India Alfa Papa non risponde più: Enrico Mattei e la cortina di fumo sulla verità

A sessant’anni dalla morte di Enrico Mattei nell’attentato di Bascapè, pubblichiamo un estratto del libro Il fantasma dei fatti del giornalista, scrittore e traduttore Bruno Arpaia, pubblicato dall’editore Guanda nel 2020.

Bruno Arpaia

Milano, Italia, inizio ottobre 2008
Sulla seconda storia, non vale nemmeno la pena di soffermarsi troppo. È una vicenda stranota, che finisce il 27 ottobre del 1962, nei giorni della crisi dei missili a Cuba, quando il mondo intero trattiene il fiato per il possibile inizio della guerra atomica. Però la nostra storia non finisce a Washington o all’Avana, bensì in una marcita di Bascapè, in provincia di Pavia, alle 18.57 di quel sabato. Piove anche quel giorno, come il 9 novembre dell’anno prima, ma non abbastanza da preoccupare Irnerio Bertuzzi, l’esperto pilota dell’i-snap, nome in codice India Alfa Papa, il piccolo bireattore Morane-Saulnier ms 760-b con a bordo il presidente dell’Eni Enrico Mattei e il giornalista americano William Francis McHale, in viaggio da Catania a Milano.

Alle 18.53 Bertuzzi chiama la torre di controllo di Linate. Il bollettino segnala vento calmo, visibilità mille metri, strati di nuvole a 150 metri, temperatura 10 gradi centigradi, pressione atmosferica 1015. La torre di controllo gli indica la pista e dà l’autorizzazione all’atterraggio: 9 gradi, pista 36.

«Possibile atterraggio diretto» dice la torre di controllo.

«Scendo a duemila piedi» risponde Bertuzzi. «Sono in virata di base.»

«Quando vi presenterete?»

«Fra un minuto, un minuto e mezzo» dice il pilota. Sono le 18.57’10. Poi India Alfa Papa non risponde più. Mattei, Bertuzzi e McHale non arriveranno mai a Milano.

Ne ho lette tante, di descrizioni della scena dell’incidente, ma quella che più mi ha impressionato è il resoconto fatto da Luigi Bazzoli e Riccardo Renzi in un libro che sarei riuscito a procurarmi soltanto qualche anno dopo, intitolato Il miracolo Mattei: «L’aereo cadde verticalmente, da una quota di circa trecento metri, senza rimbalzare, formando un piccolo cratere molle per la pioggia. Del corpo di Mattei rimase intera soltanto la parte che era più protetta dalla carlinga, dal petto in giù. La testa, le spalle, le braccia, finirono sparse nel fango […]. Non fu effettuata una vera e propria autopsia. Furono trattenuti soltanto alcuni frammenti […]. Il resto del corpo, tutto ciò che fu trovato, fu messo in un sacco di plastica nera e portato via nel baule di un’auto. Poi la salma fu ricomposta in una cassa».

Come se si volesse cancellare al più presto ogni traccia o sviare le indagini. Eppure, dopo quasi quarant’anni di menzogne, insabbiamenti e depistaggi tendenti ad avvalorare la tesi dell’incidente dovuto al maltempo o a un errore del pilota, oggi, grazie alle inchieste del procuratore di Pavia, Vincenzo Calia, sappiamo come andarono le cose: fu «inequivocabilmente» un attentato. Attivata dal congegno di apertura del carrello, una piccola carica di Compound B, tra i 30 e i 70 grammi, messa sotto il cruscotto, a una quindicina di centimetri dalla mano sinistra di Mattei, fece esplodere l’aereo in volo, e non a terra a causa dell’impatto, come vollero sostenere a tutti i costi, nonostante le testimonianze contrarie, gli incaricati delle diverse inchieste sul disastro di Bascapè.

Nella sua richiesta di archiviazione, Calia scrive: «L’esecuzione dell’attentato venne decisa e pianificata con largo anticipo, probabilmente quando fu certo che Enrico Mattei, nonostante gli aspri attacchi e le ripetute minacce, non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell’ente petrolifero. La programmazione e l’esecuzione dell’attentato furono complesse e comportarono – quantomeno a livello di collaborazione e di copertura – il coinvolgimento degli uomini inseriti nello stesso Ente petrolifero e negli organi di sicurezza dello Stato con responsabilità non di secondo piano».

