L’intelligenza artificiale e la disintermediazione del consenso

L’impatto sociale dell’Intelligenza artificiale non è paragonabile a quello avuto da altre grandi innovazioni tecnologiche. In gioco, infatti, vi è una vera e propria disintermediazione del consenso, che è qualcosa di diverso, e potenzialmente più pericoloso, della mera sostituzione di manodopera e in generale del lavoro.

Francesco Abbate

Il dibattito pubblico sull’intelligenza artificiale sembra si stia polarizzando tra catastrofisti che esaltano i potenziali rischi da questa derivanti e coloro i quali si riducono ad inserire i recenti esiti tecnologici all’apice del processo storico che ha caratterizzato il progresso tecnico dalla rivoluzione industriale a oggi. La lista di chi insiste nel rintracciare una continuità con le innovazioni tecniche del passato e i grandi movimenti epocali che queste hanno scandito, su tutte le cosiddette rivoluzioni industriali, non è infatti meno folta di coloro i quali lanciano allarmi di pericolo (su tutti l’appello di appena qualche mese fa da parte di Elon Musk a interrompere lo sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale generativa). Non c’è dubbio che tutte le innovazioni tecnologiche hanno avuto impatti enormi nella storia dell’umanità, ma è forse opportuno sottolineare alcuni forti elementi di discontinuità che caratterizzano in modo particolare le tecnologie di machine e deep learning rispetto alle innovazioni che abbiamo visto in passato.
In particolare le tecnologie in questione intrattengono un rapporto con il potere del tutto peculiare. Questo inteso sia come capacità di indirizzare i comportamenti altrui che come capacità di agire secondo la propria volontà. Non serve arrivare a misure quali il social scoring o l’identificazione biometrica degli individui negli spazi pubblici, messi al bando dall’Unione Europea con l’AI Act e rispetto alle quali un legislatore attento e competente può intervenire in modo abbastanza efficace. In gioco vi è una vera e propria disintermediazione del consenso, che è qualcosa di ancora più forte rispetto alla sostituzione della manodopera e in generale del lavoro. Il fatto di poter produrre in modo del tutto automatico prodotti e servizi di qualsivoglia tipo (ivi inclusi un numero crescente di artefatti intellettuali) riduce drasticamente il bisogno di negoziare con terze parti i termini e le condizioni alle quali tale produzione possa avvenire. Probabilmente, l’indugiare sull’espressione “intelligenza artificiale” ci fa perdere di vista il suo significato più profondo, almeno per il momento, ovvero quello di strumento di automazione diffusa delle decisioni e dei processi produttivi. Per questo, sarebbe meglio parlare, secondo la terminologia anglosassone, Automated Decision Making (ADM), al fine di focalizzare l’attenzione collettiva sulla capacità di queste tecnologie di automatizzare tanto il controllo informativo quanto la capacità di implementare processi attraverso di esso, spiazzando, almeno in parte, il bisogno del consenso di terze parti. Questo al di là di quanto sarà forte l’effetto di sostituzione sulla forza lavoro che potrebbe comunque essere mitigato da una spinta alla crescita economica indotta dalle innumerevoli applicazioni prodotte dall’IA. L’automazione dei processi linguistici e generativi rappresenta innanzitutto l’opportunità di ampliare a dismisura le possibilità di gestire in modo snello, efficiente e del tutto automatico e centralizzato processi per i quali sarebbe servito l’impiego diretto e immediato dell’intelligenza umana, non la semplice supervisione da parte di questa. In altri termini, l’IA intellettualizza il capitale e lo affranca (almeno in parte) dal bisogno di servirsi dell’intelletto altrui.
A questo proposito, è interessante notare come secondo una ricerca condotta da ricercatori dell’Università della Pennsylvania e di OpenAI le categorie di lavoratori più esposte al rischio di essere sostituite o comunque affette da modelli Large Language Models (LLMs), quali per esempio ChatGPT, o da programmi da essi parzialmente derivati, corrisponde a quelli con livelli di istruzione, esperienza e training sul lavoro più elevati. La questione è delicata ed è fondamentale sottolineare come rappresenti un fatto del tutto inedito. Lo spiazzamento del lavoro da parte delle innovazioni tecniche, infatti, è avvenuto storicamente sui cosiddetti colletti blu, rispetto ai quali sono potute intervenire una serie di misure di welfare quali i sussidi alla disoccupazione prima e tentativi di universalizzare il reddito, ad