Mappa del nuovo mondo: Antonio Lobo Antunes / Annie Ernaux

In questa puntata: “Non è mezzanotte chi vuole” di Antonio Lobo Antunes (Feltrinelli) e “Gli anni” di Annie Ernaux (L’orma editore).

Andrea Maffei

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Antonio Lobo Antunes, Non è mezzanotte chi vuole, trad. V. Martinetto, Milano, Feltrinelli, 2018
Il portoghese Lobo Antunes è uno degli scrittori più coraggiosi e autenticamente sperimentali della contemporaneità, più volte candidato al Nobel, e trapasserà forse senza averlo ricevuto a causa anche di alcune sue dichiarazioni non esattamente diplomatiche a riguardo: ma è fra coloro che più meriterebbero d’ottenerlo. Non è mezzanotte chi vuole si costituisce di capitoli senza punti fermi oltre a quello che conclude ciascuno di essi. Talvolta la prospettiva narrante muta. Protagonista è una donna che nell’ultimo fine settimana di agosto torna alla casa in cui è cresciuta, poco prima della sua vendita. Il racconto è caleidoscopico, cioè si diffraziona in tempi e spazi diversi, i ricordi debordano l’uno nell’altro, si mescolano, talora un’immagine emerge – le bottiglie del padre, la relazione saffica con una certa dottoressa, i pomeriggi in spiaggia, il matrimonio infelice e, soprattutto, il suicidio del fratello, fitta ricorrente – per poi presto tornare a confondersi alle altre. Come lentamente addormentandosi dinanzi al mare gli ultimi pensieri che sprofondano nel sonno già si mischiano ai sogni e sono accompagnati dalla ineludibile e ritmica risacca delle onde, così questo bruire fa da sottofondo all’intera, assolata narrazione. Mediata da Proust, Freud e Saramago, la scrittura di Lobo Antunes plasticamente mostra come comporre una “storia emotiva”, un racconto cioè all’evidenza plasmato dal modo di ricordare del narratore: e il romanzo che ne risulta non è soltanto il nettare versato dalla brocca, ma anche la forma che esso assume dentro quella. E ancora: Lobo Antunes ci insegna come il tanto sovente menzionato flusso di coscienza non sia affatto lo sfogo dell’artista che, incurante del lettore, gli rovescia addosso, disordinate e spontanee, le sue elucubrazioni (per restare alla lingua portoghese, si pensi al pur celebrato Acqua viva, della brasiliana Clarice Lispector), e nemmeno è un mezzuccio attraverso il quale anche chi è privo di talento può comporre un’opera letteraria; esso non è un bicchiere di acqua da schizzare in faccia a chi legge, ma piuttosto è un fluire fra gli interstizi della storia, tra le fughe delle mattonelle, per raggiungere spazi ai quali un narrare tradizionale, ingombrante, non riuscirebbe a pervenire. Come Picasso dipingeva, talvolta, profili dello stesso personaggio teoricamente incompatibili in una data prospettiva, così il flusso di coscienza di Lobo Antunes ci permette di muovere svelti da un ricordo all’altro, da una stagione all’altra, come fossero adiacenti. Restano memorie con cui non ci si è riconciliati, un dolore recondito ma ancora incomprensibile, e fra questi la consapevolezza che intanto la vita è trascorsa, in un modo o nell’altro, e non la si è capita, e il borboglìo delle onde incessante, che echeggerà ancora, anche quando non sarà rimasto più nessuno ad ascoltarlo, anche quando, tutto attorno, poserà solamente il silenzio. (Consigliato in special modo a chi già conosce l’autore, mentre per chi desideri approcciarvisi si suggeriscono il più “classico” In culo al mondo, per Feltrinelli, o il funereo sudato Barocco di Le navi, per le edizioni Einaudi).

Annie Ernaux, Gli anni, trad. L. Flabbi, Roma, L’orma editore, 2015
Quando finalmente la forma romanzo avrà esaurito – in modo evidente e riconosciuto – il suo potenziale (compimento al quale s’è vicini, ma non è ancora stato consumato), la Letteratura potrà con animo più leggero spingersi verso nuove soluzioni. Una di quelle che potrebbe riscuotere maggiore successo (per affascinanti ragioni che qui non si ha modo di affrontare) è la forma elenco, già di recente talora alla ribalta con alcuni “casi letterari”, come Enciclopedia capricciosa di tutto e di niente, di Dantzig, oppure Venivamo tutte per mare, di Julie Otsuka, o ancora, qui in Italia, Lettori selvaggi, di Montesano. Gli anni, d’una fra le più raffinate scrittrici europee, la francese Annie Ernaux, va appunto in questa direzione. L’intera sua bibliografia è ordinata opera di catalogazione e salvataggio di ricordi intimi, che in questo testo sono, però, calati nel flusso della Storia. L’autrice, infatti, rappresenta una delle generazioni che forse più plasticamente hanno potuto distinguere lo scorrere del tempo, quasi toccarlo con mano. Nata durante il secondo conflitto mondiale, è trascorsa da un mondo in cui ogni buccia di patata era bene prezioso ai traboccanti supermercati del ventunesimo secolo, dalla collisione, in Guerra Fredda, di capitalismo e socialismo fino all’attuale non “scomparsa delle ideologie”, ma piuttosto affermazione del primo sul secondo, con la conseguente sistematica devastazione di tutto ciò che lo sconfitto aveva costruito e rappresentato. Così, con il suo stile conciso, levigato, netto, la Ernaux ci accompagna dalle macerie post-belliche alla guerra d’Algeria, a De Gaulle, e poi al Sessantotto, alle grandi manifestazioni contro l’attacco al Vietnam, all’infame colpo di Stato in Cile, fino alla disillusione degli anni Novanta, e il secolo nuovo che s’apre con l’attentato alle Torri Gemelle. Questa generazione, quella delle contestazioni sessantottine, è infatti collante tra quella di chi quassù in montagna ha combattuto, cioè della guerra, e quella, lontanissima, di nipoti abituati a una realtà che per i bisnonni sarebbe semplicemente stata inimmaginabile. Gli anni non è tuttavia mera rassegna di avvenimenti, né melanconica constatazione di quanto tutto si rinnovi, ma piuttosto tentativo di fare esperienza del tempo che passa, così come chi, avanzando immerso in un fiume e sospinto dalla corrente, se si arresta può sentirne sulla schiena, sui polpacci, la potenza, il flusso. A un mondo dove gli oggetti si trasmettevano ai figli se n’è sostituito un altro in cui è comune dismetterli nel corso di qualche mese (Nessuna delle cose che avevamo attorno durava abbastanza per diventare vecchia […]). Sorgono abitudini, espressioni, idee non più capite e a un tratto si comprende che è impossibile e forse addirittura ingiusto voler tenere il passo. È allora che si inizia a scrivere, fosse anche per salvare soltanto la memoria di un oggetto, di una storia, di una strada, consapevoli che infine verrà il giorno in cui nelle conversazioni attorno a una tavolata in festa saremo soltanto un nome, sempre più senza volto, finché scompariremo nella massa anonima di una generazione lontana.



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