Il compitino tecnocratico di Draghi

Il governo Draghi vara la sua prima legge di bilancio, rompe l’incantesimo con le parti sociali sul tema delle pensioni, alla vigilia del più grande piano d’investimenti pubblici dal dopoguerra. Ma se guardiamo alla sua visione generale della ripresa post-pandemica, non si vedono i segni di un cambiamento sociale, economico e quindi politico.

Mario Barbati

Aumentano il Pil come paradossalmente povertà e lavoro precario. Degli oltre 830mila nuovi posti di lavoro creati nell’ultimo anno il 90% sono a termine, solo l’1% dura più di un anno. Tolto il salario minimo legale dal Pnrr, smantellato il ‘decreto dignità’ che limitava i contratti a termine, vengono messi in discussione i redditi di sostegno e le pensioni ma si omette un contrasto ai 203 miliardi di economia sommersa, che sarebbero decisivi se davvero si volesse attuare una redistribuzione della ricchezza. Rinviata ancora la plastic tax, in omaggio alla transizione ecologica.

Legge di bilancio – Una manovra da 30 miliardi che Draghi definisce “espansiva”. Si alleggerisce la pressione fiscale con 12 miliardi, di cui 8 per il taglio delle tasse su società e persone, senza ripartizioni però che “saranno definite insieme al Parlamento nelle prossime settimane” (dove però la maggioranza di centrodestra più Italia viva sono sensibili alle sirene confindustriali). Rinviata la riforma delle pensioni, quota 102 è solo un compromesso che non risolve una questione che dura da anni e alimenta una narrazione, peraltro falsa, che il lavoro per i giovani si crei innalzando l’età di pensionamento, mettendo lavoratori di diverse generazioni contro.

La riforma degli ammortizzatori sociali affronta la questione dell’universalismo e a suo modo è un intervento storico. Prevede misure protettive nel mondo del lavoro per tutti: cassa integrazione per i datori di lavoro con più di 15 dipendenti, Naspi allargata ai lavoratori discontinui, ammortizzatori e disoccupazione per autonomi e cococo. Poca però la dote per partire: solo 4,5 miliardi (il ministro Orlando ne aveva chiesti 8).

Dopo inutili polemiche e vesti stracciate, viene rifinanziato il reddito di cittadinanza (a proposito, dov’è finita la raccolta firme di Renzi per abolirlo?), con controlli più stringenti e con il rilancio dell’attuazione delle politiche attive, che sono sempre state quasi inesistenti in Italia già da prima del Rdc. Solo che anziché potenziare e in alcuni casi “rifondare” i centri per l’impiego pubblici, si finanziano anche le agenzie di collocamento private. Prorogato il cosiddetto superbonus per la riconversione edilizia. Viene cassato invece il cashback, in un paese che nella “non-lotta” all’evasione ha un suo tradizionale punto di forza. Rimandate a chissà quando sugar e plastic tax.

Il Pil sale, i salari scendono – Il premier Draghi nella conferenza sulla manovra ha dichiarato: “dal problema del debito pubblico alle prestazioni sociali inadeguate, alle altre giuste modifiche che non abbiamo potuto fare, si esce solo attraverso la crescita”. Già, ma quale crescita? Sempre Draghi: “Sempre maggiore attenzione si pone sulla qualità, sull’inclusività, sulla sostenibilità, sull’equità della crescita. È una novità dell’epoca che stiamo vivendo”. Ammettendo senza volerlo che prima non erano una priorità, negli anni dell’austerity in cui era a capo della Bce.

Ma ha senso un sistema in cui aumentano il Pil (oltre il 6% quest’anno, come dichiarato dal premier) e al tempo stesso la povertà, ormai anche tra molti lavoratori? E per quanto tempo può reggere, dopo quasi due anni di pandemia? Superare l’austerità se non si leniscono le profonde disuguaglianze degli ultimi decenni, che anzi sono accresciute con la pandemia, se non si affrontano la questione salariale e la precarietà, non ha senso. “Il Pil non è una buona misura dell’economia” ha dichiarato recentemente il Nobel per la fisica Giorgio Parisi, “perché cattura la quantità ma non la qualità della crescita e perché ci sono indici diversi, come l’indice di sviluppo umano e l’indice di benessere economico sostenibile, mai presi in considerazione”.

In Italia più di 5 milioni di lavoratori dipendenti hanno un reddito inferiore ai 10mila euro annui, determinando il fenomeno, non solo italiano, della povertà che si diffonde tra chi lavora. Rappresentazione plastica di un modello sociale da ribaltare.

