Lupi e cavallette: sul declino dell’Italia

Se perdurano ristagno dell’economia e disillusione dei cittadini verso la res publica è perché il nostro Paese è squassato dal particolarismo. La diagnosi di Andrea Capussela nel volume "Declino Italia" (Einaudi) e le possibili strategie di intervento.

Nicolò Bellanca

I maggiori problemi dell’Italia di oggi sono la stagnazione dell’economia e la sfiducia nella politica. Di questi problemi esistono numerose diagnosi. Limitiamoci all’economia. Che essa abbia avuto, nel primo decennio del secolo, il tasso di crescita medio annuo più basso del mondo, è stato spiegato invocando – alternativamente o cumulativamente – i limiti dimensionali delle imprese e la loro eccessiva specializzazione in attività tradizionali e a ridotto impatto sui mercati internazionali, livelli di concorrenza mediocri in vasti settori protetti, l’indebitamento della finanza pubblica, l’invecchiamento demografico e i suoi effetti per il mercato del lavoro, le rigidità nel mercato dei diritti proprietari, l’insufficiente spesa in “ricerca e sviluppo”, l’inadeguata formazione delle risorse umane, il peggioramento dei servizi collettivi (materiali e immateriali), la mancanza di politiche economiche efficaci e altro ancora.

Tuttavia, simili spiegazioni poggiano sulle “cause prossime”: occorre infatti capire per quali ragioni le imprese restano piccole, il debito pubblico esplode, la qualità dell’istruzione è carente, e così via. Occorre inoltre riconoscere che, a più riprese, il nostro Paese si è impegnato in stagioni di riforme rilevanti[1]. Ebbene perché, malgrado questi tentativi riformatori, perdurano il ristagno dell’economia e la disillusione dei cittadini verso la res publica?

La risposta che a me sembra più convincente trae ispirazione dal potente schema teorico di Mancur Olson[2]. I piccoli gruppi hanno di solito maggiore facilità ad organizzarsi, in quanto i loro membri possono meglio conoscersi e controllarsi a vicenda. Se i piccoli gruppi s’imbattono in significative occasioni di vantaggio – di guadagno monetario, se si tratta di gruppi economici; di influenza decisionale, nel caso di gruppi politici o culturali –, sono stimolati effettivamente a organizzarsi per ottenere questi vantaggi, a scapito degli altri gruppi e dell’intera società, e per mantenerli nel tempo, impedendo o rallentando l’accesso ad essi da parte dei non-membri. Quando le élite economiche e politiche si mobilitano per conquistare extravantaggi, chiamati rendite, diventano coalizioni distributive che puntano ad accaparrarsi quote crescenti di risorse date, anziché contribuire a innovare e ampliare lo stock delle risorse sociali. D’altra parte, poiché la massa dei cittadini, per gli stessi motivi poco sopra evocati, riesce a organizzarsi e ad agire più difficilmente, i tentativi di cambiamento che tale massa promuove sono spesso poco coordinati e possono quindi essere bloccati dalle élite. Il risultato è una società statica, disuguale e poco inclusiva, collocata su una traiettoria di declino.

Questo schema teorico presenta tuttavia (almeno) due punti problematici, nei quali ci s’imbatte quando si esamina la configurazione dei gruppi di una specifica società. Il primo punto riguarda la numerosità delle élite in quella società: se essa è bassa, ad organizzarsi sono big players come gli oligopoli industriali, i sindacati nazionali dei lavoratori, i circoli finanziari e i mass media; se invece è alta, si forma un reticolo frammentato e diffuso di gruppi d’interesse, ciascun nodo del quale esprime in media un ridotto potere. Il secondo aspetto si riferisce alla numerosità degli incentivi selettivi (i vantaggi/privilegi che soltanto alcuni possono ottenere) al di fuori delle élite. Se nella società dominano pochi giocatori forti, questi di solito adottano strategie dirigiste o top-down verso i cittadini. Se al contrario incontriamo molte élite tra loro in competizione, ognuna cerca il proprio successo negoziando con i cittadini tanti microincentivi selettivi, che consentano di allargare il consenso; ma se tutte le élite così procedono, si creano connivenze in grado di alterare i comportamenti di parti ampie della popolazione.

