L’Italia compiange le donne afghane ma toglie la libertà a chi ha combattuto il jihadismo

Eddi Marcucci ha combattuto in Siria contro gli alleati dei Talebani. Lo stato italiano ha fatto di tutto per rovinarle la vita.

Davide Grasso

In questi giorni tutti i rappresentanti dello stato italiano hanno espresso la propria ripugnanza per il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan, le stragi compiute dallo Stato islamico e il destino non facile delle donne nel paese. Dovremmo però mettere le cose in prospettiva. Pensiamo alla vicenda di Maria Edgarda Marcucci detta Eddi. Senza chiedere soldi, permessi o premi a nessuno, all’epoca studentessa universitaria, è andata nel 2018 a combattere in Siria contro gli alleati dei Talebani, i jihadisti sostenuti dalla Turchia che perseguitano la popolazione locale. Si era unita a siriane – in gran parte curde, ma non solo – delle Unità di protezione delle donne formate per combattere Al-Qaeda nel 2013 e l’Isis dal 2014. Le Ypj sono sorte in completa indipendenza dallo stato siriano e sono impegnate nella costruzione di istituzioni plurali ed egualitarie che il regime di Assad e la Turchia tentano di reprimere.

Lo stato italiano, dopo che Eddi è tornata, ha fatto di tutto per rovinarle la vita. Dopo un procedimento pubblico la procura di Torino è riuscita a infliggerle due anni di sorveglianza speciale. Di cosa si tratta? Pur non essendo accusata di alcun reato (poiché non è possibile rinvenirne nel codice penale, in relazione alla sua scelta) una sezione speciale del tribunale ha limitato la sua libertà e i suoi diritti civili. La sorveglianza speciale non prevede il carcere, ma limitazioni alla propria autonomia personale, alle attività sociali e alla libertà di espressione. Fu introdotta in origine dal Codice Rocco fascista per punire i dissidenti anche soltanto a causa del loro pensiero. Ammodernata nelle epoche di Scelba e di Berlusconi, è usata dalla repubblica per intervenire contro chi non ha commesso reati, ma si ritiene abbia sviluppato una “personalità” – politica in questo caso – che è potenzialmente deviante (leggi: eccessivamente critica).

Dal 17 marzo 2020 Eddi non può quindi uscire di casa prima delle 7.00 e deve ogni giorno ritornarvi prima delle 19.00. Non può muoversi per l’Italia senza contattare le forze dell’ordine. Non può espatriare. Le è stata tolta la patente. Le è stato dato un libretto rosso in cui la polizia dovrebbe annotare ogni suo movimento o comportamento, che lei dovrebbe tenere sempre con sé. Le è vietato partecipare a manifestazioni politiche o incontri pubblici. Non può avvicinarsi a locali d’intrattenimento dopo le 18.00. Il Tribunale di Torino ha infatti stabilito che Eddi è pericolosa «per la società». Prima e dopo aver combattuto con un esercito di donne mediorientali, in gran parte musulmane, contro i jihadisti (ed essere sopravvissuta, contrariamente a diverse sue compagne) ha infatti organizzato manifestazioni politiche, soprattutto femministe ed ecologiste, in Italia. Nelle reiterate argomentazioni di procura e tribunale questo costituisce un fattore di pericolo. Passi, insomma (a volte) arruolarsi in forze rivoluzionarie straniere, o passi (a volte) essere socialmente all’opposizione in Italia; ma tutte e due le cose insieme, no!

Di fronte alla retorica di stato o alla propaganda xenofoba delle destre in rapporto alla violenza fondamentalista (perché proveniente da una religione «straniera»), chi ha tentato in questi vent’anni di dare un contributo (nelle terre dove quell’integralismo lo combattono le persone del posto davvero, strada per strada) sono state spesso persone simili a Eddi. Persone che, se avevano precedenti penali in Italia (e non è il suo caso), non era per bancarotta fraudolenta o voto di scambio, ma per resistenza a pubblico ufficiale in qualche sciopero o occupazione universitaria. Lo stato ha stabilito che a combattere i jihadisti non deve andare chi fa queste cose (è il succo di ciò che si è ascoltato in aula e letto agli atti), eppure sembra che l’azione concreta (si pensi a Emergency o, sul piano dell’informazione, a Claudio Locatelli) sia intrapresa ad esempio in Afghanistan da chi non vede il fondamentalismo solo quando parla una lingua diversa, ma è cresciuto battendosi anche contro quello di casa propria. Spesso «le donne» servono all’ideologia statale come vittime da compatire e poi “salvare”, appropriandosi nel frattempo di qualche ricchezza straniera; salvo poi accorgersi che non si è salvato nessuno pur avendo ma si sono ucciso o reso profughi migliaia di persone. Se però le donne si armano di unione, autonomia, coraggio e magari di mitra (strumento spesso necessario in quelle circostanze) diventano “socialmente pericolose” (leggi: squilibrate).