Una delle poche ma significative modifiche del Pnrr targato Draghi (nella versione Conte-Gualtieri c’era) è stata l’eliminazione dell’introduzione del salario orario minimo. Cioè di una legge che fissi un minimo sotto il quale il datore di lavoro non può scendere. La misura è in vigore in 21 Stati dell’Unione europea su 27 (comprese Germania, Francia, Spagna) e sarebbe indispensabile in un paese in cui non solo esistono una miriade di contratti collettivi nazionali diversi (900) ma anche milioni di lavoratori fuori dalla contrattazione collettiva, sfruttati con stipendi da fame e zero diritti. In Italia, ma non solo in Italia, il neoliberismo si è tradotto con offerte di lavoro, richiesta di manodopera, delle risorse intellettuali al massimo ribasso: trasformando il lavoro in una merce, anche abbastanza scadente. Ma il Belpaese non poteva che distinguersi tra gli altri. L’Italia è l’unico stato in Europa – dati Ocse alla mano – in cui dal 1990 ad oggi gli stipendi sono diminuiti invece che aumentare. E se negli ultimi trent’anni la ricchezza è invece aumentata, se ne deduce facilmente che sia finita in pochissime mani. Con l’aumento del costo delle materie prime dopo i blocchi pandemici e quindi di carburante, energia, gas, quella dei salari dovrebbe essere la priorità di un paese che si vuole rilanciare. In Germania, l’Spd di Scholz ha vinto le elezioni con la proposta di alzare il salario minino a 12 euro all’ora. La nostra Costituzione prevede che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (articolo 36). È la Costituzione che andrebbe applicata, ribaltando il concetto della crescita slegata dal benessere e dal lavoro delle persone, cominciando dal salario minimo orario, lasciando la contrattazione collettiva ma fissando una soglia di dignità per tutti. Oggi 3,5 milioni di dipendenti privati, 600mila lavoratori domestici, 370mila operai agricoli non raggiungono i 9 euro lordi all’ora.

Una vita a termine. Dall’inizio del 2021 sono stati creati oltre 830mila posti di lavoro, in aumento rispetto agli anni precedenti. Quasi il 90% di questi nuovi lavori creati è stato attivato con un contratto a termine. Modeste e inferiori al 2020 le posizioni a tempo indeterminato. Da luglio, l’eliminazione del vincolo ha prodotto 10mila licenziamenti. Sono dati firmati Ministero del lavoro e Banca d’Italia. In che modo questi dati sono coerenti con queste dichiarazioni? “Draghi ai giovani: il mio impegno è seguire le vostre ambizioni, dopo anni in cui l’Italia si è dimenticata di voi” (ansa, 26 ottobre); “Draghi: rimuovere ostacoli al talento femminile, nostro dovere abbattere pregiudizi” (ansa, 26 ottobre); “Draghi: la sfida per il governo è fare in modo che questa ripresa sia duratura e sostenibile” (ansa, 23 settembre).

La retorica del “niente sarà più come prima”, del “ne usciremo tutti migliori” che ci ha allegramente accompagnato durante la pandemia, deve ora fare i conti con una realtà dura a morire perché frutto di politiche durate decenni. Comprese quelle degli ultimi tempi in parlamento. Il “decreto dignità” che provava (peraltro in maniera inefficace) a limitare i contratti a termine è stato scardinato da un emendamento del Pd (votato da tutti, compresi i 5 stelle) che consente di prorogare i contratti a termine senza indicare causali.

Ricchi & poveri – La pandemia, che ha squadernato un paese in cui pochi hanno tanto e molti hanno poco, rischia di finire esattamente come era iniziata. Senza un cambio di direzione verso una giustizia distributiva e sociale. Bizzarro è il paese in cui s’istituisce un comitato tecnico scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza, cioè del supporto alla fascia povera della popolazione che pure va migliorato, ma da decenni distoglie lo sguardo dall’evasione fiscale, dall’economia in nero, dalle ricchezze sommerse il cui recupero sarebbe l’unica speranza per l’inizio di una redistribuzione. L’ultimo rapporto Istat rivela che l’economia sommersa nel 2019 vale 203 miliardi di euro, pari all’11,3% del Pil. Poco più di 183 miliardi di euro riguardano la componente dell’economia sommersa, mentre quella delle attività illegali supera i 19 miliardi. Non è tutto. Solo il 3,6% dei comuni (279 su 7.656) ha partecipato con la propria attività al contrasto all’evasione fiscale nel 2020. Roma recupera solo 82mila euro.

L’articolo 53 della Costituzione sostiene che l’imposta che i cittadini sono tenuti a versare è proporzionale all’aumentare della loro possibilità economica. In altre parole, l’imposta cresce con il crescere del reddito. Il criterio di progressività ha la sua ragione nel soccorrere e sostenere le classi sociali in difficoltà, garantendo i diritti e i servizi sociali fondamentali quali la pubblica istruzione, l’assistenza sanitaria, la previdenza sociale e l’indennità di disoccupazione, criteri sui quali si basa lo Stato sociale italiano.

