Mappa del nuovo mondo: Haruki Murakami / Assia Djebar
In questa puntata: “Norwegian Wood” di Haruki Murakami e “Donne d’Algeri nei loro appartamenti” di Assia Djebar.
Andrea Maffei
Haruki Murakami, Norwegian Wood, trad. di G. Amitrano, Torino, Einaudi, 2013
È davvero sorprendente la quantità di superfluo che si trova nei libri del giapponese Haruki Murakami. Esso è nelle descrizioni, ma anche e soprattutto nei dialoghi. Per quanto riguarda le prime, ciò che maggiormente impaccia è non tanto la loro frequenza (in vero piuttosto limitata), ma il carattere dozzinale. Si prenda il caso (purtroppo non noto abbastanza) dello scrittore asburgico Adalbert Stifter, estremamente generoso di descrizioni. Mediante l’accumularsi di dettagli circa un monte, un sentiero in mezzo alla radura o una vetta, egli imprime un ritmo al suo racconto, al quale presto è costretto ad abituarsi anche il lettore: come un ambientarsi all’aria rarefatta dell’alta montagna. In questo processo, per molti versi solenne, è la maestria di Stifter. In Murakami non c’è traccia di solennità e le descrizioni sono tanto superficiali da potere essere anticipate prima della lettura: i capelli saranno belli e lisci, un muro alto, un albero grande, un amico simpatico. Tuttavia sono i numerosissimi dialoghi a costituire il principale punto debole dei suoi romanzi. Sono tanto abbondanti perché servono sì ad alleggerire la narrazione (sovente chi menziona la “leggerezza” di cui parlava Calvino la confonde con inconsistenza), ma anche, crediamo, perché intenzione del testo è di rivolgersi a un pubblico generalista, più abituato ai film che ai libri. A ognuno di questi dialoghi Hemingway dovrà sentirsi tornare a morire: essi sono ingolfati di colloquialismi che sperperano qualsiasi pathos si fosse in precedenza potuto creare, retorica, lungaggini, ripetizioni. In Norwegian Wood – con Kafka sulla spiaggia (pur nella loro diversità) i due lavori più celebrati di Murakami – sono poi riportate alcune lettere le quali, richiedendo all’autore la mimesi d’una scrittura ancora meno accurata della sua (quella di due adolescenti che colloquiano), ribassano ulteriormente di qualità. Per necessità di spazio non possiamo trascriverle, ma a titolo esemplificativo suggeriamo al lettore il capitolo quinto, in cui tale ridondanza è tanto smaccata da assumere tratti persino comici. Così, la tecnica più agevole di leggere Murakami sembra essere quella di saltare a due o tre righe per volta, sbirciando fra le parole quel che intanto succede. Né ciò va imputato al traduttore Amitrano, che quando ha lavorato, per esempio, su Kawabata ha potuto trarne ben altri risultati (il suo saggio a inizio volume è peraltro fra le note migliori dello stesso). Tanto Norwegian Wood quanto Kafka sulla spiaggia sono romanzi di formazione. Ma i personaggi non riescono mai ad essere davvero tridimensionali, invariabilmente o macchiette (in Kafka Ōshima, Hoshino, Nakata) o nude funzioni narrative (in special modo palese nel Wood). Anche dell’eroe protagonista non riusciamo a sentire il coinvolgimento, la sofferenza della Ricerca invece presente nelle opere di un vero maestro di romanzi di formazione qual era, ad esempio, Hermann Hesse. Perché dunque accostare Murakami al Nobel, se non è per lo stile, non per la narrazione, non per la lingua, non per la tecnica, non per la novità? Magari qualche lettrice o lettore di MDNM ce lo saprà spiegare.
Sono in special modo felice che questa recensione, scritta ormai mesi fa, esca in concomitanza con le proteste libertarie – in gran parte femminili – dell’Iran. A chi ovunque si ribella e batte per una società migliore – dalle università nostrane alle piazze in capo al mondo – vanno il mio pensiero, la mia riconoscenza, il mio sostegno. (A.M.)
Assia Djebar, Donne d’Algeri nei loro appartamenti, trad. di G. Turano, Firenze, Giunti, 2000
“L’odio!”, soffiò il pittore portando tè e whisky contemporaneamente. “L’odio lo succhiamo insieme al latte delle nostre madri sfruttate!… Non hanno capito niente: non è solo il colonialismo l’origine dei nostri problemi psicologici; c’è anche il ventre delle nostre donne frustrate!… Noi siamo condannati fin dallo stadio fetale!”
Queste poche battute mostrano bene quale avvitamento di problematiche sussistesse in un Paese quale l’Algeria, a oltre un quindicennio dalla sua vittoriosa e sanguinosissima guerra di liberazione contro la Francia. Quest’ultima reca un suo retaggio di oppressione, ma ad esso va aggiunto il gravame delle tante proibizioni religiose, dal divieto di consumo d’alcolici a tutte quelle, ben più pesanti, riguardanti la libertà femminile. La loro infrazione, peraltro, porta con sé un senso di colpa che pare ormai nei singoli individui interiorizzato. Nella sua ibrida raccolta di novelle-saggi, di novelle-ritratti, l’algerina Assia Djebar ci guida attraverso il suo Paese in un arco temporale che va dal 1958 (a guerra ancora in corso) al 1978 (con l’Algeria repubblica socialista – ma a partito unico – non allineata). Il punto di vista presentato è sempre quello della donna, l’esclusa per eccellenza: la quasi totalità delle scene si svolge in interno, laddove ella è confinata. Così l’aveva veduta il pittore Delacroix negli anni Trenta dell’Ottocento, realizzando il dipinto da cui la raccolta assume il titolo: in una fantasia intossicata di pregiudizi, orientalismo d’accatto e suggestioni da Le mille e una notte (per approfondire il tema immancabile sarà il saggio Orientalismo di Edward Said), le donne sono bestie rare conservate in magici luoghi riposti, gli harem, tra gioielli favolosi, babbucce, tessuti pregiati, narghilè e penombra odorosa di spezie. Nelle loro pose, nei loro sguardi stanchi e allungati un qualcosa di erotico, ma anche di morboso, un banale fascino del proibito, che infatti è serrato in una stanza. L’autrice vorrebbe una rilettura e una liberazione, esistenziale e politica, della donna in Algeria e nella società in genere, così come Picasso rilegge Delacroix in quindici tele e due litografie colorate, festose, libere, con le pareti in parte dissolte (Picasso ha sempre desiderato liberare le belle dell’harem., commenterà il suo biografo Pierre Daix). Le pagine della Djebar pullulano di storie di donne che sono in vero ogni volta la stessa: l’ambìto temuto matrimonio, le consuetudini, l’agguato della vergogna, del disonore, l’incolmabile distanza con gli uomini, attraverso cui è sempre più difficile comunicare, le parole bisbigliate fra una camera e l’altra, dietro gli scuri che appena lasciano filtrare il luminoso, feroce ardore meridiano. A coronare la raccolta è una stimolante postfazione dell’autrice, che per studiare la donna algerina utilizza la storia, la psicanalisi, l’arte. Della stessa Djebar si suggerisce anche il saggio Queste voci che mi assediano, dedicato a uno dei problemi più insidiosi e costanti della cosiddetta Letteratura post-coloniale: la condizione di scrivere nella lingua del proprio colonizzatore (tema che MDNM affronterà in futuro in maniera più compiuta, forse con Decolonizzare la mente del kenyota Ngugi wa Thiong’o).
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