Il pensiero è coscienza morale

La responsabilità verso l’altro come elemento fondamentale della soggettività. Una riflessione sull’attualità della filosofia di Emmanuel Levinas.

Teresa Simeone

L’essere umano è una monade isolata, in sé stessa risolventesi o un Io in relazione, inserito in un contesto di legami fatti di presenze e di ascolti? Domanda retorica a cui rare persone potrebbero rispondere con la prima opzione, eppure ciò che è ovvio e frutto di analisi costruite nel tempo è sconfessato dal fervore con cui si contesta, nella prassi, l’essenza relazionale dell’Io e la si riconduce a una dimensione egocentrica in cui a prevalere sono le spinte alla libertà assoluta piuttosto che quella relativizzata dalla presenza di un altro.

Emmanuel Levinas, esponente di spicco di quel filone ebraico che ha prodotto fertili riflessioni sull’etica, lo riferisce molto chiaramente quando sottolinea il valore dell’Altro, sia inteso come essere umano, sia come alterità trascendente e divina che come alterità in generale, in ogni caso come presenza che ci impone l’uscita dalla nostra soggettività egoistica. E tale apertura è sollecitata dall’incontro con il prossimo che avviene attraverso il volto e ci chiama alla responsabilità.

Il tema del volto è centrale nel suo pensiero perché è il luogo “etico” in cui si sostanzia la presenza di un “non me”. “Penso – ha detto Levinas – che l’accesso al volto è immediatamente etico[1]. Il volto è significazione e parla. Mi interpella. E bisogna “rispondere a lui e rispondere già di lui[2].

La responsabilità, per Levinas, non è qualcosa di accessorio ma la struttura essenziale, primaria, fondamentale della soggettività, soggettività che descrive in termini etici. Ed è, per lui, “responsabilità per altri”.[3] Appena “altri mi guarda io ne sono responsabile, anche senza dover assumere nessuna responsabilità nei suoi confronti: la sua responsabilità mi incombe.”[4] Non posso sottrarmi: la soggettività è, fin dall’inizio, per un altro. Il legame con lui si stringe soltanto come responsabilità, sia che essa venga accettata o rifiutata. Io sono responsabile senza aspettare di essere ricambiato. Che l’altro lo faccia, dice Levinas, è “affar suo”. “Io non intercambiabile, io sono io soltanto nella misura in cui sono responsabile. Io posso sostituirmi a tutti, ma nessuno può sostituirsi a me: e questa è la mia inalienabile identità di soggetto.”[5] Nessuna presa di responsabilità, come si vede, può essere più totale.

La relazione etica ci fa uscire dalla solitudine dell’essere e ci apre al mondo. Sicuramente con tutti i suoi rischi che includono anche il dover portare il peso della sorte altrui. Fino all’assunzione estrema.

Penso che nella responsabilità per altri si sia responsabili, in ultima analisi, della morte dell’altro”[6]. […] Quello che nel volto viene detto come domanda significa certamente un appello al donare e al servire – ossia al comandamento di donare e servire –, ma al di sopra di questo, e includendolo, si dà l’ordine di non lasciare solo altri, fosse pure di fronte all’inesorabile. È questo probabilmente il fondamento della socialità, dell’amore senza eros. Il timore della morte dell’altro è sicuramente alla base della responsabilità nei suoi confronti.”[7]

Come attuali risultino queste parole è segno che la filosofia non è mai fuori dalla storia, dal mondo, dalla società. E che la sua modernità, nel senso letterale del termine, come adesione allo spirito del tempo che si vive, è ciò che la rende sempre necessaria.

Non è vera vita, dunque, quella che non “si risvegli all’altro”, che non lo includa nel proprio mondo. “L’essere non è mai – contrariamente a quanto affermano tante tradizioni rassicuranti – la sua propria ragione d’essere: il ben noto conatus essendi non è la fonte di ogni diritto e di ogni senso.[8]

Come essere pensante l’uomo è colui per il quale il mondo esterno esiste. “A partire da questo momento la sua vita cosiddetta biologica, la sua vita puramente interiore si illumina di pensiero.”[9] Di un pensiero che include l’esteriorità, l’alterità e la cui condizione è, per ciò, una coscienza morale.

Gli esseri stanno l’uno di fronte all’altro. “Il pensiero ha inizio con la possibilità di concepire una libertà esterna alla mia[10]. E, con tale concreta apertura, si dissolve la pretesa della sovranità assoluta e solitaria dell’io.

Certamente Levinas esaspera la presenza dell’altro, fino a farsene in qualche modo asservire, fino a stabilire un primato sull’io che rischia, come rilevato e criticato da Ricoeur in Percorsi del riconoscimento, una certa disimmetria perché rovescia per reazione la prospettiva a favore dell’altro. Per Ricoeur “il primato epistemologico appartiene all’io, il primato etico al tu[11] nel senso che “il movimento che dall’altro viene verso di me […] ha la priorità nella dimensione etica, il movimento dall’ego all’alter ego conserva una priorità nella dimensione gnoseologica[12]. Alla base di ogni considerazione, però, rimane il riconoscimento reciproco, per cui l’io e l’altro si assumono le rispettive libertà. Insieme alle responsabilità.