Entrambi i punti – il numero dei gruppi d’interesse e la platea di coloro che ottengono piccoli privilegi – sono plasmati dalle occasioni di vantaggio: se, in un certo Paese, tali occasioni si presentano in modo concentrato, tenderanno a coagularsi poche élite; se esse invece sono disperse, aumenterà l’articolazione dei gruppi. Da parte sua Olson, guardando anzitutto agli Stati Uniti, esaminava Paesi predati da branchi di lupi: pochi “poteri forti” che bloccano la società mediante una ripartizione limitata di robusti incentivi selettivi. Ma la sua teoria può essere riformulata per Paesi assaliti da sciami di cavallette: tanti piccoli gruppi particolaristici, che ramificano modeste clientele tra milioni di cittadini.

Ebbene, che cosa accade in Italia? Imperversano i lupi o le cavallette? A differenza degli schemi teorici puri, la realtà è spesso animata da combinazioni. Premettendo che su questo tema decisivo esistono pochi studi approfonditi e sistematici[3], sembra plausibile annotare che l’Italia è corrotta a due livelli[4]. Anzitutto, essa è connotata da un patto sociale implicito tra il ceto politico-burocratico e quello manageriale-capitalista. In questo patto, che Pelloni e Savioli denominano “partitocrazia con corporativismo”, le imprese private si organizzano in coalizioni distributive che estraggono rendite per i propri membri indipendentemente dai segnali del mercato, mentre i partiti politici s’impegnano a creare occasioni di rendita per quelle coalizioni: il corporativismo dell’élite economica e la partitocrazia dell’élite politica si tengono a vicenda[5]. Negli ultimi trent’anni, tuttavia, tanto la partitocrazia, quanto il corporativismo, si sono indeboliti in Italia: il numero dei gruppi d’interesse è aumentato notevolmente, ad un tasso di crescita maggiore che in Europa o negli Stati Uniti, con un peso per i gruppi tradizionali (imprese, sindacati, professioni) che rimane decisivo, ma che va riducendosi[6]. Ciò è accaduto in forza specialmente del processo di europeizzazione, che ha esteso e rimodellato in modo diretto e indiretto l’arena dei gruppi, e per la parziale abdicazione dei partiti politici dalla funzione di controllo e di governo del sistema, che ha ampliato il numero e la varietà dei gruppi di interesse ai quali ora si aprono opportunità di policy che in passato erano negate loro[7].

Ma non basta. Accanto alle negoziazioni tra i maggiori gruppi d’interesse politici ed economici, si afferma in Italia un patto sociale implicito tra una vasta platea di piccoli decisori (pubblici e privati) e un’ampia fetta di comuni cittadini. Anche questo patto ha per oggetto delle occasioni di vantaggio, sebbene stavolta si tratti molto spesso di privilegi modesti e transitori[8]. La natura diffusa di questa miriade di microvantaggi basta ad alimentare un sistema di clientele nel quale, di nuovo, le parti si legittimano e si riproducono a vicenda[9].

Questa tesi può essere espressa mediante la distinzione tra il “particolarismo di gruppo”, che si manifesta quando alcuni soggetti (i “lupi”) si coalizzano per fini distributivi, e il “particolarismo individuale”, che affiora quando tanti singoli soggetti (le “cavallette”) si battono per divorare un (spesso minuscolo) orticello. Il nostro Paese è squassato dal particolarismo, che però assume entrambe le forme: l’una riguardante i gruppi strutturati di potere, l’altra che pervade in maniera pulviscolare la società civile. Nulla si capisce delle debolezze dello Stivale, se non si analizzano congiuntamente i due versanti della corruzione[10].

