Mappa del nuovo mondo: Tomas Tranströmer / Alice Munro
In questa puntata: "La lugubre gondola" di Tomas Tranströmer e "Nemico, amico, amante…" di Alice Munro
Andrea Maffei
Tomas Tranströmer, La lugubre gondola, Biblioteca Universale Rizzoli, 2011, a cura di Gianna Chiesa Isnardi
Questa breve raccolta di liriche – diciotto componimenti, compresa una prosa poetica – costituisce una delle opere più apprezzate dello svedese Tomas Tranströmer, premio Nobel per la Letteratura nel 2011. Il lettore è colto di sorpresa da un sapore orientaleggiante che qui e là esala dai versi. I testi sono difatti per lo più lacerti, epifanie, in una atmosfera che ricorda direttamente gli haiku giapponesi, e una piccola sezione è intitolata appunto Poesia haiku. Perché questa scelta? Tale antichissima forma poetica (datata XVI secolo) si sviluppa come la più adatta ad afferrare (carpere) i minuscoli e spesso impercettibili prodigi che la Natura offre. Nell’introduzione all’antologia scelta Cento haiku, edita per Guanda (2013), Irene Iarocci scrive: «L’arte, e dunque anche lo haiku come espressione letteraria, deve saper cogliere nell’essenza il fascino raccolto di un evento minimo, semplice, naturale; saperne apprezzare la quiete, la non appariscenza, la modestia o la sottile, delicata “tristezza”». Chi possieda una qualche familiarità con la grande letteratura scandinava (si pensi, ad esempio, a Pan, di Knut Hamsun), sa bene quale centralità in essa rivesta non solo la Natura, ma in special modo il Silenzio della Natura. Appunto l’ovattato, abbagliante Silenzio naturale è il suono che il poeta intende qui restituirci, mirabilmente contaminando alla Scandinavia l’Oriente nipponico. In questo innevato spazio di vuoto si traudisce lo sferragliare di un treno scuro che passa ed ecco è già lontano, si ode il canticchiare dei ciliegi, la voce di un cuculo e finalmente si scorgono dettagli finora mai osservati: la primavera che giace deserta, coi suoi fiori gialli, il sole che scivola dietro il muro della casa, una coppia di libellule che, strettamente avvinghiate l’una all’altra, volteggiano. Quasi alle spalle di questa poetica scorre una musica di pianoforte, un ricordo di Venezia, un certo – a questo punto comprensibile – gusto per il simbolismo: la raccolta assume infatti il titolo dal brano che Franz Liszt compose turbato dalla recente morte, a Venezia, di Wagner (peraltro suo genero). La processione funebre partì appunto in gondola, dalla stazione di Santa Lucia. Così è il risuonare del piano, ambiguo, anche angoscioso, che incornicia lo stupefatto Silenzio, i piccoli miracoli naturali di Tranströmer, che in poche pagine sa condensare una tale abbondanza di spunti, di richiami, di suggestioni.
Alice Munro, Nemico, amico, amante…, Einaudi, 2003, traduzione di Susanna Basso
Due ragazzine scrivono, per scherzo, alla domestica finte lettere d’amore da parte del padrone di casa, il padre di una di loro, finché il gioco non sfugge di mano, la cameriera lascia tutto e parte per raggiungerlo, l’uomo inconsapevole di quanto a nome suo è accaduto. La moglie di un professore, già malato incurabile, lo scopre suicida e, raccogliendo il biglietto che ha lasciato, constata come le estreme parole del marito siano state non per lei, ma volte a polemizzare, ancora, nella disputa scientifica che lo ossessionava. Un docente universitario ricovera la moglie malata di Alzheimer e presto s’avvede che questa, non ricordandolo più, s’è unita in una relazione con un altro degente. Durante un viaggio una donna va a letto col dottore al quale il marito l’ha affidata, e seguita tutta la vita a rammentare quegli istanti, forse i soli autentici esperiti. Per la poetica della canadese Alice Munro, premiata col Nobel nel 2013, è insomma dalla narrativa che si parte, per assurgere alla Letteratura. Questi nove racconti, fra i più ammirati, per certe atmosfere e in parte anche per stile s’avvicinano all’ultimo Carver (o forse sarebbe più corretto dire: al Carver non distillato da Gordon Lish), anche se i personaggi di Munro sono solitamente di estrazione sociale più elevata, ma soprattutto più colti. Ecco che il loro modo di sopportare, di contemplare il Dolore risulta a sua volta influenzato da questa cultura, è più sovrastrutturato, meno diretto, forse, di quello di Carver, ma altrettanto desolante. Le figure di Munro (da questo punto di vista la raccolta presenta grande uniformità) si aggirano per borghesi esistenze di amara solitudine e insieme compongono famiglie non in grado di svellere, tutt’al più di alleviare questa sensazione. Tutto ciò non viene affermato, ma lasciato presagire. Se il romanzo può permettersi la costruzione di imponenti strategie e ha modo in certo senso di vincere la sua partita “per accumulazione”, il racconto breve (così come inteso nella modernità) è invece obbligato ad affermarsi per mezzo di qualche sorprendente combinazione tattica. Non solo: se il romanzo ha modo di illustrare pazientemente i caratteri di un protagonista, gli effetti a lungo termine d’una situazione, la novella è costretta non a rinunciarci, ma a proiettarli, come ombra, oltre di sé, a farli intuire. Ciò da un lato è vantaggioso, nel senso che lo scrittore di racconti è libero dal peso di “argomentare”, e rimanda il tutto alla vaga immaginazione (non si descrive la Felicità oltre il colle, che rischia in fondo d’essere banale, ma la si affida alle fantasticherie) del lettore. D’altro canto, però, l’evocazione di dette suggestioni, senza lo spazio per potere ordinatamente convocarle, presuppone qualità niente affatto ovvie: ché in pochi tratti occorrerà non tracciare, ma suggerire un’atmosfera, le contraddizioni di un personaggio, il risentimento di un altro, l’ingenuità votata a martirio, infine, di un terzo. I brevi racconti di Alice Munro proiettano ombre di possenti romanzi.
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