Libertà di espressione, l’Italia è da “rischio medio” per la Commissione europea

Nel rapporto della Commissione europea sullo Stato di Diritto dell’Unione, pubblicato questo luglio, l’Ue ha rilevato che in Italia c'è stato un deterioramento della libertà di espressione rispetto alla quale si trova nella stessa fascia di rischio di Albania, Bulgaria, Croazia, Grecia, Ungheria, Irlanda, Polonia, Serbia, Slovenia e Spagna.

Angela Galloro

Nel rapporto della Commissione europea sullo Stato di Diritto dell’Unione, pubblicato questo luglio, e nello specifico nella sezione che riguarda il pluralismo dei media e la libertà di informazione nei paesi membri, l’Ue classifica l’Italia come a “rischio medio” per quanto riguarda la protezione della libertà di espressione, l’indipendenza politica dei media e l’inclusione sociale. In generale dall’ultimo report del Centre for Media Pluralism and Media Freedom (CMPF) sul tema, emerge come l’Italia si sia conquistata il rischio medio per un deterioramento della libertà di espressione rispetto alla quale si trova nella stessa fascia di rischio di Albania, Bulgaria, Croazia, Grecia, Ungheria, Irlanda, Polonia, Serbia, Slovenia e Spagna.
A preoccupare la Commissione Europea due fattori nello specifico: le aggressioni nei confronti dei giornalisti e le querele temerarie (“SLAPP”, strategic lawsuits against public participation). Nel rapporto del 2022 l’Italia si collocava sempre su una posizione di rischio medio ma con un peggioramento del ranking di 5 punti percentuali per via dell’aumento delle intimidazioni del 42% rispetto all’anno precedente e delle azioni legali contro i giornalisti.

Sempre uguali gli aspetti sotto la lente di ingrandimento delle istituzioni europee. I contenziosi abusivi nei confronti dei giornalisti, il segreto professionale e la protezione delle fonti e, soprattutto, la diffamazione. Quest’ultima viene considerata un’“area chiave” da molto tempo: da più di 20 anni il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani chiede la depenalizzazione del reato di diffamazione, seguito dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo che ha più volte condannato l’Italia per il mancato seguito alle raccomandazioni in tal senso.
In Italia permane il carcere per i giornalisti, a discrezione del giudice, per i reati più gravi, pena considerata unanimemente dagli organismi difensori dei diritti umani come sproporzionata, che si alterna a sanzioni economiche molto pesanti anch’esse insostenibili e sproporzionate, con effetti dissuasivi sulla libertà di espressione. Nonostante nel 2021 la Corte Costituzionale abbia limitato l’applicazione delle pene detentive per i giornalisti, riservandole solo ai casi in cui vengano accompagnate da incitamento all’odio, alla violenza, alle discriminazioni etniche, religiose o razziali, in Italia se ne ricorre comunque fin troppo spesso. È di ottobre 2022 la sentenza con la quale quattro giornalisti, accusati dall’ex ministra Teresa Bellanova di aver riportato la notizia della causa di lavoro promossa contro di lei dal suo ex addetto stampa, sono stati condannati dal Tribunale di Lecce con pene di 6 e 12 mesi di reclusione.

Il dossier “Taci o ti querelo!” dell’osservatorio Ossigeno per l’informazione già nel 2016 denunciava come la mancata riforma della legge sulla diffamazione aveva prodotto ogni anno in Italia circa 100 anni di carcere per i giornalisti, data la grossa mole di querele pretestuose.
“lI carcere”, sostiene la CEDU nei suoi numerosi rapporti, “sortisce un “chilling effect” (effetto raggelante, deterrente ndr) sulla libertà dei giornalisti di informare con effetti negativi sulla collettività che ha a sua volta diritto a ricevere informazioni”. Sentenze come quelle della procura di Lecce costituiscono pertanto forti inibizioni per il lavoro del giornalismo, soprattutto nella sua vocazione principale, a guardia del potere.
La diffamazione è stata depenalizzata in soli cinque paesi d’Europa (Irlanda, UK, Malta, Romania, Cipro), solo Croazia e Bulgaria la considerano reato ma senza pene detentive mentre dei 27 paesi UE, 21 contemplano ancora il carcere per i giornalisti e la diffamazione come illecito penale.

