Louis-Ferdinand Céline: il caso “Guerra”

È uscito per Adelphi un inedito di Céline, “Guerra”, opera pregevole, dove ritroviamo il parlare sboccato del celebre autore, la sintassi fluviale e a tratti delirante, a tratti visionaria, il cinismo e i personaggi come maschere sformate.

Andrea Maffei

Per trattare onestamente di Louis-Ferdinand Céline e della sua opera e di ciò che per noi rappresenta anzitutto occorre domandarci: che cosa ci lega a lui, in definitiva? Per quale ragione, cioè, conti­nuiamo a leggere e ad amare questo pétainista, questo antisemita, questo collaborazionista, questo mentitore, questo profittatore, questo misogino, questo vigliacco e perché non l’abbiamo gettato, come accaduto a tanti altri del suo stampo, laddove meritavano e vale a dire, continuando col citare Trotskij, nella spazzatura della Storia? Per quale motivo ancora a decenni dalla sua morte corriamo in libreria ad acquistare un suo romanzo inedito e da poco ritrovato e che sospettiamo, già per il fat­to che l’autore non l’abbia mai proposto in vita, sia infine un’opera secondaria, se non un abbozzo o persino uno scarto? Perché, insomma, vogliamo bene a Céline? La risposta per queste domande sta tutta quanta in un titolo, Viaggio al termine della notte, probabilmente fra i dieci romanzi più me­morabili mai scritti. Pensiamo che chiunque l’abbia letto (e se la gentile lettrice, il lettore per caso non l’avesse mai fatto abbandoni immediatamente l’articolo e si precipiti a comprarlo) ricordi anco­ra precisamente le circostanze in cui accadde, il periodo, nonché alcune sue pagine o almeno sen­tenze: così Viaggio al termine della notte si è appropriato d’un brano delle nostre vite, esso è il lega­me di sangue che unisce Céline ai suoi lettori e fa sì che gli restino fedeli, per quanto biasimevole e indifendibile possa egli di volta in volta svelarsi. Se questo romanzo non fosse mai stato composto, probabilmente assai pochi di noi avrebbero conosciuto il nome di Céline, Nord o la stessa Morte a credito interessanti certo e molto per la struttura, per l’impasto linguistico, ma non luminescenti e roboanti e folgorante Letteratura come riesce ad essere Viaggio al termine della notte, le trame trop­po sommesse alla forma per potere facilmente impressionare fuori dalla cerchia dei pochi addetti ai lavori.

Ma ora cos’è questo Guerra comparso nelle librerie e venuto a impreziosire ulteriormente il già sontuoso catalogo Adelphi, ormai da diversi anni stabilmente il più ricco e ricercato e colto di tutto il panorama editoriale italiano? Si tratta di un estratto dalle migliaia di pagine céliniane la cui esi­stenza è stata per la prima volta confermata ufficialmente (dopo essere lungamente sopravvissuta come leggenda metropolitana) due anni fa, abbandonate dallo scrittore nella sua abitazione di Mont­martre a Parigi e poi mai più riapparse. Già proposte, in Francia, da Gallimard, in Italia verranno progressivamente editate da Adelphi, e questo Guerra è il primo capitolo di un’operazione libraria davvero epocale (nel novembre 2022 invece furono rinvenute migliaia di pagine inedite di Hegel, che ancora i lettori italiani attendono di avere avanti agli occhi: sarà Adelphi ad aggiudicarsi anche questo traguardo? Al momento non ne abbiamo notizia, ma se chi legge ne avesse non esiti a segna­larlo). Parliamo di una prima stesura, che secondo il curatore François Gibault risalirebbe ai primi anni Trenta, successivamente a Viaggio al termine della notte, di cui sembra costola asportata. Il racconto risulta tuttavia assolutamente autonomo, pur nello stile dell’autore, estraneo al tradizionale e lineare schema inizio-sviluppo-conclusione.