E proprio il rigore di uno sguardo imprescindibile sull’altro porta Levinas a distaccarsi da Heidegger, in opposizione alla sua algida ontologia. “Su questo tema è avvenuta la mia rottura con Heidegger. Era hitleriano e non ha colto il valore della dignità dell’uomo e dell’”altro”. Ma io sono ebreo ed essere ebrei non significa soltanto conoscere il Talmud, significa aver sofferto come un ebreo. È a questo che bisogna arrivare. Aver sofferto come un ebreo. E di questa sofferenza una piccola responsabilità è da attribuire a un certo Hitler[13].

Quando Levinas parla di Heidegger, non ne tace il fascino indiscusso che lo aveva ammaliato, lo spessore teoretico e la personalità carismatica che intrigava chiunque avesse a che fare con lui, come la padronanza con cui dominava ogni questione filosofica: la nutrita schiera di pensatori che è nata dalle sue prolifiche lezioni ne ha riconosciuto la grandezza di maestro. Eccellente e insuperato. E, ciononostante, altrettanti allievi se ne sono poi allontanati, delusi quando i noti legami col nazionalsocialismo sono diventati evidenti e ingiustificabili per chi si aspettava che a tanta vis speculativa corrispondesse un eguale spessore etico. Non poteva non essere così anche per il filosofo lituano.

Per lui, il problema fondamentale è quello etico, quello dell’assunzione della presenza di un altro: “Il punto su cui insisto è che quando si è responsabili, si risponde sempre di un altro uomo. Noi, certo, possiamo ignorarlo, ma in realtà siamo responsabili anche di ciò che è successo poco fa a colui che è passato vicino a noi. Questa è la responsabilità.[14]

Alla domanda di Dio “Dov’è Abele, tuo fratello?”, Caino risponde: “Non so. Sono forse io il custode di mio fratello?[15] scatenando una serie di analisi come anche quella di Levinas e riproponendo un tema sempre attuale, che anche in questa pandemia ritorna e ci chiama alla riflessione, nonostante i tentativi che a volte facciamo con noi stessi di eludere il peso della responsabilità per chi ci è prossimo. D’altronde può darsi un “essere con gli altri” che non preveda responsabilità? È possibile un senso della collettività, un superamento dell’individualismo esasperato che non comprenda la responsabilità di ciascuno di noi per chi ci è a fianco? Certo Levinas porta alle conseguenze estreme questo “imperio dell’altro” su di me, come quando in Etica e Infinito scrive: “Siamo colpevoli di tutto e di tutti, davanti a tutti; e io più degli altri[16]

Con la sua straordinaria lezione di generosità è probabilmente lontano da quella contrattazione sociale che ogni giorno pratichiamo nel tentativo di superare chiusura egoistica, da un lato, e annullamento masochistico, dall’altro, ma in ogni caso ci interroga sui nostri comportamenti, sulla liceità di un modo di procedere solitario e autoreferenziale, sulla difesa della nostra legittima ricerca della felicità e sul contemperare l’eguale aspirazione degli altri, in una tensione che, ancora una volta, richiede equilibrio, sintesi, capacità di compromesso, quello benefico, quello che include bisogni, diritti e doveri differenti, ma necessariamente risolvibili all’interno di un comune consesso.

Alla solitudine mentale del pensare, cui è giusto indulgere e che è doveroso preservare, fonte com’è di analisi autonome, dissidenti, se non rivoluzionarie, dovrebbe poi corrispondere l’apertura nel sociale e l’accettazione di una coscienza altrettanto portatrice di diritti. Ognuno di noi, abitante di questa terra, è altro per l’altro, io per l’io: il terreno d’incontro, necessario per continuare a vivere civilmente, è il riconoscimento reciproco, viatico alla mutua assunzione di responsabilità.

NOTE

[1] Emmanuel Levinas, Etica e infinito, Dialoghi con Philippe Nemo, Castelvecchi, pag. 87

[2] Ivi, pag. 89

[3] Ivi, pag. 93

[4] Ivi, pag. 93

[5] Ivi, pag. 97

[6] Ivi, pag. 107

[7] Ivi, pag. 107

[8] Ivi, pag. 109

[9] Emmanuel Levinas/Gabriel Marcel/Paul Ricoeur, Il pensiero dell’altro, a cura di Franco Riva, Edizioni lavoro, pag. 41

[10] Ivi, pag. 44

[11] Ivi, XXIV

[12] Paul Ricoeur, Sé come un altro, Milano, Jaka Book, pag. 450

[13] https://antemp.com/2011/06/10/emmanuel-levinas-il-volto-dellaltro-intervista-di-renato-parascandolo-sergio-benvenuto/

[14] Far riferimento alla stessa intervista a Parascandolo.

[15] Genesi, 4, 9

[16] Levinas emmanuell, Etica e Infinito, F. Riva (a cura di), Castelvecchi, Roma, 2014, Pag. 97

 

(credit foto Bracha L. Ettinger, CC BY-SA 2.5, via Wikimedia Commons)



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