Violenze e violazione dei diritti umani: la Libia è ancora un buco nero

Mentre il soccorso in mare delle ONG continua a essere osteggiato, a Tripoli c’è una milizia del governo che respinge, tortura e abusa dei migranti.

Valerio Nicolosi

655 morti nei 125 giorni del 2022, il Mediterraneo continua a essere la frontiera più mortale del mondo con una media di 5,2 morti al giorno.

Politicamente sembra passata una vita quando, appena 3 anni fa, l’allora ministro degli Interni Salvini mandava via social network “bacioni” ai soccorritori in mare e impediva alle navi di entrare nei porti dopo che avevano soccorso centinaia di persone partite dalla Libia. Oggi il soccorso in mare continua, sempre con le ONG in prima linea, ma passa sottotraccia con l’attuale ministra dell’Interno Luciana Lamorgese che ha deciso che non deve essere un tema centrale nel dibattito pubblico, nonostante i leader dei due maggiori partiti di estrema destra, Salvini e Meloni, di tanto in tanto provino a rilanciare il tema, senza grandi successi.

I numeri parlano di un fenomeno in ripresa rispetto al biennio 2019-2020, con lo scorso anno che ha registrato 67.000 arrivi e 1.496 morti solo in Italia, una media di 184 persone sbarcate ogni giorno e 4 morte in mare, partite dalla Libia o dalla Tunisia senza mai arrivare a terra.

Quindi, nonostante il tema non sia più centrale nel dibattito politico, la rotta non si è mai chiusa e la conferma arriva dalle navi umanitarie che in ogni missione soccorrono centinaia di persone in pochi giorni, a volte con 4 o 5 soccorsi uno dietro l’altro. La Ocean Wiking, nave della ONG SOS Méditerranée, ha soccorso 295 persone in 4 diversi salvataggi effettuati a poche ore l’uno dall’altro, ma ha dovuto attendere 8 giorni prima di poter attraccare in un porto italiano per mettere in sicurezza le persone.

“In questi giorni d’attesa abbiamo dovuto evacuare d’urgenza una persona per le sue condizioni di salute e a bordo c’erano donne e bambini, è una vergogna che debbano aspettare giorni per avere un porto di sbarco” racconta Luisa Albera, Coordinatrice Ricerca e Soccorso della Ocean Viking. I tempi d’attesa sono quasi gli stessi di 3 anni fa, quando Salvini era ministro e la linea dei porti chiusi era la regola nella gestione portuale e i comandanti venivano arrestati. Oggi invece assistiamo a lunghe pratiche burocratiche durante il Port Safe Control, la procedura di controllo delle navi prima di uscire dal porto. Una veloce routine per le navi mercantili e da turismo, un controllo approfondito che può durare anche due giorni per le organizzazioni non governative, quando il diametro di un tubo di scarico del bagno di bordo, una presa elettrica presumibilmente non conforme e la quantità di giacchetti di salvataggio a bordo diventano problemi che portano al fermo amministrativo delle navi, bloccate in porto per settimane, a volte mesi, senza poter effettuare soccorsi in mare.

È un modo per fermare le navi senza far rumore, nelle banchine più nascoste dei porti dove la società civile non può entrare e con cavilli burocratici difficili da comprendere ai più. Un metodo che ha portato Lamorgese a fermare le navi nei porti per più tempo di Salvini, quindi lasciando meno tempo per effettuare i soccorsi, rischiando di far annegare i migranti e favorendo i respingimenti della cosiddetta Guardia Costiera libica, che lo scorso anno ne ha effettuati 32.000, una cifra record per l’operato dei sedicenti guardacoste di Tripoli.

Senza navi umanitarie in mare non ci sono occhi indipendenti della società civile a raccontare i respingimenti e le violazioni dei diritti umani dei quali si sono resi protagonisti i guardacoste di Tripoli, armati dall’Italia nel 2017 con il Memorandum d’intesa tra Italia e Libia con motovedette e addestramento, frutto della politica di esternalizzazione delle frontiere voluta da Marco Minniti, ex Ministro degli Interni del quale Luciana Lamorgese è stata capo di gabinetto, e che non ha tenuto conto della costante violazione dei diritti umani denunciata anche dalle Nazioni Unite. E anzi ha visto l’Italia investire più di 200 milioni in Libia dal 2017 a oggi, spesi per i guardacoste e la gestione dei centri di detenzione per i migranti.

I diritti umani in Libia sono al centro dell’ultimo report di Amnesty International che denuncia il finanziamento di una milizia creata dal governo nel gennaio 2021 e che percepisce fondi statali attraverso l’Autorità per il sostegno alla stabilità guidata da Abdel Ghani al-Kikli, al secolo Gheniwa, nominato nonostante siano documentati i crimini di diritto internazionale e altre gravi violazioni dei diritti umani.

L’Ass si occupa della sicurezza delle sedi governative e della sicurezza nazionale, partecipa ai respingimenti in mare dei profughi che scappano dalla Libia e li porta nei centri di detenzione sotto il suo controllo, dove neanche il ministero dell’Interno di Tripoli ha potere. Uno di questi centri si chiama al-Mayah, sul quale Amnesty ha ricevuto delle denunce per le condizioni di vita delle persone detenute: “un luogo sovraffollato e dalla scarsa ventilazione, nel quale i detenuti ricevevano poco cibo e ancora meno acqua ed erano costretti a bere quella degli scarichi dei gabinetti. Pestaggi, lavori forzati, prostituzione forzata, stupri e altre forme di violenza sessuale erano all’ordine del giorno” dichiara Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

Secondo il report di Amnesty International l’Ass ha ricevuto 8 milioni di euro per il 2021 e 28 milioni per il 2022, autorizzati direttamente dal primo ministro Debibah e, forte del sostegno diretto della Presidenza del Consiglio e dell’autonomia totale nell’azione, l’organizzazione si è estesa anche a Ovest di Tripoli, nella città di al-Zawiya e, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, nel febbraio 2022 un respingimento operato dall’Ass si è concluso con un morto e diversi feriti.

La Libia non è quindi considerabile un porto sicuro dove poter portare i migranti che scappano proprio da questo sistema, dove tra l’altro non è mai stata ratificata la Convenzione di Ginevra e i richiedenti asilo non hanno trovano accoglienza ma, di nuovo, centri di detenzione, torture e violenze.

(Credit Image: © Xinhua via ZUMA Wire)



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