Malus: l’osceno della nostra società schiava dell’ingordigia

Platone definisce "città infiammate" le società in cui domina la volontà di possedere sempre più di ciò che si ha. Quelle come la nostra.

Fabio Merlini

Giovenale aveva capito tutto quando scrisse che l’amore del denaro cresce tanto quanto cresce il denaro. Il punto è proprio questo: il proliferare dell’uno in conseguenza del proliferare dell’altro. Entrambi, al contempo, causa ed effetto di una brama insaziabile. Un’ingordigia che finisce con il congelare qualsiasi altra aspirazione. Poiché è specifico a questa forma patologica del desiderio cadere nell’ossessione dell’illimitato, del sempre di più, del mai abbastanza. Lo si legge nelle Satire, genere letterario consolidato che, però, nelle mani del poeta e retore romano perde il carattere dell’ironia sorniona per assumere il tono severo e risentito dell’indignazione. Soprattutto quando il senso della misura smarrisce il suo metro, gettandosi a rotta di collo nelle lande desolate dell’indecenza. Viene subito in mente l’iconografia tradizionale dell’avaro, la cui meschinità è oggi rappresentata da altri e ben più letali appetiti. Sempre tutti a inseguire quel “di più” che è il “meno” da cui siamo abitati.

Mo(n)di indecenti
L’indecenza, appunto. Che cosa è l’indecenza? “Indecente” si dice di un comportamento o di una situazione in cui convenienza e pudore vengono polverizzati, vuoi per sfrontatezza vuoi per sprovvedutezza (a volte le due cose insieme). È l’osceno che irrompe sulla scena, per colpire al cuore il senso del pudore – quello educato non quello ipocrita. Per travolgerlo e irriderlo. Fesso chi rimane indietro. Chi non partecipa alla festa della scaltrezza cinica, dove la distinzione tra bene e male è ancora solo la consolazione degli ingenui. Nelle forme estreme che si danno oggi, l’indecenza è però soprattutto un modo di comportarsi che traduce una precisa logica del mondo. Vi ci siamo scivolati lentamente, negli ultimi trent’anni, senza neppure fare attenzione. Lusingati e ammansiti, prima, sfiniti poi dalla più scaltra retorica su come debba funzionare un corpo sociale se vuole crescere; su come debbano essere mobilitate le persone se vogliono arricchirsi; su come farla finita con l’idea stessa della società e del suo sentimento della comunità se si vuole accedere a quell’universale panacea per tutti i mali – così abbiamo voluto credere – che è la mercatizzazione di ogni relazione, di ogni risorsa, di ogni sfera della vita: vedrete, ce ne sarà per tutti.

Società infiammate
Eppure, anche in questo caso, le lezioni non mancano all’appello: “città infiammate” definisce Platone, con il linguaggio della patologia clinica dell’epoca, quelle società in cui domina l’istinto pleonettico, cioè la fame di ciò di cui non si sarà mai sazi: il “sempre-di-più” per il quale vi è sempre un “ancora-di-più”. Con il suo tragico corollario: la sopraffazione degli uni (pochi) sugli altri (tanti). È una vecchia storia, ma sempre attuale, che oggi sfianca le nostre democrazie.

Negli ultimi decenni, siamo stati allo stesso tempo protagonisti, vittime e osservatori di discorsi convergenti per i quali individui, società e istituzioni dovevano stare al passo, aderendo a questa idealizzata meccanica pleonettica che ha fatto dell’innovazione, dell’eccellenza, della virtuosità e dell’autoimprenditorialità la chiave di volta per sottrarre a qualsiasi dubbio, a qualsiasi possibile obiezione, a qualsiasi critica la sua forza argomentativa. Potere travolgente e magico di questi sostantivi che, in virtù della loro aura, valgono incondizionatamente. Vuoi forse dichiararti contrario all’innovazione? Vuoi forse argomentare che l’eccellenza non dica nulla in sé, se non relativamente ai valori che promuove o ostacola? Vuoi forse sostenere che i cosiddetti esempi virtuosi da pubblicizzare e imitare siano stati la leva di una spietata deriva concorrenziale degli attori individuali e istituzionali, con il risultato di un impoverimento generalizzato? Vuoi forse discutere i vantaggi del “tutti imprenditori”, contro la pigrizia colpevole dello spirito funzionariale?

Magie alchemiche
Siamo scivolati progressivamente dentro questa logica del mondo e nel farlo abbiamo aderito a un preciso ordine di marcia. Non v’è, dunque, da meravigliarsi per quel che è accaduto recentemente proprio sotto i nostri occhi, un’indecenza che dura appunto da decenni: istituzioni benemerite che hanno dissipato il loro più o meno meritato capitale di credibilità con la stessa abile baldanza del prestidigitatore quando fa scomparire sotto i nostri occhi l’oggetto delle sue manipolazioni; personalità ammiratissime e invidiatissime che hanno saputo e sapranno sottrarsi a qualsiasi imputazione della responsabilità, in virtù di un principio magico (di nuovo) per cui quanto è accreditato dal mercato, in questo caso, vale indipendentemente dai risultati conseguiti. E ciò grazie alle bizzarrie contrattualistiche del “se mi vuoi, queste sono le condizioni, punto”. Massima opacità della responsabilità al vertice, massima trasparenza della responsabilità alla base.

Vuol dire che l’assoluto, il non avere legami, l’essere incondizionatamente – l’attributo superlativo assegnato al divino – oggi si è trasferito proprio là dove vige la regola del salvacondotto: sei, hai e avrai indipendentemente da quel che fai. Non vale invece per tutti gli altri (noi comuni mortali); sempre ancora destinatari del proverbio “(non) pianga se stesso chi è causa del suo male”. Ma il massimo della prestidigitazione, vera e propria alchimia delle alchimie, è la scaltrezza con cui il malus è stato sapientemente trasformato in bonus – la gratifica attraverso cui viene premiata l’azione di una devastazione che agisce facendo propria la logica dell’immediatezza. Poiché, sempre, si produce distruzione dove è coltivata e premiata la brama di possedere ancora e ancora di più nel minor tempo possibile, addirittura nella eliminazione della durata. Devastazione del tessuto sociale e del mondo naturale. Una micidiale combinazione di “pleonexia” (sempre di più) e di “tanatocronia” (morte, azzeramento del tempo).

Già, proprio l’alchimia. Eppure, sapevamo da tempo che la trasformazione dei metalli vili in oro, quando non è una allegoria del faticoso e mai garantito cammino verso la saggezza, corrisponde solo a una truffa per anime ingenue e superstiziose. Non sarebbe male a questo punto se economia e finanza riscoprissero qualche aspetto non trascurabile della critica dei Lumi ai comportamenti magici.

 

Foto Flickr | Edgar Jiménez



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