“Libera. Diventare grandi alla fine della storia”

Il memoir di Lea Ypi, docente di Filosofia politica alla London School of Economics, è la storia del susseguirsi di differenti e confliggenti idee di libertà nel Paese d’origine dell’autrice, l’Albania.

Elettra Santori

Può sembrare controintuitivo, ma ogni dittatura, per imporsi, ha bisogno di rivendicare una sua peculiare, benché contorta, idea di libertà. I totalitarismi novecenteschi, sia di destra sia di sinistra, non hanno mai esitato ad attingere al lessico della libertà, seppure opportunamente revisionato, per contrapporsi efficacemente alle democrazie liberali e dissimulare la tirannide. Lo ha fatto la mistica fascista identificando la libertà nell’autodominio, nell’abnegazione di sé e nel sacrificio dei propri interessi particolari (per vivere, bisogna controllare spietatamente se stessi, sosteneva Mussolini[1]); e lo ha fatto anche la dittatura comunista nelle sue varie declinazioni geo-storiche, negando i diritti individuali borghesi in nome di un collettivismo che differiva la libertà piena e compiuta nella futura società senza classi.

La vicenda individuale e sociale raccontata da Lea Ypi in Libera. Diventare grandi alla fine della storia (Feltrinelli, 2022) è appunto la storia del susseguirsi di differenti e confliggenti idee di libertà nel suo Paese di origine, l’Albania. Una terra passata di giogo in giogo, che ha conosciuto in successione il dominio ottomano, l’occupazione fascista, la dittatura nazista e gli odierni diktat liberisti; e che ancora oggi fatica a trovare una sua voce e una sua autonomia, oscillando tra un’antica fierezza indipendentista e una propensione post-comunista al pragmatismo ambiguo e all’accondiscendenza morale.

L’infanzia di Ypi è tutta dominata dalla pedagogia comunista ispirata da Enver Hoxha (che dell’Albania fu brutale dittatore fino alla sua morte, nel 1985), di cui è terminale ultimo ed efficacissimo la maestra Nora: è da lei che la piccola Lea apprende in cosa consiste l’ideale comunista di libertà, abbracciandolo con tutto il suo fresco entusiasmo di bambina. «Nel capitalismo la gente sosteneva di essere libera e uguale ma erano solo chiacchiere», sentenzia Lea ripetendo devotamente le parole della sua maestra, «perché di fatto i diritti e i vantaggi della libertà erano riservati ai ricchi. Le loro ricchezze erano state accumulate rubando le terre, sfruttando le risorse del mondo […] Da noi invece la libertà era per tutti, non soltanto per gli sfruttatori. Lavoravamo, ma per noi stessi, non per arricchire i capitalisti, e condividevamo il frutto del nostro lavoro. Nel nostro Paese non esistevano né avidità né invidia. Le esigenze di tutti venivano soddisfatte, e il Partito ci aiutava a coltivare i nostri talenti»[2].

Oltre alla fierezza anti-capitalista, Nora instilla nei suoi piccoli discepoli anche una dose cospicua di orgoglio nazionalista che enfatizza il coraggio del comunismo albanese, equidistante dalle sirene revisioniste dell’Est come da quelle imperialiste dell’Ovest. E la piccola Lea aderisce con slancio al dettato della sua maestra: «I nostri nemici avevano cercato spesso di abbattere il nostro governo, ma avevano sempre fallito miseramente. Alla fine degli anni Quaranta, avevamo tagliato i ponti con la Iugoslavia, che aveva voltato le spalle a Stalin. E negli anni Sessanta, quanto Krusciov aveva disonorato il lascito di Stalin, e accusato noi di “deviazionismo nazionalista di sinistra”, avevamo interrotto i rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica. A fine anni Settanta, la Cina aveva deciso di arricchirsi tradendo la Rivoluzione culturale, e noi avevamo chiuso anche con lei. Poco male. Eravamo circondati da nemici potenti, ma avevamo la certezza di stare dalla parte giusta della storia»[3].

La soffocante pedagogia di Nora, però, non impedisce a Lea e ai suoi coetanei di percepire il fascino tentatore del capitalismo, di cui si fanno emissari i turisti occidentali in vacanza sulle coste albanesi. Lea impara a riconoscerli dall’odore di crema solare, un profumo allettante di fiori e di burro «che metteva voglia di inseguirli e abbracciarli»[4] (ma pronta risuona nella sua mente la voce della maestra Nora: gli stranieri vanno evitati, se incrociati per strada è d’obbligo cambiare direzione). Esclusivamente ai turisti sono riservati i prodotti del negozio che accetta solo pagamenti in valuta straniera, dove Lea si intrufola per contemplarne le mirabilia: lattine di Coca-Cola, confezioni di arachidi tostate, t-shirt, cappelli da sole, reggiseni rossi… Beni «capaci di esaudire tutti i sogni» (non sogni veri, ma soltanto aspirazioni capitalistiche, correggeva la maestra Nora). Le lattine di Coca, oggetto di vero e proprio culto clandestino, diventano uno status symbol: «Chiunque riuscisse ad accaparrarsene una la collocava al posto d’onore in salotto, di solito su un centrino ricamato sopra il televisore o la radio, spesso fianco a fianco con la foto di Enver Hoxha. Senza la lattina di Coca-Cola, le nostre case erano tutte uguali: stesso intonaco, stessi mobili. La lattina operava un cambiamento sostanziale, e non solo in termini di arredamento. L’invidia si insinuava tra noi. Sorgevano diffidenze. La fiducia reciproca saltava»[5].