Andrea Capussela ha offerto, in un suo impegnativo libro del 2018, un’interpretazione del declino italiano non lontana da quella qui suggerita[11]. In un breve e lucido pamphlet appena pubblicato, egli prova a tradurre quella diagnosi in una strategia d’intervento[12]. In conseguenza del prevalere del particolarismo, nel nostro Paese le regole istituzionali sono raramente applicate in maniera imparziale. Affinché possa essere rafforzata la supremazia della legge e la responsabilità politica – i due pilastri che sorreggono l’effettività e l’universalità delle regole –, occorre che almeno una parte dei gruppi d’interesse e dei singoli cittadini modifichino le proprie aspettative: si convincano che sia possibile passare da una “trappola sociale”, in cui ognuno agisce opportunisticamente, ad un equilibrio virtuoso di miglioramenti reciproci. A sua volta, sottolinea Capussela, le aspettative cambiano non sempre a seguito di alterazioni delle condizioni oggettive. Talvolta sono invece le aspettative a precedere i comportamenti: le persone inventano un futuro e poi, ispirate da quella progettualità, agiscono per realizzarlo.

Questo percorso richiede alcune delicate condizioni di contorno. Una riguarda la chiarezza dell’analisi: come annota Marco Simoni, «prima ancora di cercare se c’è luce in fondo al tunnel, bisogna trovare il tunnel»[13]; soltanto prendendo le mosse da un’adeguata diagnosi del declino italiano, si elabora un progetto ricostruttivo. Un’altra condizione concerne la soggettività: è necessario che sorgano minoranze organizzate la cui strategia consista nell’ottenere il consenso di larghe maggioranze della popolazione. Questo secondo requisito rimanda ancora alla teoria di Olson, che indica precise circostanze nelle quali diventa conveniente formare coalizioni via via più inclusive, in ambito economico, politico o culturale. Questa teoria dimostra che non sempre il massimo vantaggio sta nel chiudersi entro le posizioni già conquistate; al contrario, in alcuni casi importanti la mossa razionale è innescare un percorso egemonico che solleciti la collaborazione tra gruppi in precedenza separati e contrapposti. Le due condizioni si tengono per mano: per un verso, è cruciale comprendere che «le cause profonde [del declino italiano] risiedono nell’organizzazione della società»[14], ovvero negli inceppamenti dell’azione collettiva; per l’altro verso, «occorrono partiti capaci di organizzare le maggioranze latenti»[15], ovvero di sbloccare l’azione collettiva.

La pandemia sta accelerando la domanda politica così di un progetto rifondativo del Paese, come di uno o più partiti che tentino di realizzarlo. Capussela conclude, con un’impostazione illuminista che non dovrebbe dispiacere ai lettori di questa rivista, che «i cittadini desiderano spiegazioni del proprio malessere, sono disposti ad ascoltare nuove proposte politiche, e paiono capaci di scartare quelle inadeguate, dopo averle viste alla prova: lo spazio per analisi e proposte migliori è così vasto che sarebbe sorprendente se restasse a lungo vuoto»[16]. Ci auguriamo che il suo ragionato ottimismo colga nel segno.

