Mappe del nuovo mondo: Carol Oates, William Auld e Nicolino Rossi

In questa puntata: "L’età di mezzo", "La specie bambina" e un contributo originale del poeta Nicolino Rossi.

Andrea Maffei e Nicolino Rossi

Joyce Carol Oates, L’età di mezzo, trad. di A. Biavasco e V. Guani, Milano, Mondadori, 2004

La morte dello scultore Adam Berendt, durante una lussuosa festa la notte del quattro luglio, nel tentativo di salvare una bambina dall’annegamento, sconvolge i rappresentanti del piccolo ecosiste­ma che è l’alta società di Salthill-on-Hudson. La statunitense Oates esige ogni volta dal suo pubbli­co uno sforzo, non fosse altro che per la mole di pagine che solitamente rappresentano i suoi volu­mi, e anche qui non fa eccezione, ponendo come a guardia del romanzo una prima cinquantina (al­meno) di pagine decisamente fiacche e francamente scoraggianti. Chi le supera, però, ne è lauta­mente ricompensato. Scrivere sulle miserie della borghesia è esercizio sicuramente facile – il bersa­glio troppo grosso per essere mancato -, ma non per questo meno soddisfacente e per l’autore e per il lettore (in Italia il miglior romanzo sulla piccola borghesia è ancora Il maestro di Vigevano di Ma­stronardi, per la media senz’altro Gli indifferenti di Moravia, mentre per quella alta più in difficoltà diremmo forse Il piacere di D’annunzio). È proprio questo che L’età di mezzo offre: non un’alta Letteratura, non frasi tornite e magnifiche, non lavoro di cesello come quello, per restare alla lingua inglese, ad esempio di Marilynne Robinson o di Kazuo Ishiguro, e neppure un canto delle piccole cose come (ancora attenendoci all’inglese) con Lydia Davis, no, qui al lettore si propone invece un’ampia, godereccia Narrazione, nel suo senso più alto e nobile. Davanti gli si estende il panorama di queste donne ricche devastate dalla solitudine e dall’insoddisfazione sessuale, afflitte da una tendenza alla logorrea che è quasi un tic, con mariti misteriosamente lontani e figli ormai adulti che le hanno deluse, di questi avvocati e imprenditori e primari e docenti ordinari di mezz’età che s’innamorano della massaggiatrice o della cameriera o della babysitter e abbandonano la moglie e poi vi tornano umiliati e offesi, traditi, disillusi, e a loro volta le donne sempre spaventate che il ma­rito le lasci per una ragazza dell’età di loro figlia, sempre sull’orlo d’una crisi isterica, dipendenti da antidepressivi, iscritte a corsi di teatro o scrittura creativa per il cui giovane professore cadranno in un amore imbarazzato e puerile, e sugli uni e gli altri lo spietato rancore dei figli che passano un weekend col padre e uno con la madre, e trovano ridicole le pose giovanilesche del primo, le facili, patetiche commozioni della seconda. E ancora il bisogno d’approvazione sociale, il perpetuo pub­blico fingersi appagati, felici, persino, le serate di beneficenza, le donazioni al Partito Democratico (statunitense (?)), gli investimenti non sempre fortunati, non sempre leciti, la paura di restare soli, Che cosa vogliamo gli uni dagli altri, in fondo? Tutto questo reciproco “raccogliersi”, questo “col­lezionarsi”. Come si vede, insomma, il libro si scrive da sé, ma nel guidarlo, trasformarlo in affre­sco sociale (le speculazioni sull’identità di Berendt sono invero solo un pretesto, il filo conduttore fra i personaggi) è la sontuosa abilità di Joyce Carol Oates, il cui romanzo è da collocarsi fra i mag­giori statunitensi di inizio secolo, con poco da invidiare ai capolavori del compianto Philip Roth.

 

William Auld, La specie bambina, trad. di N. Rossi, Edizioni Nemapress, Parma, 2017

