Letta, il Pd e il Jobs Act: Pietro Ichino finge di non capire

Sulla corresponsabilità del Partito democratico rispetto al superamento dell’art. 18 il giuslavorista fa il “gioco delle tre carte”.

Renato Fioretti

Il 25 settembre si avvicina, la campagna elettorale si trascina stancamente e i suoi maggiori interpreti continuano con il consueto cliché; con uno spartito che riecheggia antichi ritornelli.

A Berlusconi che, a distanza di 15 anni e dopo avere avuto a sua disposizione maggioranze “bulgare” per eventualmente provvedere in tal senso – piuttosto che adottare provvedimenti di legge “cicero pro domo sua” – torna a promettere pensioni minime da 1000 € al mese, fa da contraltare il rozzo esponente leghista che – accantonata la falsa promessa di cancellare le accise sulla benzina (campagna elettorale del 2019) – si ripropone quale “baluardo all’immigrazione clandestina”, contrario al RdC e, addirittura, favorevole al ritorno dei famigerati “voucher”. Non è da meno il prototipo delle “urlatrici”. Quella Giorgia Meloni che – di là delle evidenti contraddizioni, tra “vizi privati” e (esaltate) “pubbliche virtù” che, di un politico, qualificano il livello di coerenza e affidabilità – continua a essere assai poco credibile quale rappresentante di una destra moderna, pienamente democratica e, soprattutto, realmente intenzionata a emarginare quelle frange estreme che, ancora oggi, si nutrono di “pellegrinaggi” a Predappio, adunate in camicia nera e saluto romano!

Purtroppo, però, la condizione è tale che “Se Atene piange, Sparta non ride”.

Sull’altro versante, infatti, a un M5S che, smarrita la matrice movimentista, cerca, attraverso un nuovo Giuseppe Conte, di ritrovare – tra le sue ceneri e, credo, molti transfughi del Pd – un’identità politica di natura, direi, “progressista”, si aggiunge un Pd che, a mio parere, ha definitivamente accantonato ogni tentativo di apparire “di sinistra” – nonostante qualche ‘cespuglio’ si sforzi di dimostrare il contrario – ma ancora non è disponibile (né pienamente consapevole) a riconoscere di avere ormai operato una mutazione genetica irreversibile.

Naturalmente, come qualsiasi altra campagna elettorale che si rispetti, le promesse si sprecano, gli impegni destinati al dimenticatoio si moltiplicano e, in definitiva, si assiste al solito teatrino; cui nessuno sfugge.

In questo contesto, quindi, risulta sempre più arduo riuscire a distinguere il vero dal falso e il plausibile dall’impossibile.

Pietro Ichino, ad esempio, ritiene il segretario del Pd Enrico Letta affetto dalla sindrome del “pentimento per le cose buone fatte” a seguito della dichiarazione secondo la quale “Il Pd intende superare il Jobs Act, sul modello di quanto fatto in Spagna”.

“Letta intende, quindi, superare gli 8 decreti che compongono il Jobs Act”? Si chiede Ichino.

Più probabile, a parere dell’ex senatore Pd, che Letta intendesse seguire la vulgata popolare secondo la quale il Jobs Act si riduce, in sostanza, all’intervento sull’art. 18 dello Statuto, relativo ai licenziamenti individuali.

Ichino, però, sottolinea che in Spagna non esiste né esisteva una norma analoga al nostro ex art. 18 e, quindi, si chiede: “Su quale altra materia il Pd intende allineare l’ordinamento italiano del lavoro a quello spagnolo”?

In attesa di ulteriori chiarimenti da parte di Enrico Letta, ne consegue, secondo la diagnosi del giuslavorista milanese, che il segretario del Pd sia affetto dalla sindrome di “pentimento per le cose buone fatte” perché, in effetti, anche il Pd sostenne – senza se e senza ma – il governo Monti, votò la legge che, per la prima volta, modificava l’art. 18 (legge Fornero) e votò a favore degli 8 decreti che costituirono il Jobs Act; tra cui quello che finì per sostanzialmente cancellare il vecchio art. 18.

Brutalmente (e giustamente), quindi, Pietro Ichino pare voler richiamare Enrico Letta alle responsabilità del Pd e contestarne quella che sembrerebbe un’inversione di rotta rispetto a decisioni che, come ampiamente noto, hanno ridotto diritti e tutele a milioni di lavoratori italiani.