Delitto, dunque. Ma ancora in cerca d’autore, perché, scrive sempre il magistrato di Pavia, « le prove orali, documentali e logiche raccolte […] non permettono l’individuazione degli esecutori materiali né, per quanto concerne i mandanti, possono condurre oltre i sospetti e le illazioni […], di per sé inadeguati non soltanto a sostenere richieste di rinvio a giudizio, ma anche a giustificare l’iscrizione di singoli nominativi sul registro degli indagati».

Come nei migliori noir, i possibili assassini di Mattei sono legione. Sono talmente tanti quelli che potevano avere interesse a toglierlo dalla scena, che si ha solo il dubbio da dove cominciare. Dall’Oas? D’accordo, dall’Oas, l’organizzazione armata clandestina dei francesi contrari all’indipendenza algerina. Quella che, come gridano i suoi manifesti, «frappe qui elle veut, quand elle veut, où elle veut»; quella che, appena nata, all’inizio del 1961, dimostra già di saper usare mezzi molto capaci di persuadere, mezzi che vanno dalle pistole alle bombe a orologeria. E si dà il caso che il presidente dell’Eni abbia sostenuto con cospicui versamenti il Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) algerino, ipotecando un trattamento di riguardo da parte del futuro governo indipendente. Un atteggiamento che non può piacere ai bellicosi sostenitori dell’Algérie française. E infatti il 28 luglio del 1961 Mattei riceve una lettera dell’Organisation de l’Armée Secrète. Il messaggio è inequivocabile: l’Oas «ha il piacere di comunicare le decisioni prese in una riunione segreta a Parigi: sono considerati come ostaggi e condannati a morte il commendatore Enrico Mattei e tutti i membri della sua famiglia».

Detto, fatto? Per numerosi osservatori, sarebbe andata proprio così: a compiere l’attentato sarebbero stati agenti dell’Oas, probabilmente inquadrati in quella struttura che oggi conosciamo come Stay Behind e la cui diramazione italiana sarà nota come Gladio. Magari hanno ragione, ma forse anche questo intreccio tra Oas, Nato e servizi segreti non basta a spiegare davvero, a farci capire tutti i motivi profondi della tragedia di Bascapè.

Non bisogna dimenticare che erano in gioco le risorse petrolifere del Sahara. Otto giorni dopo l’attentato, Mattei avrebbe dovuto firmare un accordo con l’Algeria e la compagnia petrolifera di Stato francese che avrebbe portato alla partecipazione italo-francese in alcuni giacimenti nel Sahara e alla costruzione sia di una raffineria italo-algerina sia di un metanodotto. Un accordo che le Sette Sorelle vedevano come il fumo negli occhi, come un attentato ai loro interessi diretti. E infatti avevano cercato di coinvolgere Mattei nel «loro» pool sahariano, ma lui si era rifiutato. «Io non sono soltanto un petroliere» aveva detto. «Sono Mattei. Non sono andato a fianco degli algerini per il petrolio; adesso non li abbandono per il petrolio.» Solo con quell’accordo in tasca, l’Eni avrebbe potuto trattare da pari a pari con le grandi compagnie. E invece.

Invece, dopo la scomparsa di Mattei, alla guida dell’Eni viene richiamato Eugenio Cefis, sia pure con un presidente «di copertura» come Marcello Boldrini. Legatissimo ad Amintore Fanfani, da vicedirettore dell’Eni Cefis aveva, in contrasto con Mattei, dato le dimissioni dall’Ente nel gennaio di quel 1962. Italo, il fratello di Enrico, qualche anno dopo l’attentato di Bascapè sosterrà che il presidente dell’Eni aveva scoperto il doppio gioco di Cefis e che l’aveva quindi costretto alle dimissioni. Ma si tratta di accuse non provate. Fatto sta che Eugenio Cefis, come scrive il giornalista Giuseppe Oddo, «aveva forti cointeressenze nelle raffinerie Sarom di Ravenna e Mediterranea di Gaeta che rifornivano il sistema Nato per l’Europa del Sud e la Sesta flotta e per questo contrastava il progetto di Mattei di trasformare l’Alleanza Atlantica in un cliente dell’Eni». Non basta: sono in molti a sostenere che Cefis fosse stato collaboratore dell’Oss e poi della Cia, che avesse stretti rapporti con i servizi inglesi e italiani e che godesse dell’amicizia del generale Giovanni Allavena, il comandante del Sifar costretto a dimettersi dopo la scoperta dei famosi fascicoli segreti. In una nota del Sismi si farà addirittura l’ipotesi che sia stato proprio Cefis il vero fondatore della loggia P2, cedendone poi il timone al duo Ortolani-Gelli dopo aver lasciato l’incarico di presidente di Montedison.