Il caso di Eddi illumina su cosa accade nei fatti a una donna italiana che voglia essere conseguente con la solidarietà femminile oltre i confini della propria nazione. La condizione femminile in Italia e in Afghanistan, si tiene a sottolinearlo, non è paragonabile. Questo non è però – e lo si sottolinea di meno – frutto dell’accondiscendenza maschile in seno a un popolo più evoluto, bensì delle battaglie organizzate nel tempo dalle donne europee militanti che sono state in grado di parlare alle donne comuni. In passato come oggi quelle persone presentano molti dei caratteri che Eddi ha fatto propri e che lo stato le ha rinfacciato. Senza persone che sappiano sfidare l’ottusità e il conformismo anche a costo di essere percosse o sfidare l’autorità, l’Italia oggi avrebbe ancora il divieto al divorzio (che neanche i Talebani contemplano in forma assoluta) o il delitto d’onore, che invece è loro tanto caro (qui è stato abolito nel 1981 solo in seguito alle battaglie femministe).

Lo stato italiano, inteso come apparato burocratico e militare, quali crediti ha invece su questo tema? Ha investito milioni di euro, prodotto di chi lavora, in vent’anni di occupazione militare dell’Afghanistan. Quando la guerra e il coinvolgimento italiano sono iniziati, nel 2001, chiunque provasse a obiettare (e fummo in tanti, quasi tutti fuori dalle istituzioni) veniva accusato di essere un amico di Al-Qaeda. Oggi la Cia si coordina con i Talebani che, come allora, di Al-Qaeda sono fraterni alleati: il gruppo che in un giorno – l’11 settembre 2001 – ha ucciso tremila newyorkesi. Allora lo stato italiano si è mosso, come da tradizione, a rimorchio degli Stati Uniti; eppure ora, sorprendentemente, sembra che gli americani abbiano sbagliato tutto da soli e l’Italia non c’entrasse niente; oppure che gli americani fossero dei folli ma il nostro esercito abbia fatto un’opera di bene. In questo c’è tanta malafede, ma anche un complesso d’inferiorità decisamente imbarazzante per il nostro paese. Ora l’Italia ritira il suo esercito con la coda tra le gambe e senza aver concluso nulla, e si crede che tutto questo possa essere archiviato con una scrollata di spalle, con un «ci abbiamo provato».

Là, dove Eddi si è battuta, le persone (le donne in primis) hanno costruito istituzioni che tentano di essere rispettose delle differenze religiose e delle sensibilità culturali, ma al tempo stesso possiedono un codice etico-politico ben preciso e non transigono verso chi opprime nell’economia o nella famiglia. Quel progetto – il confederalismo democratico promosso dal partito curdo socialista Pyd – è nato da militanti spesso arrestati e torturati dai loro stati secondo leggi vigenti che li definiscono “socialmente pericolosi” o “terroristi”. Sono evidenti le profonde differenze di contesto, ma resta che non è originale, per uno stato, bollare come pericolosa la personalità che immagina soluzioni alternative a quelle attuali. La lotta contro l’estrema destra islamista (come quella, a suo tempo, contro la destra fascista e antisemita supportata dalla Chiesa cattolica) non può basarsi solo sulle armi, ma deve offrire appunto un’alternativa sociale, ideologica e politica. Per questo proprio il desiderio di Eddi di immaginarla, quest’alternativa, se è pericoloso secondo lo stato è benefico per la società. Non è impossibile comprendere perché storicamente sia invece quello stato a dimostrarsi ogni volta – e ancora in Afghanistan – non solo pericoloso, ma inutilmente letale.



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