Mappa del nuovo mondo: Jamaica Kincaid / Bob Dylan

In questa puntata: “Un posto piccolo” di Jamaica Kincaid (Adelphi) e “The Bootleg Series vol. V; Bob Dylan Live 1975: The Rolling Thunder Revue” di Bob Dylan (Columbia Records).

Andrea Maffei

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Jamaica Kincaid, Un posto piccolo, trad. F. Cavagnoli, Milano, Adelphi, 2000
Che ne è degli abitanti di quelle splendide isole tropicali nei cui resort i facoltosi e bianchicci turisti occidentali si rifugiano quindici giorni, fra piscine e balli di gruppo, per ritemprarsi da un anno in ufficio? La risposta è che essi sono condannati a vivere in finti luoghi in vero più simili a supermer­cati che a Paesi: concepiti in modo che il cliente venga, compri ciò che vuole, se ne vada soddisfat­to. Jamaica Kincaid ci mostra l’altro aspetto delle vellutate spiagge caraibiche di cui le agenzie turi­stiche qui offrono l’esperienza (prospettiva già tratteggiata dal grande Derek Walcott). La verità è che, appena fuori dal villaggio vacanze (ma anche dentro, se si ha voglia di vederli), sono sfrutta­mento e desolazione, miseria e inganno. Esistono interi Stati assimilabili a scenografie, e basterebbe aggirarle per vedere la realtà, bussarci con le nocche per accorgersi che sono solo cartonato: così è Antigua, il posto piccolo protagonista dell’opera. Occupata dagli inglesi finché conveniva, essa è stata poi da quelli almeno formalmente abbandonata e convertita in paradiso fiscale, patria di alber­ghi a cinque stelle, con governi che, garantendo un piacevole soggiorno a evasori, latitanti, sempli­ci turisti affamati di Caraibi, hanno intanto perpetrato un potere molto distante dalla democrazia, con lo strutturale mantenimento in povertà della stragrande maggioranza della popolazione, immen­so bacino di manodopera a basso costo. Iscrivendosi appieno nella illustre tradizione della letteratu­ra post-coloniale (che idealmente si apre con l’irrinunciabile saggio di Fanon, I dannati della terra), Un posto piccolo è tuttavia più un reportage giornalistico che un pezzo letterario, composto con un linguaggio volutamente rozzo. La voce narrante si rivolge apertamente all’interlocutore maschio, bianco, occidentale, come accompagnandolo a vedere, finalmente, l’autentica Antigua. Il lettore moderato, tuttavia, non ha troppo di cui inquietarsi: il testo infatti manca (colpevolmente) di una analisi autenticamente politica, la quale in realtà si risolve in un’unica frase, la seguente: Sapete perché la gente come me è intimidita dal capitalismo? Ebbene, perché da quando vi conosciamo non siamo stati che capitale […]. Così, senza detta lettura, il tutto si riduce a una sorta di lamenta­zione, di pars destruens che, monca della construens, rischia in ultimo di riuscire sterile. È vero, come qualcuno ha segnalato, che il tono dell’autrice si fa talvolta un poco stridulo, ma ciò è com­prensibile per una indignazione profonda tanto da non essere facile a controllarsi. Che cosa, esatta­mente, indigna? Indigna l’ottusità o la malafede di chi si abbronza sulle spiagge di Antigua e torna negli Stati Uniti o in Europa dichiarandola “un Eden”, senza avere l’intelligenza o l’interesse di comprendere che, a scontare la sua appagante villeggiatura, a poche centinaia di metri c’è chi non ha di che vivere, di che vestirsi. Altra tematica classica della letteratura post-coloniale è il disturban­te paradosso (già in più punti della sua opera ne tratta il maestro Thiong’o) di dovere impiegare, per comprendere il mondo, le categorie culturali dei colonizzatori e, perfino, esprimendo la propria in­dignazione per ciò che sono stati e sono, la loro stessa lingua: in questo caso, l’inglese.

Bob Dylan, The Bootleg Series vol. V; Bob Dylan Live 1975: The Rolling Thunder Revue, New York (USA), Columbia Records, 2002
Con l’assegnazione del Nobel del 2016, l’Accademia Reale di Svezia ha voluto in Bob Dylan pre­miare un genio capace di innovare, a un tempo, Musica e Letteratura. La scelta è stata giustamente sofferta, poiché introdurre a tale onorificenza un cantautore implica, fra i tradizionali parametri let­terari, d’inserirne di inattesi, quelli cioè afferenti alla sfera squisitamente performativa dell’arte (la grandezza di Dylan è d’altronde proprio testimoniata dall’avere “forzato” l’Accademia a tale pas­so). Il punto cruciale è che il testo letterario si mostra tanto profondamente commisto a un elemento che gli è estraneo – la musica, cioè – da non potere più esserne, ragionevolmente, distinto e conside­rato a sé. È vero che questione affine si pone con la drammaturgia, ma qui il tutto riesce ancora più intricato, perché se il copione teatrale è scritto in genere senza precisa contezza di chi andrà a recitarlo (e dunque tale influsso si attutisce), la canzone è composta in concomitanza della musica, così che questa seconda la condiziona addirittura fin dalla sua genesi. Tuttavia la poetica di Dylan non si arresta ancora a una qualità tanto innegabile da condurre alla forzatura sopra detta; egli ci propone una autentica fresca prospettiva con cui approcciarci all’arte: si potrebbe parlare di “arte mobile” o “arte fluida”. La raccolta The Rolling Thunder Revue (anche i titoli dei brani verranno mantenuti in lingua originale) ci è assai utile a spiegare qui ciò che si intende. Essa fa parte della cosiddetta Bootleg series, album contenenti brani per lo più già editi, ma in esecuzioni diverse da quella originale. In questa edizione (la quinta della collana) alcune storiche canzoni risultano persino irriconoscibili. It ain’t me babe è riarrangiata con ritmo sincopato quasi di mambo. La seconda parte di Simple twist of fate segue un testo differente da quello già noto, così come Knockin’ on the Heaven’s door, e anche Tangled up in blue riporta variazioni di versi e di strofe, con addirittura il punto di vista narrativo trasposto dalla prima alla terza persona. La ballata acustica A hard rain’s a-gonna fall è eseguita in un rock-blues che lascia disorientati, così come la antica The lonesome death of Hattie Carroll. Chi conosce Dylan non se ne sorprende: a ogni concerto presenta le sue canzoni in veste totalmente rinnovata, modificandone melodie e parole. Ciò non avviene nel tentativo di migliorarle, ma nell’intima convinzione che la loro stessa natura sia cangiante. Una simile concezione dell’arte è assolutamente innovativa (anche se non del tutto inedita: pensiamo ad Hölderlin) per la letteratura. Si immagini Leopardi che riscrive L’infinito non più a venti, ma a trent’anni: che risultato ne sarebbe scaturito? Ci si figuri Montale a ricomporre i suoi Ossi di seppia a cinquanta, a sessanta, a settant’anni. Nello iato fra l’una e l’altra versione dei suoi brani, Dylan offre la nozione esatta del suo mutamento, della sua ricerca, e ci consegna ancora una nuova visione, una nuova possibilità di bellezza. Che altro, più di questo, si può chiedere a un artista?



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