“Maledetta zappa”, una storia ecologista

Nel libro “Maledetta zappa. Due millennial prestati all’agricoltura” Filippo Baracchi e Cecilia Irene Massaggia raccontano la loro scelta di cambiare vita per preservare un territorio e la sua biodiversità.

Massimo Acanfora

“Maledetta zappa. Due millennial prestati all’agricoltura” è un libro che rompe tutti i codici che siamo abituati a collegare alla “contadinanza”, in primis quelli che reiterano la retorica della terra come “fatica”, “sudore” o che la qualificano “bassa” – con un sottinteso che la espone a una luce palesemente negativa – e riportano a una lotta di classe di “proletari senza rivoluzione” che ha indubbiamente un retrogusto classista. Ma non è certo questo il caso.

Il libro, che è in libreria da pochi giorni per i tipi di Altreconomia, racconta – per dirla in poche parole – una scelta coraggiosa e profondamente ecologista; sia pure in un significato strabico rispetto alla vulgata comune. Una coppia che cambia vita per valorizzare la casa colonica degli avi ma soprattutto per preservare – come vedremo – un territorio e la sua biodiversità. Non è l’unica, certo, tra le storie di ritorno alla terra o di “restanza” che punteggiano l’Italia, ma è sicuramente una storia molto speciale perché racconta una resilienza dello spirito che trascende il gesto materiale di vivere fuori dalla città.

Filippo Baracchi e Cecilia Irene Massaggia – narratori attraverso una prima persona plurale che spesso suona come una vera e propria assunzione di responsabilità – vengono da una storia universitaria completamente aliena al mondo agrario e da una professione intellettuale, legata alla produzione e alla realizzazione cinematografica, che lo è meno ancora. Di più. Sono due millennial che vogliono sfuggire a un’altra narrazione già vista e ritrita: una generazione – quella connotata dalla “variante” Y – funestata da crisi epocali, economiche, sociali e pandemiche, che ha la precarietà per condizione esistenziale, gli stage come contrappasso e l’invio di curriculum come esercizio ginnico (“Tra il 2011 e il 2017 Cecilia ha inviato complessivamente 547 candidature, cioè in media 78 candidature all’anno; ha ricevuto solo 40 mail di risposta vere”, raccontano).

Un giorno però Cecilia e Filippo, dopo essersi barcamenati negli anni post-laurea e master tra lavori fissi, saltuari o precari, riescono a vedere il proprio futuro in una vasta inquadratura panoramica che comprende la campagna e quello strano toponimo “Le Crede” a Portovecchio, a pochi chilometri da Portogruaro e all’interno della città metropolitana di Venezia. E mettono a fuoco una semplice verità: per sfuggire agli stereotipi bisogna accettare l’imperfezione: e cosi, dopo un periodo di formazione, traslocano, sì badi bene, non tra colline idilliache e pettinate ma in un territorio definito marginale, a Portogruaro, città metropolitana di Venezia. Così scrivono all’inizio della loro vicenda, nel 2018: “Come speleologi di anfratti sperduti e dimenticati ci siamo impegnati a osservare e comprendere”. E come rappresentanti consapevoli di questa generazione, la coppia si risolve a usare non più – ideologicamente – falce e martello ma zappa e cervello: il libro li coglie in tante diverse posture affatto casuali: incantati davanti a un capriolo che bruca accanto a casa, stupiti dell’acredine con cui alcuni degli autoctoni li accolgono, decisi a capire che cosa accade alle loro piante perché “l’intelligenza vegetale ha molto da insegnare al mondo dell’impresa”.

Ma soprattutto i due ragazzi, che sono ancora di là dall’entrare negli -anta, sono ben determinati a non lasciarsi asfaltare dal Moloch di quella plaga veneta, ovvero l’autostrada A4, che corre proprio accanto alla proprietà, l’azienda agricola Le Crede, con il concreto rischio di invasioni e incidenti. Cecilia e Filippo frappongono all’infrastruttura (e al suo allargamento) una generosa e silenziosa attenzione alla vigna, alla terra, alle piante e ai viventi che gli sono compagni di strada, consapevoli che il loro Merlot non potrà bloccare i lavori o fermare i Tir, ma che i primi clienti che tornano e che torneranno ancora sono uno scudo all’abbandono e alla indifferenza, il grande virus che ammala le aree meno frequentate del nostro Paese.

