Liberazione e Repubblica: un’unica festa?

Dopo l’ennesima occasione persa per un 25 aprile di coesione nazionale, l’invito del presidente Mattarella nel trovare l’unità nel comune rifiuto del fascismo è più attuale che mai. Coerente con questa prospettiva è la proposta del presidente della Corte Costituzionale di accorpare la festa della Liberazione e la festa della Repubblica in un’unica celebrazione. Perché non farla proprio il 25 aprile?

Mauro Barberis

Le feste, religiose e politiche, non sono solo vacanze: sono riti, memoria, momenti di unione. Anche il 25 aprile avrebbe potuto esserlo; per un giorno, avremmo potuto dimenticare quanto ci divide. Ma non fascismo e antifascismo, non più: ormai tre quarti degli italiani, tre quinti di Fratelli d’Italia, si dichiarano antifascisti. Eppure, abbiamo perso l’ennesima occasione: ma non, di nuovo, per le guerre in corso, la censura a Scurati, l’indisponibilità del(la) presidente del Consiglio a pronunciare quell’unica parolina magica, “antifascismo”. La ragione è molto più banale. Quest’anno ci sono le elezioni europee, e anche le cose più sacre vengono piegate a quest’unico obbiettivo, prendere qualche voto in più.
Per fortuna, come sempre, è intervenuto il presidente Mattarella. Nel suo discorso del 25 aprile ha indicato la vera ragione della frattura tra italiani e fascisti: la regressione che la guerra civile del 1944 ha portato nel costume nazionale. In un paese cattolico, ma che non ha mai conosciuto persecuzioni di massa – al massimo qualche eretico bruciato, giusto per distrarsi – si sono deportati settemila ebrei, di cui solo un decimo tornati, consumati cinquemila eccidi, esiliati seicentomila soldati, di cui cinquantamila mai più tornati, solo per aver rifiutato di servire i nazifascisti di Salò. È stata questa regressione civile e morale, le mille vendette consumate per una guerra ormai persa, a scavare il solco tra italiani e fascisti.
Ma al Presidente, officiando il rito del 25 aprile, non interessava approfondire il solco, bensì, tutt’al contrario, trovare nel comune rifiuto del fascismo un motivo di unità. Di qui il richiamo alle parole di Aldo Moro: “intorno all’antifascismo è possibile e doverosa l’unità popolare, senza compromettere […] il pluralismo sociale e politico”. A proposito di pluralismo, c’erano già stati, in anni non lontani, tentativi nello stesso senso compiuti dalla destra: la svolta di Fiuggi, o il discorso di Berlusconi a Onna. In questa seconda occasione, nel 2006, il Secolo xix pubblicò l’editoriale di Augusto Barbera, attuale Presidente della Corte costituzionale, ripubblicato il 27 aprile e qui commentato.
Il ragionamento di Barbera è molto semplice, e va nella stessa direzione dei discorsi di Moro e Mattarella. Ogni paese ha la propria festa nazionale: gli americani il 4 di luglio, data della dichiarazione d’indipendenza, i francesi il 14 dello stesso mese, giorno della presa della Bastiglia. Noi, invece, abbiamo due feste diverse: il 25 aprile, festa della Liberazione, e il 2 di giugno, festa della Repubblica. Perché non riunirle, si chiede Barbera, e non farne un’unica festa nazionale? Quanti considerano le feste solo un giorno di vacanza in più diranno che così perdiamo un’altra festa, oltre a quelle religiose già abolite con legge del Parlamento sin dal 1977.
Personalmente, invece, sono d’accordo con Barbera per almeno due ragioni: per la maggiore solennità di un’unica festa nazionale, ma anche per il segnale unitario che il Parlamento manderebbe al paese. Oggi, ammettiamolo, il Parlamento non funziona né da organo rappresentativo della volontà popolare, né da camera di compensazione dei conflitti sociali: serve solo per ratificare gli accordi entro la maggioranza, o come cassa di risonanza delle polemiche fra i partiti. E non parliamo del premierato elettivo e dell’autonomia differenziata proposte dalla destra: non restituirebbero al Parlamento il suo ruolo, anzi glielo toglierebbero definitivamente.
Invece, pensate se maggioranza e opposizione, per una volta, si accordassero per un’unica festa nazionale: il 25 aprile, naturalmente. Ecco, almeno per un momento, il Parlamento tornerebbe a rappresentare l’unità del paese.

CREDITI FOTO: Ammendola/US Quirinale



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