Le giovani donne iraniane guidano le manifestazioni contro il regime anche in Italia

A Roma e in altre città, crescono le manifestazioni di solidarietà dall’Italia con i giovani iraniani e contro la repressione del regime. Molte le persone comuni, scarsa la presenza della sinistra organizzata e delle femministe.

Federica D'Alessio

“Jin, jiyan azadî”. Lo slogan delle donne curde rivoluzionarie che risuona ogni giorno nelle manifestazioni di protesta in Iran riecheggia sempre più spesso anche in Europa. Aumentano di giorno in giorno, in Italia e tanti altri Paesi, le manifestazioni di solidarietà a fianco delle donne iraniane e curde contro la repressione di regime. Cresce la partecipazione emotiva al dramma ma anche al coraggio delle giovani e dei giovani iraniani che dal 16 settembre, dopo l’uccisione brutale della ventiduenne curdo-iraniana Mahsa Amini perché non portava correttamente il velo, non si stancano di manifestare nel loro Paese.

A sostenerli, nelle piazze italiane, sono soprattutto gli iraniani esiliati qui. Giovani donne in testa in quasi tutti i cortei, insieme ai loro fratelli; figli di storici dissidenti o a loro volta arrivati in Italia da poco, per studiare o in fuga dal regime. Sabato 1° ottobre, le piazze di numerose città in tutto il mondo si sono riempite dei loro slogan in curdo, in farsi e nelle varie lingue dei Paesi dove si sono svolte – “No alla dittatura! L’Iran vuole internet!”, ricordando che il regime ha interrotto l’accesso ai social network alla popolazione, senza per questo riuscire a impedire la circolazione delle immagini della repressione. “Khamenei assassino!”, e tanti canti nella lingua persiana, poesie contro il regime. Una pluralità di voci accolte e seguite da tante persone comuni ma poco sostenute dalle realtà della società civile o della sinistra organizzata, che almeno a Roma è stata per lo più assente o non riconoscibile. Neanche le femministe erano presenti se non in modo defilato e sparpagliato, non organizzato: né con striscioni né con le proprie bandiere o con i propri slogan. Un segno preoccupante di poca reattività e capacità di organizzarsi in quella parte di società italiana più tradizionalmente sensibile alle lotte dei popoli; o forse un indizio della difficoltà di dialogo con i contenuti di questa lotta? Non sarebbe purtroppo la prima volta che le donne iraniane si ritrovano poco appoggiate nelle loro battaglie dalle femministe nostrane, e la ragione principale è un malinteso senso della lotta contro l’islamofobia che porta a molta freddezza e imbarazzo nei confronti di quelle realtà di donne, iraniane ma non solo, che individuano nel velo un chiaro simbolo dell’oppressione contro le donne tutte. Cavillare se la battaglia delle donne iraniane sia “contro il velo o contro l’obbligo del velo” sostenendo addirittura che nel volersene liberare “il rischio, però, per le donne non musulmane, è sempre lo stesso: lottare per i valori occidentali prima ancora di lottare per la liberazione delle donne” appare poi bizzarro, perché salta subito agli occhi uno sfacciato westplaining: la parola che abbiamo imparato dalla sinistra ucraina, quando ci hanno spiegato che la prima cosa da fare per esprimere solidarietà con le lotte in Paesi non occidentali è ascoltare il punto di vista di chi quelle lotte le sta portando avanti.

La solidarietà al popolo iraniano è stata portata ieri in modo netto anche da Amnesty International, che mercoledì 5 ottobre insieme alla Rete Kurdistan e a settori di dissidenti del regime degli ayatollah, ha animato un partecipato sit-in a Piazza del Campidoglio a Roma e in altre piazze in diverse città d’Italia, chiedendo libertà e giustizia per le e i manifestanti in Iran. Tina Marinari, coordinatrice di Amnesty International, ha dichiarato a MicroMega: “Dal 16 settembre il popolo iraniano scende in piazza tutti i giorni per reclamare vita, libertà e diritti. Abbiamo registrato una risposta di violenza inaudita da parte del regime: uso di proiettili veri, di pallini da caccia sparati ad altezza uomo, persone che hanno perso la vista da uno o due occhi solo per aver partecipato a una manifestazione. Oltre 130 persone uccise, 1500 arrestate a oggi. Abbiamo bisogno di fare pressione sulla comunità internazionale affinché venga istituita dal Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite un’indagine indipendente, rapida per certificare le responsabilità per queste violenze e porvi fine.” Dal microfono aperto durante il presidio, Marinari ha poi aggiunto “mettere fine all’obbligo del velo e garantire il diritto di protesta”.