Recovery fan – Del resto l’applicazione della Costituzione dovrebbe essere la stella polare per le riforme e gli investimenti del Recovery plan. Invece il Pnrr, 230 miliardi di euro di risorse insperate senza la drammatica vicenda dell’epidemia, rischia di andare a favore dell’alta economia e di cambiare poco o niente nella vita comune di cittadini, studenti, lavoratori e imprese. Già prima della pandemia globale, l’Italia era contrassegnata da forti disuguaglianze, gap e divari generazionali, di genere, territoriali e sociali. Anni di vincoli e austerità hanno frenato le transizioni digitali e verdi di cui c’era già necessità. Ora il Recovery, che è il più grande piano d’investimenti pubblici della storia repubblicana, rischia di vedere il mercato e non la politica come principale regolatore dell’economia.

Non solo. Concretamente il Piano rischia di essere una sommatoria di progetti, al momento senza un coordinamento visibile, con misure eterogenee che mancano di un progetto-Paese in grado di creare un modello di sviluppo sostenibile non a favore di alta finanza e poche grandi imprese – come avvenuto negli ultimi 30 anni – ma a vantaggio della vita delle persone in armonia con l’ambiente. Se gli obiettivi del piano sono concreti e misurabili nell’esposizione dei progetti, manca un riscontro sulla ricaduta nella creazione di lavoro, nella rigenerazione urbana, nella riconversione ambientale. I monitoraggi vengono intesi più come passaggi tecnici o contabili senza una rendicontazione sociale delle scelte. Il portale che il governo ha dedicato al Recovery Plan (Italia Domani) prevede la condivisione sugli esiti dei singoli progetti ma senza informazioni su ogni fase del processo attuativo, come tra l’altro chiesto dall’Europa.

Sul piatto della transizione ecologica ci sono 70 miliardi, ma nei documenti inviati a Bruxelles mancano impegni chiari sulla sostituzione graduale del carbone e del gas naturale, nel Pnrr italiano inoltre non vi è alcun riferimento all’Agenda 2030. La mobilità sostenibile (31 miliardi in nuove infrastrutture) privilegia i treni Av anziché il trasporto locale, regionale e cittadino. C’è il rischio di aumentare e non diminuire il divario tra nord e sud, tra aree ricche e povere e questo perché ci saranno enti locali in grado di sfruttare i bandi e altri incapaci di farlo. La quarta missione, che riguarda “Istruzione e ricerca”, stanzia complessivamente 33 miliardi, di cui quasi 12 per la ricerca. Sparisce il piano Amaldi, che proponeva un aumento dei fondi per la ricerca pubblica nella misura di 15 miliardi in 5 anni, per far sì che l’Italia passasse dallo 0.5% del Pil in ricerca pubblica allo 0.7% francese. Ottimo, almeno sulla carta, il piano per l’edilizia scolastica e gli asili nido.

Resta il tema del ddl Concorrenza, che dal Pnrr era previsto entro luglio: dirimere il legame tra Comuni e società pubbliche, ci si chiede se la soluzione sia aprire ai mercati – in tutti i settori, senza fare distinzioni – in nome dell’ideologia neoliberista superata dai fatti e dalla storia. Nel Piano si legge di “specifiche norme finalizzate a imporre all’amministrazione una motivazione anticipata e rafforzata che dia conto del mancato ricorso al mercato”. Soluzione che in alcuni casi potrebbe essere utile per spezzare le rendite, i monopoli troppo garantiti, i legami clientelari con la politica; in altri potrebbe essere deleteria, perché in passato le “liberalizzazioni” hanno riguardato servizi di interesse generale, come i monopoli naturali attraverso concessioni esclusive ai privati. Come il caso Autostrade: 11 miliardi di utili per Benetton & soci, continui aumenti delle tariffe, risparmi e negligenza assassina sugli investimenti in sicurezza. La storia recente dimostra che le public utilities (il trasporto pubblico, i servizi idrici, le reti ad alta velocità) non dovrebbero più dipendere dal dominio di logiche di profitto, perché sono servizi di interesse generale. Il principio della concorrenza andrebbe applicato laddove produce benefici, come nel caso delle concessioni balneari.

Non si capisce poi come il Pnrr possa, attraverso le riforme previste e richieste dall’Ue, contrastare la precarietà. Istruzione, sanità, welfare universale rischiano ancora una volta di essere sacrificate sull’altare delle grandi opere e degli affari per pochi, in contraddizione con lo spirito costituzionale.

Il governo Draghi, voluto per la salvezza del paese, con questa prima manovra di bilancio fa il suo compitino tecnocratico, comincerà ad attuare i progetti del Recovery, ma la visione di un mondo post-pandemico non c’è.



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