Manganellate a Pisa: l’involuzione della democrazia italiana

La violenza delle forze dell’ordine a Pisa e Firenze a danno dei giovani manifestanti in solidarietà al popolo palestinese ha indignato il Paese, ed è la punta dell’iceberg di una crescente violenza istituzionale. Non basta l’intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: serve l'impegno di tutta la società civile democratica.

Teresa Simeone

I fatti del 23 febbraio di Pisa e di Firenze contro i manifestanti sono tanto gravi da aver richiesto l’intervento di Sergio Mattarella che ha strigliato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi affermando che l’uso della forza contro chi manifesta – tra l’altro, aggiungo, in nome di principi tutt’altro che ignobili come la richiesta di pace – è un fallimento. “L’autorevolezza delle Forze dell’Ordine” – ha sottolineato – “non si misura sui manganelli”, ma sulle capacità di assicurare sicurezza, tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente le opinioni.
La replica di Piantedosi, che si è assunto la responsabilità in qualità di ministro di quanto accaduto, si è mossa ieri secondo la solita prevedibile linea: si valuterà quanto è successo, ci sono state moltissime manifestazioni pro-Palestina senza incidenti, “il governo non ha cambiato le regole della gestione dell’ordine pubblico” che prevedono contatto fisico tra forze dell’ordine e manifestanti solo in casi estremi e “non ha alcun interesse che si verifichino disordini, al contrario vuole assicurare la massima espressione delle libertà dei cittadini in forma ordinata e pacifica”. Insomma va tutto bene. Non per gli studenti, molti dei quali minorenni, che hanno subito le cariche della Polizia, né per la qualità della democrazia nel nostro Paese.
Quello che sta succedendo in Italia, e purtroppo in diverse parti d’Europa con l’involuzione verso forme sempre più diffuse di democratura, come mostrano paesi dell’area sovranista, deve allertare le forze intellettuali e impegnare la società civile a un uso non solo autonomo ma lungimirante del pensiero critico. Accettare ogni compressione delle libertà e ogni distinguo giustificazionista delle misure repressive rischia di assuefare a un’erosione dei diritti la cui conquista è stata lenta. Questa non può essere messa in discussione, benché conosciamo come niente sia acquisito per sempre. La nostra libertà ha un prezzo e senza voler richiamare il solito monito popperiano a vigilare, è necessario però non dimenticare mai che sono le donne e gli uomini attori dei processi storici e che non c’è un Assoluto che muova le loro azioni al di sopra della volontà di ciascuno di contribuire al percorso civile.
L’indifferenza, il disimpegno, l’abulia civica sono un fiume carsico che scava nel sottosuolo della democrazia e corrode diritti e principi inderogabili. Lentamente ma progressivamente rinunciamo a credere che la libertà sia un valore da difendere. Non solo quella dei liberali di destra che difendono chi ammazza i ladri nella propria proprietà o sostengono le misure economiche a favore delle imprese, che fermano migranti considerati invasori o chiedono l’abolizione del reato di tortura, che rifiutano categoricamente l’introduzione di codici identificativi per guardie carcerarie e poliziotti, ma anche di chi crede che i diritti non siano vuoti simulacri o flatus vocis da commentatori di salotti, bensì la necessaria cornice nella quale organizzare la vita di un essere umano e di un cittadino.
Essi hanno una reale ricaduta sulla vita materiale. Proviamo a pensare come incidesse sulla quotidianità della donna di qualche secolo fa essere sotto tutela del padre prima e del marito poi, cosa significasse per un omosessuale il reato di sodomia, per un afroamericano non votare nel proprio paese, per un ebreo doversi convertire per lavorare o semplicemente per vivere, per un operaio farsi male a causa dell’imperfetto funzionamento di un macchinario ed essere licenziato perché ormai inabile, per un giornalista non poter scrivere senza censura, per un deputato all’opposizione, come magari il socialista Matteotti, di cui quest’anno ricorrerà il centenario dell’assassinio, non poter dissentire senza temere una punizione.