Lo storyboard del libro vede una linea del tempo che si dipana dal momento del trasloco e diventa prima un romanzo di formazione “agricola”, poi un racconto kafkiano sulla burocrazia, e poi ancora un ritratto veridico del profondo Veneto, nel bene e nel male, per passare da aneddoti ed excursus su temi esiziali per chi è del mestiere, come la sostanza di cui è fatto il prezzo di un prodotto (della bottiglia), il rapporto di genere tra zappa e donna interpretato attraverso il metro del Dolce Stil Novo, l’importanza di passare da consumatori a produttori e di diventare custodi di un luogo, per quanto residuale, come “L’isola di cemento” di Ballard. Ma al contrario del protagonista di questo cupo romanzo, Cecilia e Filippo riescono a creare un ecosistema circolare, riflettendo lucidamente sul senso del loro lavoro, senza dimenticare da dove vengono: “Lavorare nei campi” è (…) un motto che potrebbe essere adottato, per vivere in modo più pieno, attento ed essere vigili sulla realtà e sull’ambiente che circonda l’uomo. Ma lavorare etimologicamente significa faticare, intendiamo nel vero senso del termine, sia intellettualmente sia manualmente. Non c’è nulla di male a identificare il lavoro con lo sforzo fisico, così come non è sbagliato considerare lavoro l’impegno intellettuale. Ma purtroppo oggi in alcuni contesti, come quello agricolo di alcune zone rurali, il lavoro è ancora nei fatti una sorta di schiavitù per i soggetti più deboli; e in generale si percepisce un divario ancora troppo ampio tra l’aspetto creativo e intellettuale e quello pratico e operativo, almeno in Italia. Questo ha portato a concepire il lavoro in modo distorto e ci ha allontanato da quello che dovrebbe essere il suo vero significato e il risultato più importante, ovvero la dignità di chi lo svolge e la sua qualità, a prescindere da quale sia”.

Maledetta zappa è insomma una “non fiaba”, dove domina il sano odore del letame e il brusio dell’autostrada, ma è anche un bagno di realtà e di prassi senza fronzoli. Una riflessione resiliente sul lavoro e la sua dignità che prescinde dall’uso della matita, del mouse o della zappa. Un archetipo che – peraltro –  non suscita più visioni di fronti madide e deterse ma il potere magico di preservare la biodiversità con gesti lenti ed essenziali e con la stessa cura che si mette in un’inquadratura, nella stesura di una sceneggiatura o in quella di un budget.

“Se è riuscito a noi – scrivono decisi Cecilia e Filippo – potrebbe riuscire a chiunque”. E aggiungono una frase che mette a fuoco quello che è sotteso a tutto il libro, un fattore politico non dichiarato ma che è dentro la loro scelta: “l’impegno ecologista non è un’intenzione che deve rimanere nel cassetto. È una reale possibilità di riappropriazione pubblica del territorio e della Terra”. O ancora meglio di un terroir, magari senza la prosopopea dei francesi ma con tutto il significato di autentica espressione di un territorio che i due e il loro enologo provano a mettere nel loro vino e nel loro orto. La forza di questa filosofia è la reciprocità con la natura, che gli dona, “tra le erbe spontanee che nascono nel vigneto (…) la potentilla, la malva, la finocchiella, la piantaggine, il ranuncolo comune, il trifoglio, i muscari con i loro fiori blu e viola, l’avena selvatica, l’achillea, la comunissima pratolina, il crescione dei prati, il fiordaliso, il profumatissimo cerfoglio selvatico, l’iperico, la menta, il papavero”. E dall’orto “in estate pomodori, cetrioli, patate, zucchine, rape e peperoni; poi aglio, cipolle e porri. In inverno è la volta di zucche, biete, finocchi, verze e broccoli”.

Una potenza esplosiva della natura che l’illustratore Squaz (Pasquale Todisco) ha ben provato a imprigionare nella copertina, dove la benedetta zappa viene illuminata da una luce quasi ultraterrena e i due ragazzi assurgono alla veste, sia ben chiaro ironica, di supereroi.

“Maledetta zappa” è anche il primo libro della nuova collana Storie di Altreconomia, racconti di libere scelte, stili di vita e “impollinazioni” positive. Qui un’anteprima.



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