Quando nel Novanta, cinque anni dopo la morte dello “zio Enver”, scoppiano in Albania le prime proteste contro il sistema monopartitico, in nome «della democrazia e della libertà reali», Lea, bambina educata alla devozione comunista, non capisce i manifestanti: «Avevamo il socialismo, e il socialismo ci aveva dato la libertà. Quei manifestanti si sbagliavano. Non c’era bisogno di invocare la libertà, perché noi ce l’avevamo già»[6]. Per la prima volta la narrazione ufficiale della libertà comunista viene messa in crisi dalla nuova idea liberale di libertà che si va facendo strada in Albania. Non solo: con la fine del sistema monopartitico, Lea scopre anche che il dissenso politico si agitava da sempre nella sua stessa famiglia, in suo padre, sua madre e sua nonna, senza che lei se ne accorgesse. E con ciò le verrà rivelata anche una drammatica storia familiare, taciuta per paura e per spirito di sopravvivenza.

Esiste una consolidata attitudine della narrativa contemporanea albanese a ripercorrere gli anni della dittatura comunista, quasi si trattasse di una insopprimibile pulsione alla verbalizzazione del trauma a scopo auto-terapeutico. Il memoir di Ypi non sfugge a questa tendenza, dedicandosi in buona parte alla ricostruzione della quotidianità comunista in Albania, con un registro ironico che sposa il punto di osservazione di Lea bambina per far risaltare tutto l’infantilismo in cui cadono le dittature quando calano nel concreto della vita reale il loro sistema di veti e proscrizioni.

Nella seconda parte del memoir, in cui Lea assiste alla transizione dal socialismo alla democrazia, il registro ironico si dirada, cede il posto al linguaggio dello spaesamento e della perdita delle certezze. Nuove interpretazioni del concetto di libertà si affacciano nel mondo di Lea: l’anarchismo del padre («detestava l’autorità in ogni sua forma […] A suscitare la sua ammirazione erano i nichilisti e i ribelli») e il liberismo della madre, divenuta una militante politica del Partito democratico d’Albania («punti programmatici: lotta alla corruzione, agevolazione della libera impresa, tutela della proprietà privata, promozione dell’iniziativa individuale. In breve: libertà»).

«Io però non mi sentivo libera», afferma Lea ormai adolescente. Vede la nuova Albania spopolarsi di persone, in fuga verso Ovest, e dei vecchi ideali, come la solidarietà e il mutuo soccorso che caratterizzavano la vita sociale sotto il comunismo, mentre assiste all’arrivo di un variegato mondo di inviati dell’Occidente: specialisti delle società in transizione, consulenti del governo su progetti di privatizzazione, osservatori internazionali, mediatori, specialisti di marketing piramidale… Arrivano anche i soldi della Fondazione Soros e le donazioni degli arabi per la ricostruzione delle moschee. Si aprono bar e locali, perlopiù di proprietà di contrabbandieri – trafficanti di migranti, di droga, di prostitute, tutte attività ormai considerate mestieri normali: «Quel tizio là, quello sulla Bmw con i finestrini oscurati, spettegolavano le vicine, […] lavorava nella fabbrica di biscotti. L’avevano licenziato […] ma lui è riuscito a passare il confine e ad arrivare in Svizzera. Adesso si occupa di business. Import-export. Cannabis, cocaina, prodotti così»[7].

Direttamente dagli Usa arriva anche il positive thinking che esalta l’iniziativa individuale. E gli albanesi cominciano a investire il loro denaro in finanziarie che presto si riveleranno insolventi. Oltre la metà della popolazione perde i propri risparmi. Scoppiano proteste contro il governo accusato di collusione con le finanziarie, seguono saccheggi, attacchi di civili, oltre 2 mila persone perdono la vita.

Altre, invece, perdono il lavoro, sulla scia di una nuova razionalizzazione economica ispirata dall’Europa. E così Lea sperimenta una ennesima reincarnazione del concetto di libertà, quello della road map liberista, che ancora oggi ha ampia presa sulle menti albanesi, e che coincide col consumo indiscriminato di suolo e risorse, con un disordine umano, economico e materiale da cui il Paese fatica a uscire.

Su questa recente Albania, Ypi non si sofferma dettagliatamente. Emigrata prima in Italia e poi a Londra, dove insegna marxismo e teoria critica, guarda ormai alla madrepatria come una vittima tra le vittime di un inganno di vasta portata: quello della libertà occidentale, che da un lato alimenta l’iniziativa e l’espressione individuale, dall’altro, però, lascia intatte le strutture che ne impediscono la fruizione alla collettività intera: «La libertà non viene sacrificata solo quando gli altri ci impongono cosa dire, dove andare, come comportarci. Anche le società che pretendono di aiutare gli individui a realizzare il loro pieno potenziale ma si rifiutano di cambiare le strutture che lo rendono impossibile sono oppressive. Eppure, a dispetto di tutte le costrizioni esterne, noi non perdiamo mai la nostra libertà interiore: la libertà di fare ciò che è giusto»[8].

[1] Gastone Silvano Spinetti, Fascismo e libertà. Verso una nuova sintesi, Scuola di mistica fascista, 1940.

[2] Lea Ypi, Libera. Diventare grandi alla fine della storia, Feltrinelli, 2022, p. 96.

[3] Ivi, p. 23.

[4] Ivi, p. 93.

[5] Ivi, p. 68.

[6] Ivi, p. 24.

[7] Ivi, p. 246.

[8] Ivi, p. 293.



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