La narrazione si svolge nel periodo che sta fra il risveglio del protagonista dopo un grave ferimento in battaglia e, in ultimo, la sua partenza per Londra, lontano finalmente dalla guerra. Realmente Cé­line è ferito in missione, nelle Fiandre, il 27 ottobre (secondo alcuni studiosi il 25) del 1914, rica­vandone in seguito l’ambitissimo congedo, una dignitosa pensione d’invalidità e un paio di meda­glie. Le lesioni sono due: una grave al braccio (necessiterà diversi interventi chirurgici) e l’altra all’apparenza secondaria alla testa, la quale invece si cronicizzerà in emicranie e dolori che lo scrit­tore lamenterà fino in vecchiaia. Anche il protagonista di Guerra è ferito al cranio e viene, infine, decorato, momento che costituisce il punto di svolta del romanzo (nei contributi in paratesto si sot­tolineano anche le numerose affinità coi protagonisti delle altre opere céliniane, spesso quasi del tutto sovrapponibili).

Forse non sarà inutile, avendo iniziato dall’aspetto temporale della vicenda, caratterizzarlo anche dal punto di vista storico-militare. Parliamo di settimane in cui sul fronte occidentale in specie aleg­gia un’atmosfera attonita: tutto ciò che s’era creduto di sapere sulla guerra negli ultimi quattro de­cenni e mezzo (dal trionfo prussiano sulla Francia, cioè) è semplicemente evaporato, anche se gli alti comandi rifiuteranno di ammetterlo (con inconcepibili perdite umane) ancora lungo tempo. Il piano Schlieffen è fallito (anche per gli errori del capo di stato maggiore tedesco von Moltke), il piano diciassettesimo francese pure (perché mal concepito) e, soprattutto, il dogma dell’attacco a ogni costo, dello slancio vitale, delle eroiche cariche alla baionetta, cioè insomma quello della guer­ra dinamica si è sbriciolato innanzi al conflitto più statico che si sia mai veduto, coi reticolati e le trincee e la nuova artiglieria (la mitragliatrice in primis) buona soprattutto in funzione difensiva. Meno di due mesi avanti i tedeschi erano stati a un passo da Parigi, quando sulla Marna i francesi avevano saputo miracolosamente – è davvero il caso di dirlo – contrattaccare e respingerli. Sono così giornate incerte, viscose, ambigue, controverse, ergo giornate perfette per Céline che gratta, maneg­gia, briga, si vende, arraffa e traffica e si barcamena, tra vecchie infermiere libidinose e gambe am­putate, puzzo di cloroformio e imboscati, automutilati, corruttori e corrotti, suore e dame della cari­tà, genitori borghesemente ottusi e baciapile e appiccicosi, scorribande ancora fasciati al bordello, detonazioni lontane, sorvolare rombante di aerei. L’intero racconto è proprio la cronaca di come, in tali foschi tempi, il ferito Céline dapprima annaspi cercando in qualunque maniera di cavar vantag­gio dalla nuova sua condizione (in specie legandosi all’infermiera L’Espinasse, forse ispirata ad Ali­ce David, crocerossina di Hazebrouck con cui l’autore avrebbe intrattenuto una relazione) e poi definitivamente riuscendoci, grazie all’improvvisa attribuzione della medaglia al valore.

“Il caporale Ferdinand è stato citato all’ordine del giorno dell’esercito per aver tentato da solo di liberare il convoglio per il quale aveva il compito di andare in avanscoperta. Nel momento in cui quest’ultimo sorpreso dall’artiglieria si tro­vava alle prese con i rinforzi della cavalleria nemica, il caporale Ferdinand ha caricato da solo per tre volte un gruppo di lancieri bavaresi e è riuscito così grazie al suo eroismo a coprire la ritirata di trecento [azzoppati] del convoglio. Il capo­rale Ferdinand è stato ferito nel corso della sua intrepida azione. Parlavano di me. Mi dico subito, Ferdinand qui c’è uno sbaglio. È il momento di approfittarne. Non ho avuto posso dir­lo manco due minuti di perplessità”.