Taci o ti querelo! – Ossigeno per l’Informazione, 2016

In Italia, le varie proposte di riforma dell’articolo 595 c.p. che norma la diffamazione, susseguitesi negli anni sono cadute nel vuoto o risultate incomplete non rispondendo allo scopo di dissuadere le cosiddette querele bavaglio. Per ultima quella proposta dal senatore Balboni (Fratelli d’Italia) a gennaio di quest’anno, che intende modificare il Codice penale, il Codice di procedura penale e la Legge sulla stampa, e che eliminerebbe il carcere per i giornalisti decuplicando però le sanzioni economiche stabilite da 5.000 a 10.000 euro e che possono arrivare a 50.000 euro nel caso di diffamazione con attribuzione di un fatto determinato.
La proposta è stata già contestata dall’organizzazione europea a difesa dei diritti umani e della libertà di espressione Article 19 che ne sottolinea le falle: innanzitutto denuncia l’impossibilità da parte del giornalista di provare la verità del fatto attribuito alla persona offesa (art. 596 c.p.) già dichiarata incostituzionale nel 1971, e inoltre considera incompatibili con il principio della libertà di espressione le sanzioni pecuniarie spropositate, per giornalisti ed editori, che funzionerebbero solamente come dissuasori dell’informazione e che rendono la proposta incompleta, esattamente come quelle che l’hanno preceduta.
La tendenza è quella di lavorare su una riforma della diffamazione senza mai riformarla davvero, un “prendere tempo” rispetto alle raccomandazioni della CEDU.
È stato provato in questi anni come criminalizzare eccessivamente la diffamazione non abbia effetti positivi sulla protezione della reputazione individuale e che è piuttosto rinforzando la legislazione civile che si può raggiungere un bilanciamento conforme agli standard europei.

Querele temerarie come “molestie legali”
La preoccupazione si fa sentire anche dall’OSCE: Teresa Ribeiro, Rappresentante per la libertà dei media, nel suo rapporto Può esserci sicurezza senza libertà di espressione per i media? dello scorso maggio, commenta così la situazione dei giornalisti europei: “L’uso della legge – sia essa penale, amministrativa o civile – contro i giornalisti è diventato sempre più uno strumento per politici, corporazioni e altri attori potenti che vogliono intimidire o mettere a tacere i media. Tali procedure legali richiedono tempi e costi elevati, rendendo difficile ai giornalisti il proseguimento del loro lavoro e sono utilizzate in tutta la regione dell’OSCE per soffocare notizie critiche e mettere a tacere la stampa indesiderata. Ciò accade spesso sotto forma di accuse di diffamazione, ma anche con il pretesto di combattere notizie false e disinformazione e in molti altri contesti legali”.

Secondo l’Istat, nei confronti di giornalisti in Italia nel 2017 sono stati avviati complessivamente 9.479 procedimenti per diffamazione, di cui il 60% archiviati in esito alle istruttorie e il 6,6% a giudizio. I querelanti sono spesso personaggi pubblici: politici, uomini d’affari o individui coinvolti nella criminalità organizzata.
Sempre l’osservatorio di Ossigeno, nel 2015, contava 45,6 milioni di euro di richieste danni e 54 milioni di euro di spese legali sostenute dai giornalisti. I contenziosi si dimostrano pertanto vere e proprie minacce legali il cui scopo, a giudicare da chi le intenta, non è vincere un processo, quanto inibire il lavoro di ricerca e di indagine di giornalisti, attivisti per i diritti umani, oppositori politici invocando – spesso impropriamente – la reputazione, il diritto alla privacy e il diritto all’oblio.