Il primo atto di Cefis alla guida dell’Ente petrolifero di Stato? Lasciar cadere l’accordo con l’Algeria e firmare un’intesa con la Esso per una fornitura di gas dalla Libia, a condizioni molto diverse da quelle concordate dal suo predecessore. Grazie a Cefis, dunque, l’Eni si allinea finalmente alle Sette Sorelle, smantellando la complessa strategia energetica definita negli anni di Mattei. Una strategia che non si accontentava di rendere l’Italia autonoma nel campo dell’approvvigionamento petrolifero, ma che stava anche iniziando a sviluppare l’energia nucleare. Scavalcando l’orientamento del governo, grazie all’intesa di fondo con Felice Ippolito, il segretario generale del Cnen, Mattei si era messo in testa di costruire una decina di centrali, ma era riuscito ad avviare solo quella di Latina. Si può quindi immaginare quanto la sua politica nucleare fosse gradita ai petrolieri italiani e stranieri o alle aziende elettriche nostrane.

Anche sugli esecutori materiali dell’attentato fioriscono le ipotesi: oltre all’Oas, fanno la loro comparsa in questa tragedia pure la mafia e Gladio. Secondo Tommaso Buscetta e altri pentiti di mafia, l’ordine di uccidere Mattei arrivò da Cosa Nostra americana, attraverso Bruno Angelo (autorevole esponente della famiglia di Philadelphia) che chiese questo favore alla famiglia del boss Giuseppe Di Cristina a nome della «Commissione » degli Usa e « nell’interesse sostanziale delle maggiori compagnie petrolifere americane». E infatti, pare che in quei giorni a Catania si aggirasse un personaggio inquietante, un certo Calogero Minatori, meglio noto nel giro della mafia italoamericana come Carlos Marcello. «Nell’ottobre 1962» scrive Michele Pantaleone nel libro Omertà di Stato, Marcello «prese parte a un convegno segreto a Tunisi, organizzato da petrolieri americani. Dopo il convegno, con un certo Badalamenti, Marcello passò da Tunisi ad Algeri, da qui a Madrid e quindi a Catania, due giorni prima della morte di Enrico Mattei.» Pessimo soggetto, questo Carlos Marcello: notissimo all’Fbi, ma soprattutto legato alla Cia e al Mossad, tramite Meyer Lansky, e alle Sette Sorelle per mezzo di Jack Halfen; tutti nomi sospettati di essere coinvolti a vario titolo nell’assassinio del presidente Kennedy.

Come se non bastasse la mafia, anche uomini di Gladio si trovano in Sicilia nei giorni dell’ultima visita di Enrico Mattei nell’isola. È sempre Giuseppe Oddo a segnalare « la presenza di un elemento di Gladio – Giulio Paver – tra le guardie del corpo di Mattei nel periodo 1960-62. Questi faceva parte del nucleo laziale di Gladio, cui appartenevano anche Lucio e Camillo Grillo. Coincidenza: una delle tre persone che a Fontanarossa, l’aeroporto di Catania, si avvicinarono all’aereo della Snam, mentre il pilota Bertuzzi si recava al bar per rispondere al telefono, si qualificò come capitano Grillo. E – se è vero quanto scrive Nico Perrone nel suo Obiettivo Mattei – « preziosi elementi informativi » sul presidente dell’Eni venivano trasferiti alla Cia dal colonnello del Sifar Renzo Rocca, reclutatore per i gruppi Stay Behind e «coordinatore di finanziamenti industriali americani e italiani per combattere il comunismo». Rocca, morto poi in circostanze misteriose, teneva i rapporti con il capo della stazione Cia di Roma Thomas Karamessines, che dopo la fine di Mattei – scrive Perrone – fu richiamato negli Usa per partecipare all’operazione coperta che portò all’individuazione e all’uccisione in Bolivia di Ernesto Che Guevara».