Si immagini di dovere comporre l’opera letteraria fondativa d’una lingua. Quali parole pronunciare per prime, con quali temi, con quale stile iniziare? È questa pressapoco la sfida che s’è trovato in­nanzi il poeta William Auld (1924-2006), quando all’inizio degli anni Cinquanta si cimenta con la composizione di La specie bambina, intesa come primo grande poema di lingua esperanto. Scozze­se di nascita e ancora traumatizzato dall’esperienza del secondo conflitto mondiale, egli impara l’esperanto che però – occorre precisarlo – non è una comune, qualsiasi lingua, ma qualcosa davvero di più speciale, di più alto, diremmo. Inventata tra gli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento dal lin­guista polacco Ludwik Zamenhof, essa è intesa essere strumento di pace e unione fra i tanti popoli del globo, divisi all’epoca dai rampanti nazionalismi di cui, purtroppo, non sono più riusciti a libe­rarsi. L’esperanto (nell’obiettivo non di soppiantare i già esistenti idiomi, ma di affiancarli) trascen­de così i termini di semplice mezzo di comunicazione e si erge a visione del mondo, ad atto politico, a utopia. Ora, Auld sente su di sé il peso d’essere pioniere, capostirpe. In quanto tale, la sua prima occupazione – a volte anche tradendo una certa ansietà – è quella di porre il più possibile i suoi di­scendenti al riparo. Quale accusa più facile e scontata all’esperanto se non quella d’essere prodotto artificiale, senza storia e anima e pertanto inadatto alla Letteratura? Auld suddivide il suo poema in venticinque canti (per un totale di millecinquecentosettanta versi), nell’ambizione di narrare l’uma­nità attraverso alcuni temi generali: il suo rapporto con la Storia, con lo Stato, con la guerra, con la religione, col sesso. Si tratta di un poemetto soprattutto didascalico, con la volontà cioè di fornire a chi legge un ammaestramento. Ma il vero interesse dell’autore è la forma: desidera dimostrare, esi­bire la versatilità e la resistenza dell’esperanto. Abbiamo versi lunghi e brevi, regolari e irregolari, quartine e strofe eterodosse, calligrammi, rime baciate e alternate, e ancora testi espressionisti, sim­bolisti, ora immagini bucoliche e poi mistiche, poesia per così dire argomentativa (influenzata da Pound), intima, prosaica, ironica. Con tale incessante variare di metro, di struttura, d’argomento e stile, Auld (che a lungo ma invano si vagheggiò riuscisse a guadagnare all’esperanto il suo primo Nobel per la Letteratura) è quasi testasse le fondamenta del palazzo in cui i suoi epigoni vivranno, e a loro rammenta: Oggi ci resta/ non la fine ma l’inizio. Il sogno dell’esperanto (quello della pace mondiale, dell’amicizia e cooperazione fra i popoli) non è – né nessun simile sogno può mai esserlo – estinto e ancora oggigiorno prosegue. La Federazione Esperantista Italiana, attraverso la gentile collaborazione del suo presidente Luigi Fraccaroli, offre oggi ai lettori di MDNM e Micromega un regalo prezioso: il contributo originale del poeta Nicolino Rossi, traduttore in italiano del poemetto di Auld. Per noi tratteggerà il percorso di nascita e sviluppo della lingua esperanto, nonché de La specie bambina. A tutti coloro che hanno reso possibile questo progetto va la nostra più sentita e sincera riconoscenza.

Andrea Maffei

 

L’Esperanto

(dal sogno di un bambino a lingua di scrittura letteraria)

di Nicolino Rossi

Il sogno di un bambino, nato verso la metà del diciannovesimo secolo in una famiglia ebrea nella Polonia orientale, dà inizio ad un’avventura affascinante che dura tuttora: è l’avventura della Lingua internazionale Esperanto. Il fanciullo è Lejzer Ludwik Zamenhof che nasce il 15 Dicembre 1859 a Bjałystok, nella Polonia orientale, allora sotto l’impero russo, primogenito di Markus e Rozalija Sofer. Il piccolo Lejzer sarà quel giovane medico oculista, che sotto lo pseudonimo di Doktoro Esperanto pubblicherà, nel luglio del 1887, un libricino grigio di una quarantina di pagine dal titolo, in russo e nella nuova lingua: Lingua internazionale. Prefazione e manuale completo. Per russi. – Varsavia, Kelter, 1887. Questo suo progetto di lingua pianificata, basato sul lessico delle più importanti lingue europee, verrà ben presto conosciuto col nome di lingua del Dottor Esperanto, o semplicemente lingua Esperanto. Il sogno di una lingua unica per tutta l’umanità prende vita nella mente del piccolo Lejzer fin dalla primissima infanzia. Mentre riceve in famiglia un’educazione fondata su principî etici che gli uomini siano tutti fratelli, il tessuto sociale della piccola Bjałystok, in cui vive, mostra il volto contrario.