I diritti umani tutti, civili, politici, sociali, sono l’espressione del grado di democrazia di una società e vanno rivendicati e difesi. Senza indugi, timori o ricatti: cos’è l’uso della forza, d’altronde, se non l’intimidazione e il malcelato messaggio che è meglio starsene a casa piuttosto che scendere in piazza per esprimere la propria indignazione? Che si deve rimanere tranquilli e lasciar fare a chi governa perché sa che cosa è bene per tutti?
E allora, via alle identificazioni gratuite e assolutamente inopportune, come quella di Marco Vizzardelli alla Scala per aver gridato Viva l’Italia antifascista!, come quella di chi ha portato a Milano un fiore nei giardini dedicati ad Anna Politkovskaja in ricordo di Navalny, di chi ha manifestato contro la politica estera del governo. C’è invece tolleranza verso i raduni di Acca Larentia, che fanno rabbrividire chiunque abbia un minimo di coscienza civica e i cui partecipanti, tantissimi, altro che pochi sparuti, sono stati sì oggetto di identificazione ma non immediata, come nel caso della Scala, bensì solo dopo che le proteste hanno scosso l’opinione pubblica. È vero che manifestazioni di neofascisti come questa ci sono state anche in anni precedenti, ma è falso che siano passate nell’indifferenza generale come dimostrano video e trasmissioni televisive. Associazioni come l’ANPI o altre a difesa della Costituzione antifascista hanno sempre protestato. Piuttosto, oggi, con un governo la cui maggioranza partitica ha ancora la fiamma nel simbolo, le paure riemergono. Che si celebri, com’è avvenuto a Varese, officiante il capo dell’organizzazione neonazista Do.Ra, un matrimonio pubblico e che gli sposi dal balcone di Palazzo Estense, sede del Comune, facciano il saluto romano, prontamente imitati dagli invitati, non è cosa cui assistere senza un moto di inquietudine. Verrebbe da chiedersi se tutti questi episodi siano in aumento perché in qualche modo emergenti dal fumo che li ha avvolti grazie a un clima più favorevole verso i loro protagonisti e rientranti, all’interno di un’atmosfera culturale in cui costoro si aspetterebbero copertura politica o quanto meno simpatia.
Come hanno reagito le attuali forze politiche e istituzionali di fronte alla dimostrazione di violenza a Pisa e a Firenze? Mentre sindaci come Dario Nardella ma anche il leghista Michele Conti e rettori di università toscane, in particolare dell’ateneo di Pisa e di Firenze nonché della Normale e della Sant’Anna, hanno dichiarato di essere sconcertati ed espresso solidarietà ai manifestanti, gli esponenti del governo, invece di redarguire o di assumere una posizione non diciamo critica, ma almeno cauta nei confronti delle Forze dell’Ordine che hanno caricato i giovani, non si sono lasciati scappare ancora una volta l’occasione per prendersela con la sinistra. In una nota dell’ANSA si legge: “Fratelli d’Italia difende le regole democratiche di convivenza che si basano sul diritto di manifestare e il dovere di farlo pacificamente e nel rispetto della legge. La sinistra che spalleggia i violenti è la causa dei disordini ai quali abbiamo assistito”. Dunque i giovani sono violenti, la loro non è stata una manifestazione di dissenso ma disordini e la sinistra li ha fomentati: bel modo di affrontare la questione! Sarebbe il caso che le forze al governo abbandonassero i soliti toni da opposizione, accettassero che la gestione della “cosa pubblica”, compresa la libertà di manifestare, è nelle loro mani e non distogliessero sempre l’attenzione individuando un nemico su cui scaricare le responsabilità. Nel frattempo la procura di Pisa ha aperto un fascicolo su quanto è successo e gli studenti ieri sono tornati in piazza. Di domenica, giorno in cui scuole e università sono chiuse.



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