Il moto di rivolta che si è riacceso in Iran dopo la morte di Mahsa Amini (il suo vero nome era Jina, donna in curdo, ma in Iran esiste una rigida lista di nomi approvati dal regime, scelti fra quelli che non offendono la religione islamica; una lista che ovviamente esclude tutti i nomi nelle lingue delle minoranze etniche) segue numerose ribellioni, emerse di frequente, per ondate in tutti questi decenni; e parla di una società civile in aperto conflitto con le imposizioni della Repubblica Islamica. Una realtà umana attraversata da profonde differenze di genere, generazione ed etniche, ma anche da una ritrovata solidarietà e unità fra settori diversi, sempre più accomunati fra loro nell’insofferenza verso il regime. Dalla rabbia delle province curdo-iraniane la protesta si è allargata a tante altre città fuori dalla regione curda. Dal protagonismo delle donne è sorto presto un moto di solidarietà importante dei giovani uomini, simboleggiato anche da gesti più visibili come quello dei calciatori della nazionale di calcio iraniana; e infine la protesta ha riacceso la grande frattura fra la figura del vecchio ayatollah Khamenei, 83 anni, e una popolazione composta in larga maggioranza da giovani, dove oltre l’85% ha meno di 60 anni e l’età media è di 31 anni – in Italia è 46,2 anni. Secondo le autorità del regime, 31 anni sarebbero addirittura troppi: il calo della natalità è stato molto accelerato negli ultimi anni in Iran, e l’età media si è impennata dai 27 anni del 2006 ai 31 anni del 2022. Un dato interessante, perché nonostante gli ossessionati dalla demografia tendano a trascurare in modo sfacciato il punto, dietro i cali della natalità c’è sempre, almeno in parte, una spiegazione da ricercare nella libertà delle donne, nel tentativo delle donne di sottrarsi alla riproduttività come destino obbligato.

La rivolta delle donne iraniane è dunque la punta di diamante di una rivolta più ampia della società iraniana tutta, nelle sue diversità, contro un regime antistorico nelle sue imposizioni e ossessioni che continua a brutalizzare i manifestanti e a perseguitare i dissidenti. Una rivolta che si salda ad altri processi sociali di liberazione dialogando direttamente e indirettamente con loro in modo inedito e – questo è l’augurio – fecondo. La giornalista Barbara Schiavulli ha ricordato in questi giorni le proteste delle donne afghane in solidarietà con le loro sorelle iraniane. “L’Iran è risorto, adesso tocca a noi”, hanno urlato a Kabul e in altre città. E sempre ieri in Campidoglio, con striscioni e cartelloni, la delegazione della comunità curda ha testimoniato il brutale assassinio di Nagihan Akarsel, giornalista e attivista dell’accademia Jineoloji, uccisa davanti casa con 11 colpi di arma da fuoco a Sulaymaniyah, nel Kurdistan iracheno. Dopo l’assassinio i curdi hanno subito individuato il mandante nel regime turco, ricordando come l’uccisione di Akarsel sia soltanto l’ultimo di una serie di attentati rivolti alle attiviste femministe curde, ideatrici e praticanti di una rivoluzione di pensiero e pratica della vita incentrate sul rispetto per le donne e per la loro libertà, che ha influenzato migliaia e migliaia di femministe negli ultimi anni. E che sta influenzando in maniera evidente le proteste del 2022, la cui diversità nei contenuti rispetto a quelle più visibili negli anni precedenti è evidente, e sollecita riflessioni e attenzione. Nel 2009, poco prima che scoppiassero le primavere arabe, gli iraniani dissidenti erano saliti sui tetti gridando Allah Akbar, e la protesta partiva dalla capitale, Teheran. Oggi sono invece le periferie del regime a sollevarsi per prime, e il grido di battaglia non invoca più la divinità maschile, ma trova il suo baricentro nel valore delle donne. “Donna, vita, libertà”.



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