NOTE

[1] «A partire dalla fine degli anni ’80, è stato avviato un processo di riforma che nel giro di un quindicennio ha radicalmente trasformato le istituzioni italiane del mercato e dello stato». Fabrizio Barca, “Istituzioni e sviluppo: lezioni dal caso italiano”, Stato e mercato, 1, 2006, p.5. Sulla rilevanza dei tentativi di riforma, e sulle ragioni del loro fallimento, si veda Marco Simoni, “Institutional roots of economic decline: lessons from Italy”, Italian Political Science Review, 50, 2020, pp.382-397.
[2] Mancur Olson, Ascesa e declino delle nazioni (1982), Il Mulino, Bologna, 1984.
[3] Si vedano soprattutto le ricerche di Andrea Pritoni: Poteri forti? Banche e assicurazioni nel sistema politico italiano, Il Mulino, Bologna, 2015; Lobby d’Italia, Carocci, Roma, 2017. Sarebbe necessario applicare all’Italia, in modo aggiornato e completo, una metodologia olsoniana come quella suggerita da Domenico Rossignoli, “Too many and too much? Special-interest groups and inequality at the turn of the century”, Rivista Internazionale di Scienze Sociali, n. 3, 2015, pp. 337-366.
[4] Il saggio che, a mia conoscenza, più si avvicina a questa chiave interpretativa è Gianluigi Pelloni e Marco Savioli, “Why is Italy doing so badly?”, Economic Affairs, 35(3), 2015, pp.349-365.
[5] Joselle Dagnes (in Ai posti di comando. Individui, organizzazioni e reti nel capitalismo finanziario italiano, Il Mulino, Bologna, 2018) ha esaminato gli incarichi multipli, ossia la presenza di uno stesso individuo nei consigli di amministrazione di due o più società quotate in borsa, quale ponte tra gli organi decisionali delle imprese coinvolte. La sua indagine documenta la presenza di articolate strutture piramidali e di un fitto intreccio di partecipazioni azionarie e di rapporti informali tra un numero ristretto di attori. Vedi anche Fabio Bulfone, “The Eurozone crisis and Italian corporate governance: the end of blockholding?”, Modern Italy, 20:4, 2015, pp.365-378.
[6] Andrea Pritoni, “Exploring the impact of partisan gatekeeping on interest group representation and bias: the case of Italy (1987–2015)”, Interest Groups & Advocacy, 8, 2019, pp.68-90. «Sempre più attori popolano un ambiente nel quale vi sono sempre meno elementi di stabilità (o di stabilizzazione)» (p.86).
[7] Renata Lizzi e Andrea Pritoni, “The size and shape of the Italian interest system between the 1980s and the present day”, Italian Political Science Review, 47, 2017, pp.291-312.
[8] In Italia «il fallimento istituzionale non scaturisce necessariamente dagli interessi di lobby specifiche e ben identificabili, bensì anche dagli interessi di larghe minoranze, la cui composizione muta nel tempo e al cui interno i vantaggi non sono equamente ripartiti tra i membri». Paolo Di Martino e Michelangelo Vasta, “Happy 150th Anniversary, Italy? Institutions and Economic Performance Since 1861”, Enterprise & Society, 16(2), 2015, p.301.
[9] Il nesso tra frammentazione e politicizzazione degli interessi è stato indagato di recente, nella sua versione di nesso tra imprese e politica locale, da contributi molto rigorosi: Federico Cingano e Paolo Pinotti, “Politicians at work: the private returns and social costs of political connections”, Journal of the European Economic Association, 11(2), 2013, pp.433-465; Ufuk Akcigit, Salomé Baslandze e Francesca Lotti, “Connecting to Power: Political Connections, Innovation, and Firm Dynamics”, NBER working paper, n.25136, 2018.
[10] Che l’Italia sia assalita così dai lupi come dalle cavallette, richiede una peculiare teorizzazione. Qui mi limito a poche osservazioni. 1) Se il patto implicito tra i lupi avesse la stessa logica di funzionamento di quello tra le cavallette, l’Italia sarebbe un Paese “frattale”, nel senso che, al mutare della dimensione dello scambio sociale, le proprietà dello scambio apparirebbero invariate, proprio come accade nella geometria frattale. A mio avviso non è così, ma si tratta di uno snodo teorico finora inesplorato. 