Mappe del nuovo mondo: Caryl Churchill e Jon Fosse

In questa puntata: "Settimo cielo – Top girls" e "Teatro".

Andrea Maffei

Caryl Churchill, Teatro (Settimo cielo – Top girls), trad. di R. Duranti e M. Rose, Milano,Costa & Nolan editori, 2005

Si immagini un’autrice o un autore che non lesinino al pubblico le proprie qualità ma anzi generosamente le elargiscano, anche al rischio di sprecarne qualche dose. Il coraggio di una messa a disposizione totale del proprio talento., scrive la professoressa Laura Caretti introducendo Teatro (Settimo cielo – Top girls) della drammaturga britannica Caryl Churchill (non è parente). Tutti i suoi lavori sono in pubblicazione per la casa editrice Editoria & Spettacolo, che con un vero colpo di genio ha deciso di presentarli (al momento è a sette volumi) non in ordine cronologico, ma attraverso una successione per così dire puramente estetica. Poco conosciuta in Italia, purtroppo, si tratta di un’artista della quale suggeriamo addirittura la lettura dell’opera omnia. In ogni sua pièce, infatti, l’autrice profonde tutti i suoi sforzi al fine di trasformarla in qualcosa di spiazzante, nuovo, eccezionale. Prendendo solo il primo volume della detta collana, troviamo ad esempio il dittico di Cuore lontano, con lo spettacoloso collasso o impazzimento del classico testo teatrale, troviamo la distopia di Lontano lontano, la denuncia politica di Sette bambine ebree e di Abbastanza sbronzo da dire ti amo?, il teatro dell’assurdo di Otto stanze e Due notti. Lettore o spettatore che sia, si alzerà dalla sedia a volte entusiasta, a volte divertito, altre abbacinato, infuriato, soddisfatto, disgustato, ma mai annoiato o indifferente: poiché la Churchill è, usando una formula sportiva, una che gioca per lo spettacolo, e che laddove inciampa è per avere osato troppo, non troppo poco. I suoi due lavori più rappresentativi sono forse proprio Settimo cielo e Top girls. Il secondo siede attorno a un tavolo donne, celebri o meno, di diversi periodi storici (abbiamo ad esempio la papessa Giovanna o Isabella Bird), le quali confrontandosi osservano quanto limitatamente sia mutato il destino d’oppressione che tanto spesso tocca al loro sesso. Il primo è invece la parodia di una famiglia inglese colone (da leggere anche in chiave anti-thatcheriana) in una imprecisata terra d’Africa. Al di là delle trame, però, è la forma ad esser scoppiettante. In Top girls l’autrice introduce un segno grafico (/) con cui indicare che, in corrispondenza di quelle battute, le voci si sovrappongono. Ciò restituisce all’ascolto, ma anche alla lettura una impressione di vivacemente autentico. In Settimo cielo, poi, molteplici sono gli artifici stilistici e scenici impiegati. Anzitutto, se il primo atto è ambientato nell’età vittoriana, il secondo, pur mantenendo alcuni personaggi, ha luogo nella Londra del 1979. I ruoli sono poi incrociati, per esempio con un uomo a interpretare l’impeccabile moglie vittoriana. Si hanno inoltre rapidi cambi di scena, sorprese e pure momenti cantati, in una allegria brillante che fa tornare alla mente il grande drammaturgo austro-ungarico Johann Nestroy. Se poi è vero che il secondo atto non rispetta le aspettative, il primo è addirittura pirotecnico e si conclude con l’acme del pathos. Di opera in opera temi, stili e forme mutano radicalmente, trasformando il teatro di Caryl Churchill in un mandala di idee, suggestioni, immagini in incessante ebollizione.

Jon Fosse, Teatro, trad. di G. Perin e F. Ferrari, Spoleto (PG), Editoria & Spettacolo, 2006

Sul norvegese Jon Fosse chiudiamo il dittico con cui, per la prima volta, MDNM si accosta alla drammaturgia, e si può dire ch’egli per certi versi rappresenti la nemesi della Churchill. Se entrambi conoscono la sfiducia della Letteratura moderna nel linguaggio, ne traggono poi conseguenze opposte. La Churchill inclina verso una sovrabbondanza, anche a volte caotica, barocca della lingua e dei suoi espedienti, mentre Fosse la asciuga fino all’osso in un minimalismo o realismo integrale. Dichiareremo subito che, fra i due, noi parteggeremo per l’inglese, ma la scelta di Fosse, del resto consapevole, è interessante e degna di rispetto: Sono uno scrittore fortemente critico della lingua. Intendo dire che le cose più importanti non possono essere dette (né in un dialogo espresso con il linguaggio quotidiano, né con quello concettuale) – e proprio in questo consiste la mia arte poetica: dire l’indicibile. Il manifesto del suo teatro può essere individuato in una magnifica battuta del dramma La ragazza sul divano: Dovrebbe esserci solo silenzio/ nel canto. I drammi di Fosse son completamente spogli, pochissimi personaggi non caratterizzati (spesso sul copione indicati solo con Lui, Lei) e quasi sempre in trame che, quando esistono, risultano altrettanto scarne. I dialoghi poi (privi di punteggiatura, brevi, quasi versicoli), non mimano, ma riproducono in toto quelli reali. Ed è qui che ci sembra di riscontrare la prima criticità. Perché se Beckett almeno aveva, deprivati i suoi testi di trama e spesso pure di forma, mantenuto per lo meno una dimensione allegorica, pare che Fosse tenti di superare anche questa. Nella ripetitività delle battute, negli iterati Già, Beh, Eh già dei personaggi, nel loro non solo non saper dire, ma neanche significare sta l’equivalente letterario di ciò che in pittura erano Robert Ryman o Lucio Fontana. Se da una rappresentazione della Churchill lo spettatore esce, comunque sia, sazio, spesso lascia invece un’opera di Fosse ancora affamato. A nostro avviso tale realismo linguistico integrale funziona assai bene o laddove è giustificato dalla storia (Il nome, E la notte canta) o dove assurge a metafora (Qualcuno arriverà, La ragazza sul divano), ma irrita se è fine a sé stesso (Sogno d’autunno, Inverno). Il secondo punto che non ci convince del tutto è squisitamente teorico e, diremmo, filosofico. Le riflessioni circa l’impossibilità di dire risalgono già al secolo scorso e sono state ormai enucleate nei capolavori del già citato Beckett, nonché in quelli dell’esistenzialismo francese. Nel lungo periodo urge tuttavia una scelta. O ci si dichiara sconfitti, e allora si cessa di scrivere, o vincitori, e si cerca di infonder nuova vita (eroismo beethoveniano), nuovo significato alla Letteratura, all’Arte, cioè di riflesso al proprio Tempo. Ristare nel “dico che non posso dire niente” è ciò che Nietzsche avrebbe e ha spesso definito decadenza. Ci sembra, concludendo, che Fosse sia fra i cento più distinti e illustri e capaci esponenti di una corrente culturale e letteraria molto rappresentativa della nostra contemporaneità e che però, per parte nostra, accogliamo solo parzialmente.

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