Una storia a lieto fine (?)

In occasione dell'8 marzo, voglio raccontarvi la storia di una donna che racchiude le molteplici tematiche che convergono in questa giornata e che si intrecciano con le rivendicazioni delle minoranze, la lotta contro il colonialismo e i diritti della comunità Lgtb+.

Emanuela Marmo

Per questo 8 marzo, vi racconto la storia di una donna. A mio avviso, sintetizza le svariate questioni che convergono in questa giornata e che si intrecciano alle istanze delle minoranze, al rifiuto del colonialismo, alle rivendicazioni Lgtb+. Questioni che rivelano la prospettiva politica di certi processi creativi e della scelta, artistica, di rapportarsi in maniera soggettiva e indipendente di fronte alla tradizione.
La donna di cui parlo è Leena Manimekalai, poetessa, attrice e regista indipendente. Il suo ultimo documentario si intitola Kaali, uno dei 18 cortometraggi di Under the Tent, un programma prodotto dalla Toronto Metropolitan University per promuovere il cinema di diverse etnie e culture. Il museo di Toronto avrebbe dovuto ospitare la prima proiezione del film.

Kaali è una dea indù. È terribile, aggressiva, non è materna, è battagliera e feroce. In alcune tradizioni è adorata al di sopra di ogni altra divinità o manifestazione del cosmo.
Manimekalai incarna la dea Kaali – la dea della morte, del tempo e del cambiamento – vivendo da regista omosessuale in Canada. Cammina per le strade di Toronto di notte indossando i panni di Kali così come tramandati dalla tradizione di Tamil e Telegu. Lo spirito ribelle che la possiede mangia carne, fuma marijuana, beve liquori, urina pubblicamente e balla in uno spettacolo dirompente: «Kaali sostiene l’umanità e abbraccia la diversità» dichiara la regista alla BBC.

Manimekalai situa Kaali in una terra di immigrati: la regista vuole comprendere il colonialismo dei coloni, si sforza di trovare una sorta di appartenenza in una terra rubata ai suoi legittimi abitanti, finché non comprende che la terra non è di nessuno. L’uso dell’icona Kaali per affrontare argomenti controversi non è nuovo nella filmografia di Manimekalai: assumendo la forma della dea – «come poeta e regista, incarno Kali nella mia visione indipendente» – Manimekalai asseconda la credenza indigena della possessione per rivisitare in modo critico le questioni dei diritti Lgbtiq+, le crisi dei rifugiati, la storia del genocidio e la politica Hindutva, tematiche che caratterizzano anche i film precedenti, in cui la divinità funge da avatar controculturale e interseca i confini di classe, di casta, di genere, di nazionalità.

In previsione della prima, Manimekalai aveva twittato un’immagine della cover per promuovere il documentario. Il post della regista mostrava una scena in cui, impersonando la dea Kaali, condivide una sigaretta con un senzatetto e tiene in mano una bandiera dell’orgoglio Lgtb+.
L’Alta Commissione indiana in Canada ha affermato di aver ricevuto denunce dai leader della comunità indù: credenti induisti hanno chiesto che il film fosse vietato e che fosse intrapresa un’azione legale contro la regista. A seguito dell’indignazione dei social media, i leader del partito nazionalista indù al governo hanno presentato una denuncia contro Manimekalai alla polizia di Delhi. I gruppi contrari al documentario si sono immediatamente agitati, bruciando le foto di Manimekalai e lanciando minacce di morte.

In una dichiarazione, l’Università ha affermato di aver rimosso il film dal programma perché riteneva che avesse offeso inutilmente il sentimento religioso di molte persone in Canada e altrove. Il museo si è scusato per aver «inavvertitamente offeso i membri delle comunità indù e di altre comunità religiose» e ha comunicato che il film non sarebbe stato proiettato.

Nel frattempo la polizia di Delhi e Uttar Pradesh ha mosso un’indagine contro la regista: ai sensi delle sezioni 153A e 295A dell’IPC, l’accusa era di cospirazione criminale, reato in luogo di culto, lesione deliberata dei sentimenti religiosi e intenzione di provocare una violazione della pace.
#Arrestleenamanimekalai ha iniziato a girare su Twitter, pertanto l’artista, che risiede in Canada, ha esortato gli utenti a utilizzare l’hashtag #iloveyouLeenaManimekalai: «Non ho niente da perdere. Se il prezzo è la mia vita, lo darò».

La storia però finisce bene.
Lo scorso 3 novembre, l’Equity Committee della Toronto Metropolitan Faculty Association (TFA) in Canada ha organizzato una proiezione di protesta e solidarietà di due film, Maadathy e Kaali, della pluripremiata regista Leena Manimekalai. L’evento, che ha registrato il tutto esaurito, è stato co-sponsorizzato dal Center for Free Expression della TMU, nonché da diverse organizzazioni comunitarie, tra cui PEN Canada, Dalit Solidarity Forum-USA, Hindus for Human Rights-USA, Humanist Association of Toronto, Humanists International, India Civil Watch International e Poetic Justice Foundation.

La storia, da un punto di vista culturale, finisce bene. Per ora.
Le vie legali sono ancora in corso. Alcune settimane fa, dalla stampa internazionale, apprendiamo che il tribunale indiano ha ordinato che non sia intrapresa alcuna azione coercitiva contro la regista né sulla base dei FIR già depositati né sulla base di quelli che potrebbero essere depositati in futuro. Ha inoltre disposto che tutti i FIR fossero riuniti in un unico luogo in conformità con la legge. L’avvocato della regista Kamini Jaiswal, ci spiega però che nel frattempo lo Stato del Madhya Pradesh e lo Stato dell’Uttarakhand hanno chiesto più tempo per depositare una contro dichiarazione giurata.



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