Ritempriamoci con un po’ di revisionismo storico (Italia 2023: è il nostro pane) sulla figura di Céli­ne, o meglio: guardiamo con maggiore attenzione al nesso fra Céline (scrittore) e Destouches (l’uomo dietro il nom de plume). Le miserie del primo, rammentate in apertura, ci sono da lui stesso largamente comprovate, a cominciare dall’antisemitismo dei tre famigerati pamphlet del ‘37-’41 (Bagatelle per un massacro, La scuola dei cadaveri e La bella rogna), in cui in sostanza a proprio vantaggio cavalca la rampante ondata nazionalista e fascista (noi abbiamo sempre ritenuto più per convenienza che per adesione, dacché Céline era un nichilista, fondamentalmente: ma il dibattito è sterile e senza alcuna importanza), ed è ancora egli stesso, nella finzione letteraria dei suoi romanzi, e in specie di Viaggio al termine della notte, a forgiarsi l’immagine del codardo, del parassita e del rimestatore, proprio come nell’esempio or ora riportato. Le testimonianze riguardanti Destouches, però, non di rado collidono con questa figura. Si presenta volontario per la guerra mondiale e viene decorato per il suo eroismo. È noto il suo impegno di medico a Montmartre, dopo il conflitto, spes­so curando gratuitamente i pazienti più poveri. Simili discrepanze sono più abbondanti di quel che si creda. Per restare a Guerra, a un tratto recita: Non ho mai visto né sentito niente di più schifoso di mio padre e mia madre. Nella realtà, invece, i rapporti di Destouches coi genitori erano affettuosi, così come tramandato dalle numerose lettere. Destouches e Céline, insomma, non corrispondevano completamente, circostanza del resto sottolineata nelle più attente biografie (vorremmo ricordare quella di Nicholas Hewitt, ancora da tradurre in italiano).

Ed ecco che finalmente arriviamo al passaggio più atteso della nostra trattazione e cerchiamo di ri­spondere alla incombente domanda: “Qual è dunque il valore di Guerra?”, o, per essere più esplici­ti, indovinando i pensieri della gentile lettrice del lettore, “Ma questo Guerra, infine, è un bel libro oppure no? Che ruolo occupa nella bibliografia céliniana?” Ebbene, possiamo francamente rispon­dere che Guerra è senz’altro un’opera valida e godibile e pregevole, in specie per i già cultori dell’autore. Di Céline ritroviamo il parlare sboccato, la sintassi fluviale e a tratti delirante, a tratti visionaria, il cinismo, i personaggi come maschere sformate, già inquietanti alla luce e mostruose appena cala il buio. Il tutto si mantiene a un livello célinianamente piuttosto medio finché, però, già oltre alla metà del libro, giunge sia il colpo di scena della medaglia, già ricordato, sia il capitolo se­guente, che siede attorno a un tavolo il protagonista, i piccolo-borghesi genitori e una coppia di co­noscenti. Lui è un imboscato, lei una donna di facili costumi. Pubblicamente scoppierà fra loro una memorabile scenata e allora, col dibattersi degli uomini fra le loro più comiche e meschine tragedie, col livore velenoso che talora riescono a inventare per sé stessi e agli altri, in specie per coloro i quali li amano o li hanno amati, Luis-Ferinand Céline si trova infine nell’elemento che è suo, ed esso nacque per lui, e la sua lirica da fine del mondo lievita, freme, sferraglia e s’impenna, e il letto­re ne ottiene una manciata di pagine vorticose ed elettrizzanti e all’altezza, esse sì, di Viaggio al ter­mine della notte.
Con Guerra Céline torna fra noi e chissà che non possa suscitare, coi suoi inediti, una rinnovata corrente letteraria céliniana (si pensi all’influenza che seppero esercitare, in specie con le traduzioni a ridosso degli anni Sessanta, gli a lungo sconosciuti Manoscritti economico-filosofici di Marx). Che altro sarà ad aspettarci fra le carte del tremendo, dell’indimenticabile Céline?
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