“Quel 25 aprile del 1945 trascorso nel campo di concentramento di Malchow”

"Passato, presente e futuro della Repubblica". La senatrice a vita, Liliana Segre, ricorda in questo scritto per MicroMega i giorni che portarono alla disfatta della Germania e all'arrivo degli eserciti americano e russo.

Liliana Segre

Anche quest’anno, per colpa della pandemia, non sarà possibile celebrare con la tradizionale vasta partecipazione popolare il 25 aprile, festa della Liberazione d’Italia. Si tratta di una delle date fondamentali nel calendario della Repubblica, che ricorda il giorno in cui, convenzionalmente, si considera compiuta la sconfitta della dittatura fascista e dell’occupazione nazista, grazie all’azione coordinata della Resistenza nazionale, dell’Esercito Cobelligerante Italiano e degli Alleati anglo-americani. La seconda guerra mondiale però non era ancora finita. Solo l’8 maggio infatti i tedeschi furono finalmente costretti a firmare la resa.

Vorrei raccontare il mio, di 25 aprile.

Alcuni giorni prima del 27 gennaio 1945, cioè prima della liberazione del campo di Auschwitz da parte dei sovietici, era iniziata la “marcia della morte” alla quale dovetti partecipare con altre decine di migliaia di prigionieri disperati, quasi sempre a piedi, nel gelo dell’inverno, soffrendo una fame indicibile. Spinti dai nazisti sempre più verso nord-ovest, passando da un lager all’altro. Furono oltre tre mesi d’inferno. I sopravvissuti morivano come mosche. Se cadevano, venivano finiti dalle guardie con un colpo di fucile. Alla fine il gruppo di deportate di cui facevo parte raggiunse l’ultima meta, il campo di Malchow a nord di Berlino.

Non avevamo calendari, giornali, orologi, ma il mio 25 aprile lo passai sicuramente in quel campo, dove in quei giorni iniziavano ad arrivare, grazie ai prigionieri francesi che lavoravano nelle fattorie vicine, le prime notizie della disfatta della Germania e dell’imminente arrivo degli eserciti americano e russo, che avanzavano rispettivamente da ovest e da est.

Noi deportate non lo sapevamo, ma proprio quel 25 aprile sul fiume Elba le avanguardie degli eserciti americano e sovietico si incontrarono chiudendo la morsa finale intorno al Reich nazista. Se anche nel secondo dopoguerra la situazione con la Guerra Fredda mutò, lo “spirito dell’Elba” rimase per sempre a suggellare la fine di una delle più immani tragedie dell’umanità.

Noi intanto eravamo ridotte a scheletri, i nostri aguzzini non ci davano più nulla da mangiare e le ultime forze ci stavano abbandonando, ma proprio le notizie che confusamente cominciarono ad affluire ci dettero la forza di resistere ancora per qualche giorno. Il primo maggio i carcerieri ci obbligarono ad evacuare il campo ed a metterci in marcia. Eravamo incolonnate lungo una strada quando le guardie si eclissarono e finalmente incontrammo i primi soldati americani. Chi era riuscito a sopravvivere, era salvo.

Dal 25 aprile al primo maggio dunque.

Proprio come in Italia, dove il 25 aprile fu proclamata dal CLNAI l’insurrezione di tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti, il primo maggio anche l’ultimo lembo del Nord Italia era liberato.

Ricordare necesse est. Ancora oggi. Non solo perché la storia va conosciuta, approfondita e meditata, ma perché l’insegnamento che se ne può trarre è indispensabile per formare cittadine e cittadini consapevoli, coscienti, responsabili.

È stato Primo Levi a intimarci di ricordare, non solo perché si deve sapere che cosa è stato, di che cosa gli esseri umani sono stati capaci, ma perché se è potuto accadere, è sempre possibile che possa accadere di nuovo. Dunque memoria, storia, coscienza. Unico antidoto, ma anche dovere e missione da cui non può deflettere qualsiasi società che voglia dirsi civile.

[FOTO ANSA/ALESSANDRO DI MEO]

 

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