L’eutanasia è un dovere medico

L’anestesista che aiutò Piergiorgio Welby a morire con dignità (e che per questo fu indagato e poi prosciolto da ogni accusa) spiega perché soddisfare la richiesta di morte medicalmente assistita è un dovere deontologico.

Mario Riccio

Ritengo che il medico abbia un obbligo morale-deontologico a soddisfare la richiesta di morte medicalmente assistita (mma) del paziente che ne faccia esplicita richiesta. Per mma si intende sia l’atto eutanasico che l’assistenza al suicidio. Così come ritengo che la mma non presenti, sotto il profilo etico/morale, sostanziali differenze con il rifiuto, non inizio o riduzione dei trattamenti sanitari – la cosiddetta desistenza terapeutica – qualora questi comportamenti siano causa diretta della morte del paziente che li ha richiesti.

Vado a spiegarmi. Oggi la moderna medicina offre molteplici possibilità terapeutiche a fronte di condizioni di malattia che un tempo non lontano invece avrebbero comportato una morte inevitabilmente rapida e talora neanche particolarmente dolorosa. Basti pensare a tutta la patologia tumorale. Appena qualche decina di anni or sono, alla diagnosi di un tumore corrispondeva una prognosi assai breve, stante l’esiguità dei mezzi terapeutici a disposizione del medico. La chirurgia era limitata, chemio e radioterapie erano pressoché inesistenti. Oggi l’offerta terapeutica si è – fortunatamente – assai ampliata in tanti campi della medicina. Alcune di queste terapie possono però risultare assai gravose ed impegnative per il paziente. Negli eventi neurologici addirittura permettono talora il mantenimento della sola vita biologica, perduta definitivamente la possibilità di una vita biografica, come nel caso Englaro.

Ora, in questo scenario appare chiaro che l’evoluzione della malattia è fortemente condizionata dalle scelte che il paziente assieme al suo curante vorranno compiere. È altresì evidente che tali scelte – che sono sempre più complesse ed elaborate, nonché multifattoriali, non potranno avere un esito certo né, purtroppo, necessariamente positivo. È evidente che già la semplice rinuncia alle terapie può comportare la morte del paziente. Talora tale rinuncia alla terapia necessita però la presenza medica, dovendola accompagnare da un atto clinico-medico correlato.

Prendiamo il caso dell’interruzione della terapia ventilatoria meccanica in un paziente che – seppur capace di intendere e di volere – non possa provvedere da solo a staccarsi dal ventilatore perché paralizzato, come nel caso Welby. Ma se anche potesse materialmente farlo, necessiterebbe comunque di una preventiva sedazione per evitare di soffrire durante il tempo, pur breve, che dal distacco dal ventilatore lo separerebbe dalla morte.

Il medico provvedendo ad entrambe le manovre – sedazione e distacco – non sta forse determinando la morte del paziente stesso con la sua azione commissiva? È così differente – almeno sotto il profilo deontologico – dal medico che provvede ad un trattamento di mma?

È interessante notare che queste stesse osservazioni sono condivise, anche se con una finalità frontalmente opposta a chi scrive, dal Presidente della CEI (Conferenza Episcopale Italiana) Cardinale Bassetti. Questi infatti in un intervista (Avvenire, 14/07/19) affermava: “…in questo senso, distinguere fra il suicidio e le varie forme eutanasiche ha un importanza secondaria: che sia il dottore a iniettare il farmaco, che lo offra sciolto in un bicchiere che la persona berrà da se, o che stacchi un sostegno vitale con lo scopo esplicito e deliberato di procurare la morte, sempre di atto eutanasico si tratta. Chi scrive è particolarmente soddisfatto – pur sorvolando sugli errori semantico/concettuali nell’utilizzo del termine atto eutanasico – nel constatare che la insussistenza di una differenza etico-deontologica fra interrompere una terapia e la mma – concetto che sostengo pubblicamente dal lontano caso Welby del 2006 – è condiviso da una delle voci più autorevoli dell’attuale pensiero cattolico.

Come abbiamo visto, talora la moderna medicina – pur con l’intento di migliorare le condizioni del paziente – lo conduce invece in una situazione peggiorativa e comunque alla fine rifiutata dal paziente stesso. Spesso tale condizione è caratterizzata da sofferenze sia fisiche che psicologiche, quello che i palliativisti definiscono dolore totale. A ciò si aggiunga che una tale condizione può teoricamente mantenersi per un tempo indefinito, come nel caso DjFabo.