Di frequente, sostengono gli attivisti di Article 19, le minacce legali precedono addirittura la pubblicazione delle indagini, innescando meccanismi di autocensura. Più volte l’Ordine dei Giornalisti ha definito l’enorme volume di casi di contenziosi abusivi “un’emergenza democratica in Italia”: anche in questo caso la voce dell’Europa arriva tramite la direttiva del 2022 sulla protezione delle persone attive nella partecipazione pubblica da procedimenti giudiziari manifestamente infondati o abusivi. La direttiva agisce sulle spese legali, che l’organo giurisdizionale può decidere vengano sostenute dall’attore del procedimento, sul rigetto anticipato di procedimenti infondati e sulle sanzioni che possono essere imposte alla parte che ha avviato il procedimento in caso di processi abusivi. Non resta ai paesi membri che ricorrere a un adeguamento delle proprie leggi.

Intimidazioni online
Secondo il monitoraggio del Centro per la pluralità dei media, apprendiamo inoltre che la situazione dei giornalisti nel nostro paese è piuttosto complessa per quel che riguarda le minacce soprattutto online: una situazione che negli ultimi anni risulta fuori controllo in tutto il mondo.
L’Italia mantiene su questo specifico punto un rischio basso dovuto, secondo il capitolo dedicato al nostro paese nello Stato di Diritto 2023, al lavoro delle autorità di regolamentazione nazionali, ma le preoccupazioni rimangono: nei soli primi tre mesi del 2023 sono stati censiti ben 28 episodi intimidatori “di cui il 7% riconducibili a contesti di criminalità organizzata e il 43% a contesti politico/sociali”. Il basso rischio diventa medio per l’Italia come per molti paesi d’Europa quando si parla di sicurezza digitale, un parametro che da diversi anni si affianca alla sicurezza “fisica”. L’allarme è da considerarsi su scala globale, rispetto alle intimidazioni infatti è l’intera libertà di espressione che viene messa a rischio, come dichiara Reporter Sans Frontières nel suo rapporto 2022 che riporta la morte di 86 giornalisti in tutto il mondo nel corso dell’anno precedente.

Centre for Media Pluralism and Media Freedom, 2023

Per l’Italia, sempre uno studio di Ossigeno rilevava 173 episodi di intimidazioni e minacce nei primi 9 mesi del 2022, di cui il 29% destinati a operatori dei media donne, colpite per il 36% da minacce “gender based”. All’interno delle statistiche sono conteggiate anche le querele temerarie, universalmente riconosciute dalle istituzioni e dalle organizzazioni di categoria come molestie a tutti gli effetti. Sempre entrando nel dettaglio della situazione italiana la FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana) contava a maggio scorso oltre 250 giornalisti sotto vigilanza, di cui 22 sotto scorta, con un primato nero della Lombardia. Si registra poi un aumento di minacce, anche via social, da parte di gruppi neonazisti e neofascisti. Assistiamo a un decremento complessivo rispetto all’anno precedente ma che aveva visto un raddoppio di molestie online per i giornalisti rispetto al 2021. Un trend, quindi, non lineare ma certamente non felice.
La causa principale, sostengono dall’OSCE, è l’impunità: nel caso delle minacce online queste si traducono molto spesso in aggressioni fisiche ma “l’impunità rimane una questione chiave, che deve essere affrontata con risposte efficaci da parte delle forze dell’ordine e di altre autorità competenti, inviando un segnale forte che tali atti non saranno mai tollerati. Ci vuole un forte impegno politico, oltre che una legislazione efficace e un sistema giudiziario indipendente per porre fine all’impunità per gli attacchi ai giornalisti”.

CREDITI FOTO: Figure 3.a. Fundamental Protection area – Map of risks per country from the report “Monitoring Media Pluralism In The Digital Era”



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