Letizia Battaglia, “la bambina indomabile”

La sua arte ci ha restituito ritratti, gli individui coagulati in piccole folle. Gli eventi, il dolore ma anche le rivendicazioni sociali e quelle politiche.

Maria Concetta Tringali

Mi prendo il mondo ovunque sia, e così ha fatto Letizia Battaglia, il mondo se l’è preso a piene mani, come nel titolo del libro edito da Einaudi e a firma di Sabrina Pisu in cui decideva di raccontarsi e di raccontare, neanche due anni addietro.

L’ha fatto fino al 13 di aprile scorso, giorno in cui “la bambina indomabile” se n’è andata a 87 anni, nella sua Palermo che lascia ammutolita e come accecata. Niente più scatti che ci aiuteranno a guardare la città, con la lucidità e la poesia di una fotografia che sapeva cogliere l’anima di una Sicilia, tutta, in bianco e nero.

Letizia Battaglia – possiamo ben dirlo – è stata una ricamatrice di storie, ora il racconto della mafia fatto attraverso le sue donne, ora veri e propri pezzi di società isolati e fissati col suo grandangolo.

La sua arte ci ha restituito ritratti, gli individui coagulati in piccole folle. Gli eventi, il dolore ma anche le rivendicazioni sociali e quelle politiche. Il ritratto di Pier Paolo Pasolini, il sangue di Piersanti Mattarella, il dolore del fratello, l’omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, il volto serrato della vedova di Rocco Schifani restano pietre d’inciampo nella nostra memoria.

Letizia è l’autrice di “Bambina con il pallone”, uno scatto che è certo più di questo: un manifesto di Chi può essere Cosa, nel quartiere palermitano della Cala.

La sua fotografia è scavo, tipico di quanti sono abituati, nella vita come nel lavoro, a inabissarsi e pur temendolo è esercizio che non sono portati a evitare.

Sono immagini che odorano di sangue e di ferro, quelle dei tempi della collaborazione a L’Ora; una su tutte, è Omicidio targato Palermo, 1975. Sono foto che hanno fermato per sempre le grandi stragi di mafia, sono incisioni, cicatrici di giorni e di notti che hanno fatto il calco alla nostra terra, per riportarcela esattamente così come oggi ci appare.

Fuori come dentro, a cercare di lei nel suo libro, la restituzione è di forza e di fragilità. Anni di psicoanalisi e la scelta di risalire a galla. Il disagio, la sofferenza, ma anche l’amore, come quello per Franco Zecchin “il binomio che non poteva essere scisso”, ma conservato, intatto, in un archivio finalmente in ordine.

La sua vita alla ricerca dell’indipendenza, intanto di quella economica, è storia da raccontare alle ragazzine, emancipazione che inizia presto e che diventa esempio, visivo, lampante.

Una donna che ha conosciuto la paura di non essere compresa, lo sbando di avere desideri troppo grandi per una quotidianità troppo piccola. Lascia due figlie che la restituiranno al mare, come adempimento d’amore alle sue ultime volontà.

E poi lascia tutti noi, lascia tutte noi “palermitane” di Catania, come di Trapani, di una Sicilia che è isola nel mare, intera e insieme spezzata, forte e fragile di un isolamento che è condizione dell’essere e prima ancora del sentire.

La sua arte rimarrà intatta, evocativa, narrativa, carica. La mente non può che tornare all’ultima mostra milanese, alle sue Storie di strada rimaste a Palazzo Reale fino a gennaio di due anni fa. La fotografia vissuta come salvezza e come verità. Cronaca nerissima di anni difficili ma anche aperture, speranze, aspettative e proiezioni, sforzi dedicati su tutte alle bambine palermitane.

Letizia resta nella sua città come un’icona, critica ed eterna com’è la sua capacità di tramutarsi in racconto, come un reportage fatto da ferma. Rimane la sua esperienza nei palazzi da deputata regionale e poi da assessora al decoro urbano con Orlando.

Di lei rimane la curiosità che contagia, che crea dipendenza e che spinge oggi come ieri a fissare il mondo in uno sguardo per attraversarlo tutto intero.



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