Conflitti e dispute sono uno scenario frequente sulle strade della piccola città con una popolazione composta di etnie diverse: polacchi, ebrei, tedeschi, russi, lituani. Educato in una famiglia plurilingue, il piccolo Lejzer è sensibilissimo all’elemento linguistico che permea il tessuto della comunità urbana che lo circonda. In casa, il padre Markus, insegnante di tedesco e francese, parla russo mentre l’yiddish è usato dalla madre Rozalija. In tenera età Lejzer già parla correntemente il russo, il polacco, il tedesco, ha un’ottima conoscenza del francese e sa leggere l’ebraico della Bibbia.

Già verso i sei anni, Lejzer nota quanto sia diversa la realtà fuori dalle mura di casa, e ne sente profondo dispiacere, quasi un intimo “dolore per il mondo” per le continue dispute, anche sanguinose che scoppiano qua e là nella città. Lo sconforto di un bambino, per una tragedia umana più grande di lui, gli suscita un solo sogno incrollabile: “Quando sarò grande, farò una lingua facile e semplice, uguale per tutti, perché tutti possano capirsi”. Questo sogno segreto accompagna la sua adolescenza e giovinezza di liceale a Varsavia, ove impara anche il greco, latino ed inglese, e lo spinge allo studio e ricerca di una lingua mondiale basata sul patrimonio lessicale delle più conosciute lingue europee, strutturato in una grammatica semplificata all’essenziale. Così fra il 1878 ed il 1887, attraverso tre stadi successivi di elaborazione, egli giunge alla stesura definitiva della nuova lingua pianificata che lui chiama Lingvo internacia, ossia Lingua internazionale.

Pronta la lingua, bisogna lanciarla. La pubblicazione del Unua libro, il Primo libro della Lingua internazionale, avviene il 26 luglio 1887 a Varsavia, dopo aver superato difficoltà finanziarie e di censura: da quel giorno il sogno del fanciullo di Bjałystok è realtà: l’Esperanto vive, si diffonde, si arricchisce, diventa nel volgere di pochi decenni lingua di comunicazione e di scrittura creativa per centinaia, migliaia di parlanti in tutti i continenti, appartenenti alle culture più diverse. Soltanto dopo diciotto anni di esistenza, un nulla nella vita di una lingua, ha luogo un primo raduno internazionale di quasi 900 esperantisti, a Boulogne-sur-Mer, in Francia, nell’agosto del 1905. È il primo Universala Kongreso, ossia Congresso Mondiale dei parlanti di questa lingua. Fino a quel momento un mezzo di comunicazione essenzialmente scritto e raramente parlato riceve qui la sua investitura anche di lingua orale, chiara e di gradevole sonorità. I Congressi Universali di Esperanto si susseguiranno ogni anno, spesso con migliaia di partecipanti, con le sole interruzioni delle due grandi guerre, in città diverse del globo. L’Italia avrà l’onore di ospitare, quest’anno, il 108° Congresso Universale di Esperanto, a Torino dal 29.07 al 05.08.2023.

Gli esperantisti, organizzati in numerosi gruppi locali, nazionali e transnazionali, associazioni di categoria, nel corso di poco più di 130 anni hanno conosciuto molti traguardi prestigiosi: all’Esperanto sono venuti riconoscimenti dalla Società delle Nazioni negli anni 1921-22; risoluzioni dell’Unesco ad esso favorevoli, nelle Assemblee Generali di Montevideo 1954 e di Sofia 1985, status di relazioni consultive della Universala Esperanto-Asocio con l’ONU, nei decenni più recenti. Tuttavia il movimento esperantista ha vissuto anche persecuzioni ad opera di regimi totalitari, con molti inevitabili martiri: fra questi i familiari del Dott. L. L. Zamenhof, il figlio Adamo fucilato dai nazisti nel 1940, le figlie Lidia e Sofia morte, qualche anno dopo, nei nefasti forni crematori del regime hitleriano. Non meno crudeli ed infondate, verso molti semplici esperantisti, furono le purghe staliniane in Russia: Eugenio Miĥalski (1897-1937), il poeta esperantista russo, cantore dell’amore, della rivoluzione proletaria e dei nobili sentimenti, fu giustiziato nel 1937, dopo l’abituale processo farsa di quel regime.