Un Pietro Ichino ritrovato alla causa dei lavoratori, quindi? Assolutamente no!

Con le sue (pur condivisibili) considerazioni, relativamente alla corresponsabilità del Pd rispetto alla sostanziale cancellazione della previgente normativa in materia di licenziamenti individuali, l’ex senatore Pd – da sempre tenace sostenitore del superamento dell’art. 18 dello Statuto e teorico del “contratto di lavoro a tutele crescenti”, che ha svuotato di significato il vecchio “contratto a tempo indeterminato” – fa il “gioco delle tre carte”.

Ichino, in realtà, finge di non capire che, quando Letta afferma di “voler superare il Jobs Act sul modello di quanto fatto in Spagna”, non intende riferirsi alla questione dei licenziamenti, ma allude a un altro grande problema, ulteriormente aggravato da uno degli 8 decreti di cui al Jobs Act: l’elevatissimo indice di precarietà prodotto dall’attuale normativa che regola i rapporti di lavoro a termine.

Premesso di non avere mai condiviso nulla della politica prodotta dal Pd – dal 2007 a oggi, senza alcuna soluzione di continuità – e di non concedere alcun credito alle affermazioni di Enrico Letta, ricordo, però, che già in precedenti occasioni l’attuale segretario Pd aveva dichiarato necessario intervenire rispetto al dilagare della precarietà. Come e a quale livello, non è stato mai indicato!

Se ne deduce, però, a mio parere, che, quando Letta fa riferimento a quanto realizzato in Spagna, lo faccia rispetto ai provvedimenti adottati dal governo spagnolo per porre freno al dilagare dei contratti a termine rispetto a quelli a tempo indeterminato.

Infatti, risalgono all’inizio dello scorso anno le nuove norme per la regolamentazione dei rapporti di lavoro, della contrattazione collettiva, delle politiche attive del lavoro e delle integrazioni al reddito, approvate dal governo del socialista Pedro Sanchez.

Per arginare l’uso distorto dei rapporti a termine e porre un freno alla conseguente precarietà, le norme spagnole prevedono – con una profonda differenza rispetto alla sostanziale “liberalizzazione” prodotta nel nostro Paese – che “il contratto a termine deve sempre avere o una motivazione produttiva o per sostituzione di lavoratori”. La motivazione produttiva è chiaramente indicata e, in questo caso, la durata del rapporto è pari a un massimo di 6 mesi, prorogabile per altri 6 con accordo sindacale.

Tutt’altra cosa rispetto allo scempio permesso in Italia (grazie, in particolare, alle politiche del Pd denunciate da Pietro Ichino).

Con lo stesso decreto e sempre allo scopo di arginare il diffuso stato di precarietà del lavoro, il governo spagnolo decideva l’abolizione dei contratti d’opera o di servizi (corrispondenti ai nostri rapporti di lavoro “occasionali”). Difficile immaginare, quindi, che l’ex senatore Pietro Ichino non avesse capito a cosa alludesse il segretario Pd.

Più comodo, evidentemente, arrecare offesa alla propria e all’altrui intelligenza, piuttosto che rispondere nel merito, su di una questione che avrebbe suscitato non poco interesse e attenzione mediatica. Anche a rischio di vedersi diagnosticata la sindrome “di Pinocchio”.

Solo a titolo d’informazione, riporto che la Nota Trimestrale Istat sulle tendenze dell’occupazione a giugno 2022, indica che diminuisce il numero medio di giornate retribuite, aumentano fortemente le posizioni in somministrazione, aumenta il numero dei lavori intermittenti, i lavoratori a chiamata svolgono un numero inferiore di giornate retribuite al mese, il 33 per cento dei contratti a termine ha una durata prevista fino a 30 giorni, il 9,2 per cento un solo giorno, il 27,5 per cento da 2 a 6 mesi e solo l’1 per cento supera 1 anno.

Quando poi si arriva, grazie al banchiere premier e all’ammucchiata che lo sosteneva, ad approvare una norma che deresponsabilizza l’impresa rispetto al pagamento delle retribuzioni, qualora l’agenzia, che le affitta i lavoratori, non voglia o non possa farsene carico, siamo alla farsa che si fa tragedia.

(credit immagine ANSA/DANIELE BOASI)



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