esempio in Italia con il reddito di cittadinanza, poi. Misure che meno si adattano a queste nuove categorie a rischio. Il lavoro qualificato ed altamente qualificato ha rappresentato per lungo tempo la possibilità attraverso cui la mobilità sociale per i “capaci e meritevoli privi di mezzi” è stata garantita. Si tratta di un principio costituzionale a fondamento non solo della nostra democrazia (che lo prevede all’articolo 34 della Costituzione, seppur indirettamente, ovvero con riferimento ai gradi più alti degli studi) ma dell’intera società occidentale. È inoltre uno dei princìpi sul quale si fonda e si sono fondate per anni le principali teorie liberiste e neoliberiste, che faticano a reggersi senza promettere il sogno della scalata sociale ai più meritevoli. Insomma, se non si dovesse riuscire a salvaguardare questa categoria di lavoratori, il rischio è davvero quello di sprofondare in un’economia in cui, come ha notato Thomas Piketty in Il capitale del XXI secolo, l’eredità avrà un ruolo sempre più importante, paragonabile a quello che ha avuto in passato, fino a diventare il meccanismo principale attraverso il quale i rapporti sociali si struttureranno e il potere si tramanderà.
La progressiva perdita di immaginario rispetto al sogno della scalata sociale è forse tra i più importanti e significativi aspetti connessi allo scenario appena descritto, cui è possibile assistere oggi. Se il fenomeno delle dimissioni volontarie ha iniziato ad assumere una rilevanza ben maggiore rispetto a quanto non avvenisse fino a qualche anno fa, questo può essere attribuito certamente anche al fatto che le prospettive di crescita professionale che le nuove generazioni intravedono non sono sufficienti a giustificare gli sforzi richiesti per poterle perseguire, al fatto che risulti preferibile dedicarsi ad attività private e afferenti alla sfera domestica o agli affetti piuttosto che impegnarsi per una carriera incerta sia nel suo sviluppo che nelle possibilità di preservarsi nel tempo. L’incantamento che sta alla base del buon funzionamento delle nostre economie, come aveva suggerito Max Weber, ha una presa sempre minore sulle generazioni più giovani.
La questione di chi e quanti possiedono i mezzi tecnologici più all’avanguardia, dunque, è sempre più centrale e serve a garantire non solo il buon funzionamento dell’economia ma anche quello delle nostre democrazie. Per questo è più che mai urgente rimetterla in discussione. Come visto le ragioni sono molteplici, senza dimenticare ovviamente un’altra questione fondamentale che riguarda il livello di investimenti, e dunque la disponibilità di capitali, che queste richiedono. Si pensi a tal proposito che il costo per il solo pre-addestramento di GPT-4 è stato pari ad oltre 100 milioni di dollari, mentre il costo di sviluppo dell’intero modello ChatGPT eccede di gran lunga tale cifra. Quasi cento anni fa, Keynes aveva provato a immaginarsi il mondo odierno, lasciandosi andare alla previsione secondo la quale i propri nipoti avrebbero lavorato soltanto tre ore al giorno potendo coltivare “l’arte di vivere” durante il resto del tempo. È certamente una visione ottimista che in ogni caso richiederebbe un significativo intervento pubblico per poter essere realizzata democraticamente, ovvero su larga scala e in modo non discriminatorio. Le strade da percorrere in questo senso possono essere essenzialmente due, la prima, proposta dall’economista e premio Nobel Robert Solow che già qualche decennio fa pensava che si sarebbe dovuto necessariamente intervenire al fine di garantire la democratizzazione della proprietà dei capitali. Come egli stesso ammoniva, questa possibilità è rimasta impensata o esplorata in modo inadeguato. La seconda, corrisponde forse a quanto iniziato a teorizzare da parte del filosofo Bernard Stiegler, il quale rivendicava il bisogno di una riarticolazione dei rapporti economico-politici, con la prospettiva radicale e forse utopistica di reinventare una nuova forma di potere pubblico che fosse in grado di stimolare e mettere a fattor comune l’intelligenza collettiva (di cui quella artificiale farà sempre più parte) nell’interesse pubblico, prima che privato. La mancata realizzazione di simili prospettive rischierà di avere effetti sociali potenzialmente deflagranti, mentre l’attenzione sul tema tanto dell’opinione pubblica che da parte di chi detta l’agenda politica rimane bassa e comunque a livelli che non fanno presagire nulla di buono all’orizzonte. 
CREDITI FOTO: ANSA/JESSICA PASQUALON



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