Tuttavia una lingua-ponte, un codice di semplice comunicazione transnazionale, diventa ben presto una lingua di espressione letteraria. Lo stesso Dott. L.L. Zamenhof intuisce subito che la nuova lingua va consolidata ed arricchita con la creazione di testi letterari di ottima qualità, e soprattutto, con traduzioni di opere classiche dalla letteratura mondiale. Pertanto, dedica fin dagli inizi molto impegno alla traduzione letteraria, scegliendo opere teatrali che possano essere anche declamate, e se recitate, diventino modello orale di una lingua ancora poco parlata. Appaiono le sue traduzioni in Esperanto di Amleto di Shakespeare (1894), L’ispettore generale di Gogol (1907), Ifigenia in Tauride di Goethe, I masnadieri di Schiller,  Giorgio Dandin di Molière (1908).

Fin dai primi anni del Novecento, scrittori e poeti di etnie diverse, dotati di notevole talento creativo, cominciano ad utilizzare l’Esperanto per comporre opere originali in prosa e poesia, raggiungendo ottimi livelli di espressività ed innovazione linguistica: tali sono gli scrittori Antoni Grabowski (1857-1921) e Kazimierz Bein (1872-1959), per citarne solo due. C’è ben presto un fiorire di correnti letterarie esperantofone e si sente la necessità di fondare organi di stampa che ne guidino le linee creative. Nascono le prime riviste culturali in Esperanto: la prima sarà La Revuo (la Rivista) redatta a Parigi dal 1906 al 1914 anche con la collaborazione di Zamenhof. Nel 1922, a Budapest, nasce una delle più prestigiose riviste letterarie in Esperanto, col titolo di Literatura Mondo, (Mondo Letterario) che sarà anche un’Editrice nel campo della letteratura esperanto, sotto la redazione attenta e puntigliosa di un geniale poeta, scrittore, traduttore e grammatico esperantista, l’ungherese Kálmán Kalocsay (1891-1976), attorno alla quale graviteranno, per un ventennio, le migliori penne della scrittura creativa, tanto da essere chiamato il periodo della Scuola di Budapest, nella storia della letteratura originale esperanto.

La Seconda guerra mondiale spegne o frena molte relazioni culturali, ma già negli anni cinquanta c’è un rigoglioso fiorire di scrittori e poeti che compongono in esperanto. Primeggia fra questi lo scozzese William Auld (1924-2006), che pubblica nel 1952 le sue poesie in esperanto nel volume Kvaropo (Quartetto), assieme ad altri tre poeti esperantofoni dell’area britannica, con innovazione di lessico ed espressività poetica, tanto da far parlare di una Scuola scozzese nella letteratura esperanto.

Il suo salto di qualità e l’ascesa nell’Olimpo dei massimi poeti esperantofoni, è la pubblicazione, nel 1956, del poema in venticinque canti La infana raso (La specie bambina). Il poema fu accettato dal pubblico e dalla critica con entusiasmo e per la novità stilistica e per l’attualità dei contenuti. In venticinque capitoli, o canti, con tecniche poetiche più disparate, Willam Auld esamina l’uomo con le sue complesse ideologie, da vari approcci etici sociali, politici e religiosi. Religioni e caste privilegiate subiscono l’inequivocabile sferza, ironica e satirica, dell’ateo convinto, ma dal volto umano. Auld non perde mai di vista, nel suo poema, un punto focale fermo e saldissimo: il futuro dell’umanità minacciata da pericoli materiali ed ideologici. Egli considera l’uomo un bambino che avrebbe la possibilità di farsi adulto e raggiungere la maturità, se soltanto crescesse moralmente ed evitasse i continui incombenti pericoli. Nei decenni successivi, la sua copiosa produzione poetica, il suo qualificato impegno di saggista, critico letterario e raffinato traduttore consolideranno la sua meritata fama, tanto che i movimenti culturali esperantisti più sensibili lo candideranno al Premo Nobel per la letteratura. Il suo prestigio di poeta e scrittore esperantofono è talmente indiscusso che il suo poema maggiore, La infana raso, comincia ad essere tradotto in alcune delle più diffuse lingue nazionali.

In previsione di celebrare degnamente il decimo anniversario della sua morte che cadeva a settembre del 2016, il sottoscritto ha cominciato a lavorare, già qualche anno prima, alla completa versione poetica italiana del poema, con l’ausilio e il consiglio, preziosi e costanti, del Prof. Carlo Minnaja. Il volume bilingue dal titolo La infana raso/La specie bambina è stato pubblicato da Edizioni Nemapress, Alghero 2017, ISBN 978-88-7629-166-1, nel maggio del 2017, grazie alla sensibilità culturale ed all’apprezzamento della sua titolare, la Prof.ssa Neria De Giovanni, nota scrittrice, editrice e critico letterario, alla quale va, sincera, la mia profonda gratitudine.

 

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