Talora invece ci troviamo di fronte ad una condizione diversa, pur sempre come esito sfavorevole di un tentativo terapeutico che avrebbe voluto ottenere migliori risultati. Ovverossia una prognosi infausta con una prospettiva temporale di breve-media durata, anche se verosimilmente gravosa in termini di sofferenza, come capita spesso nei percorsi oncologici. Durante tale arco temporale il paziente potrebbe sempre comunque decidere per una sedazione palliativa continua profonda; quest’ultimo è già comunque un percorso terapeutico garantito dalla legge 219/17. Ma tutti questi casi rappresentano un palese esempio del noto principio che nella filosofia morale è conosciuto come eterogenesi dei fini.

Ed è a questa responsabilità che il medico non può certo sottrarsi adducendo la motivazione che il suo compito è soltanto quello di curare in una prospettiva di migliorare la condizione del suo paziente. Mentre è esente da eventuali ed ulteriori doveri verso lo stesso paziente qualora si debba constatare il fallimento dei suoi pur validi tentativi di migliorarne le condizioni, se non addirittura di portarlo a guarigione.

E non è certo il ricorso alla sedazione palliativa continua profonda l’unica soluzione che il medico può e deve garantire al suo paziente qualora questi la rifiuti, chiedendogli una soluzione più rapida, cioè la mma. Il medico non potrà certo appellarsi ad una sorta di fine naturale della storia clinica del suo paziente – rifiutando quindi suoi ulteriori interventi diretti – in una condizione che è stata invece tutta fortemente determinata dal sapere e dall’attività medica e che quindi di naturale ha ben poco. Si tratterebbe sicuramente di un sorta di abbandono terapeutico, ma in una accezione diametralmente opposto a quella intesa finora. Oggi, abbandonare il paziente significa anche non riconoscere e non sostenere il suo – nuovo – diritto alla mma.

Tali condizioni dei pazienti nel loro percorso finale saranno sempre più diffuse. L’età sempre più avanzata dei pazienti, la complessità delle patologie, il progresso dei mezzi terapeutici e la conseguente possibilità di applicare terapie sempre più complesse, renderanno tali situazioni sempre più diffuse.

Affrontiamo adesso un paio fra gli argomenti più diffusi a sostegno della tesi dell’inutilità di una legge sulla mma.

La prima: dove c’è una offerta valida di cure palliative non c’è richiesta ne bisogno di mma. In verità i dati oggettivi e la storia non danno ragione a questa tesi. Sono stati infatti paesi già altamente avanzati sul piano sanitario – che offrivano da tempo ai loro cittadini una valida e capillare rete di cure palliative anche domiciliari – che sono giunti alla decisione di regolamentare la mma, come ad esempio Olanda, Belgio, Svizzera, Canada, Spagna e molti stati del USA, per citare solo i principali.

La seconda: è inutile occuparsi di un problema che riguarda solo pochi casi all’anno, ancorché mediaticamente supportati. Premesso che in tema di diritti civili basterebbe anche un solo caso all’anno perché uno stato moderno si mostri capace di dare risposta, i numeri sembrano dire il contrario. Infatti, se ci rifacciamo ai dati olandesi – il paese che offre i numeri statisticamente più affidabili essendo colà in vigore una legge sulla mma dal 2002 – vediamo che il tasso di utilizzo iniziale della mma è stato del 1-2%, per poi raggiungere l’attuale 4% di tutti i decessi annui, dato peraltro ormai stabile in Olanda dal 2014. In Italia il solo 2% dei decessi totali annui rappresenterebbe più di 10.000 persone

Infine un solo accenno al problema dell’obiezione di coscienza, che peraltro meriterebbe una trattazione a parte. Sostenendo la tesi del dovere morale riconosco che sia difficile – se non contraddittorio – riconoscere poi un diritto all’obiezione di coscienza, che ritengo però assolutamente necessario perché comprendo bene che un riconoscimento legislativo alla mma non può essere imposto come dovere d’ufficio a tutti i sanitari, così come d’altronde non lo è in nessun paese che l’ha regolamentata per legge.

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L’Associazione Luca Coscioni sta raccogliendo le firme a sostegno di un referendum per rendere legale l’eutanasia e il suicidio assistito in Italia. Tutte le informazioni su: referendum.eutanasialegale.it.

 

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