2) La compresenza di lupi e cavallette non emerge per caso, bensì si radica nella “varietà di capitalismo” italiana, e quindi nelle molteplici forme di vecchio e nuovo dualismo: luoghi di grande impresa contro distretti industriali, Centro-Nord contro Sud, welfare pubblico contro welfare familiare, relazioni imprenditoriali e lavorative formali contro informali, e così via. 3) Se “oggi” convivono lupi e cavallette, “ieri” i tanti dualismi nostrani componevano una “combinazione di debolezze” che era capace di performance ragguardevoli (si veda Carlo Trigilia e Luigi Burroni, “Italy: rise, decline and restructuring of a regionalized capitalism”, Economy and society, 38(4), 2009, pp.630-653). 4) In base al punto 3, se vogliamo contrastare il declino italiano, anziché volgerci verso versioni del capitalismo “pure” e irraggiungibili, dovremmo capire come intervenire sul nostro specifico modello, per ridurre sia i lupi che le cavallette (oltre agli scritti di Marco Simoni qui citati, si veda ad esempio Alessandro Arrighetti e Fabio Landini, “Eterogeneità delle imprese e stagnazione del capitalismo italiano”, L’industria, 2, 2019, pp.337-380).
[11] Andrea Capussela, Declino, una storia italiana (2018), Luiss University Press, Roma, 2019. L’autore riconosce «che ampi segmenti della società sostengono lo status quo, nonostante la sua inefficienza, perché un capillare sistema d’inclusione selettiva, costruito nell’arco di diversi decenni, ha conferito loro privilegi particolaristici il cui valore è sufficientemente elevato da allineare i loro interessi – quantomeno in una prospettiva individualista e di breve periodo – a quelli dei principali beneficiari dello status quo, ossia quelle porzioni delle élite politiche ed economiche che temono la distruzione creatrice» (Ivi, p.41). D’altro canto, egli sostiene, le élite «favoriranno la creazione di una sorta di doppio regime, nel quale i comportamenti opportunistici delle élite godono di ampia impunità, che è requisito imprescindibile per trarne benefici, ma i comportamenti opportunistici dei cittadini comuni sono trattati con rigore, per evitare che si diffondano oltre la soglia che innesca la spirale discendente» (Ivi, p.145). Le due proposizioni sono però tra loro contraddittorie. L’Italia dello sciame di cavallette è un Paese in cui milioni di persone ritengono (a torto o a ragione) di avere un “proprio” orticello da divorare. Le élite che cercano ampie connivenze nella società civile, quasi mai reprimono davvero le cavallette. L’atteggiamento di far rispettare le regole ai cittadini comuni può convenire (e non sempre) soltanto alle frazioni delle élite che sono o che si sentono lupi. In effetti, come sostengo nel testo, la cifra peculiare del caso italiano odierno sta nella compresenza di tante cavallette e di pochi lupi; ogni specie animale conduce la sua caccia, senza troppo insidiare l’ecosistema dell’altra.
[12] Andrea Capussela, Declino Italia, Einaudi, Torino, 2021. Pur vivamente consigliabile, il pamphlet del 2021 non è la “miniaturizzazione” della monografia del 2018. Al centro del 2018 vi è la dinamica dei gruppi d’interesse, che nei capitoli 5-9 viene ricostruita dettagliatamente sulla scorta degli eventi storici. Piuttosto, nel 2021 quella dinamica viene evocata soltanto mediante la contrapposizione formale tra equilibri efficienti e non. La diagnosi raccontata in parte cambia: come si legge nella quarta di copertina, «la supremazia della legge e la responsabilità politica sono più deboli, in particolare, e ciò comprime sia la produttività delle imprese sia le opportunità dei cittadini». Così espressa, è una diagnosi ecumenica, accettabile dai liberali di destra così come da gran parte della sinistra. Ciò consente forse all’autore di cercare alleanze trasversali, ma depotenzia il nesso olsoniano – indigesto, e per questo poco indagato – tra interessi particolari e percorsi d’istituzionalizzazione, che conferisce originalità al libro del 2018 e a diversi tra i contributi citati in questa nota.
[13] Marco Simoni, Senza alibi. Perché il capitalismo italiano non cresce più, Marsilio, Venezia, 2012, p.10.
[14] Capussela, Declino Italia, op.cit., p.10.
[15] Ivi, p.112.
[16] Ivi, pp.116-17.



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