattire l’identità ebraica su quella israeliana. È di fatto una gigantesca operazione di distrazione di massa: accusare qualcuno di antisemitismo è talmente grave che costringe a difendersi dall’infamante accusa, spostando dunque il focus della discussione.

Se c’è una critica che invece si può muovere a queste proteste è quella di non riuscire a tenere insieme esplicitamente la richiesta di cessate il fuoco con una condanna chiara e netta nei confronti di Hamas, e non solo in quanto principale responsabile del massacro del 7 ottobre ma anche in sé, come forza reazionaria, autoritaria, misogina e fondamentalista. Sarebbe bello che alle manifestazioni pro Palestina, a fianco ai cartelli per il cessate il fuoco, ci fossero anche cartelli per una Palestina non solo libera, ma anche laica e democratica. Che si chiedesse non solo a Israele di cessare il fuoco, ma anche ad Hamas di liberare gli ostaggi e di consegnarsi, togliendo a Israele l’unico argomento che continua ad avere a giustificazione del massacro in corso, ossia che Hamas utilizza i civili palestinesi come scudi umani. La scellerata azione del 7 ottobre – che qualcuno ha persino festeggiato come momento di liberazione e resistenza – ha portato il popolo palestinese al massacro, e sarebbe il momento di urlarlo forte e chiaro. Queste reticenze, che talvolta scivolano verso vere e proprie ambiguità, non aiutano certo la causa del popolo palestinese e, anzi, porgono il fianco alle più becere strumentalizzazioni.
CREDITI FOTO: Pro-Palestine Encampment at UCLA, 1 may 2024 EPA/CAROLINE BREHMAN



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