Ce n’è già abbastanza da far girare la testa. Ma rimane un ultimo elemento, un ultimo possibile movente per l’assassinio di Mattei. La politica nell’era della guerra fredda. L’Italia, infatti, con il partito comunista più forte dell’Occidente, è l’avamposto di quella guerra, il «fianco debole» del cosiddetto «mondo libero». Per questo, dalla fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno versato, attraverso la Cia, milioni di dollari ai partiti centristi, a giornalisti, preti, movimenti sociali e imprenditori, mentre hanno addirittura organizzato un esercito segreto anticomunista, di cui spesso non sono al corrente nemmeno tutti i ministri della Repubblica. Mattei non si adegua a questa politica. Il 4 dicembre del 1958, infatti, tira un uppercut alla Nato, firmando il primo contratto di acquisto di petrolio grezzo dall’Urss, rompendo l’embargo commerciale tra Est e Ovest. Sono in molti a definirlo un «traditore dell’Occidente». Ma lui incalza. In un’intervista del 4 aprile 1961 a Cyrus Sulzberger del New York Times, dice di essere contro la Nato e per il neutralismo. E infatti non si stanca di sostenere la corrente democristiana che predica il cosiddetto «neoatlantismo» e favorisce l’apertura ai socialisti nel governo di centrosinistra. Apriti cielo. Dipartimento di Stato, servizi segreti americani e inglesi, Foreign Office vanno in fibrillazione. Mattei è perfino più potente di un capo di governo, e perciò molto più pericoloso, specialmente nel momento in cui i rapporti tra i due blocchi sono i più tesi da quando è finita la guerra.

In rete, ho trovato un’intervista a Sergio Flamigni, ex partigiano e parlamentare del Pci che ha partecipato ai lavori di tutte le commissioni d’inchiesta sul terrorismo e sulle stragi. «Che Enrico Mattei fosse il più spiato e controllato, e fosse nel mirino della Cia, non sono il primo, né il solo, a sostenerlo» dice Flamigni. «Del resto non è un mistero che la Central Intelligence Agency era legata a filo doppio agli interessi dei petrolieri americani. Il suo direttore, dopo Allen Dulles, era il repubblicano John McCone, il quale possedeva azioni per un milione di dollari della Standard Oil of California, la multinazionale interessata allo sfruttamento dei pozzi petroliferi nel mondo arabo; proprio là dove si stava estendendo l’influenza dell’Eni, in aperto contrasto con il predominio delle compagnie petrolifere americane, le cosiddette Sette Sorelle.»

Anche se questo è vero, osserva l’intervistatore, non basta a legare la Cia alla morte di Mattei.

«Non collego gli avvenimenti» replica Flamigni, «riferisco ciò che è stato scritto nei documenti della stessa Cia. In un rapporto segreto del Dipartimento di Stato c’è scritto testualmente: non abbiamo speranza che neppure una coalizione governativa di destra possa riuscire a esercitare un freno reale sulle ambizioni di Mattei all’estero, cioè nella sua offensiva nei confronti del cartello petrolifero. Per rendere inoffensivo il signor Mattei è necessario ricorrere alle misure più estreme. Se il concetto pur inquietante non fosse sufficientemente intellegibile, basterebbe riflettere sul fatto che la terminologia ‘misure più estreme’ nella prassi della Cia è stata adottata per decidere l’eliminazione del leader congolese Patrice Lumumba. Inoltre non bisogna dimenticare che il capo della stazione Cia a Roma, tale Thomas Karamessines, dopo la morte di Enrico Mattei lasciò l’Italia (così come avevano lasciato la loro sede i capistazione Cia di Leopoldville e di Santo Domingo, dopo gli assassinii di Lumumba e di Trujillo). Karamessines risulterà poi implicato nel tentativo di uccidere Fidel Castro, e firmerà l’operazione per la ricerca e l’uccisione di Che Guevara. Come se tutto questo non bastasse, lo stesso Karamessines parteciperà alle manovre messe in atto per proteggere Clay Shaw, coinvolto nell’inchiesta svolta dal procuratore Jim Garrison contro gli assassini di Kennedy.» Rieccolo, quel Thomas Karamessines. Ancora lui. Dovevo assolutamente saperne di più.



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