Mappe del nuovo mondo: Márcia Theóphilo e Titos Patrikios

In questa puntata: “Amazzonia verde d’acqua” e “La resistenza dei fatti”.

Andrea Maffei

È possibile anzi probabile che prima dell’uscita della prossima puntata di MDNM l’Accademia di Svezia proclami la vincitrice o il vincitore del Nobel per la Letteratura 2023. Quali sarebbero i nostri favoriti? Dopo la scomparsa di Kundera, che sicuramente l’avrebbe meritato (ma segnaliamo anche quelle, dolorose, dei due ex-jugoslavi – poi rispettivamente statunitense e croata – Charles Simic e Dubravka Ugrešić), restano le opzioni già contemplate un anno fa: anzitutto quelle del siriano Adonis e del kenyota Ngugi wa Thiong’o. Un’altra via, per l’Accademia, sarebbe quella di affrontare di petto, finalmente, il famigerato postmodernismo e premiarne uno degli autori più rappresentativi: probabilmente la scelta ricadrebbe allora sullo statunitense Thomas Pynchon. Restando negli USA, non si dimentichi in lizza l’eccelsa Marilynne Robinson. C’è poi una segnalazione speciale che vorremmo proporre, e che la gentile lettrice il lettore potranno trovare solo poche righe più in basso.
Più interessante di offrire queste già note candidature ci sembrerebbe invece tentare una diversa strada. Vogliamo inaugurare l’usanza di proporre un ‘Nobel a sorpresa’, indicando cioè un’autrice o un autore che non vincerà il premio, e a cui però per compensazione MDNM vuole accostare il suo nome.

Così sia: il nostro candidato inatteso annuale è Giuseppe Montesano, più che per la sua attività di romanziere (Nel corpo di Napoli con Mondadori, Di questa vita menzognera con Feltrinelli) per quella di saggista, e per il mastodontico lavoro su Baudelaire (Baudelaire è vivo. I fiori del male, tradotti e raccontati per Giunti) e, soprattutto, per Lettori selvaggi, di nuovo con Giunti. È quest’ultima opera, in special modo, a consegnarlo alla Storia letteraria. Forse non è stato sufficientemente evidenziato, ma questo tomo di quasi duemila pagine – che come enciclopedia compendia i più gloriosi scrittori d’ogni tempo e luogo, che forse nessuno ha mai letto per intero e che probabilmente è fatto appunto per leggersi a brani, disordinatamente, tornandoci ancora e ancora nel corso di una vita -, rappresenta l’opera che il grande Jorge Luis Borges avrebbe sempre sognato di comporre e – per mancanza di disciplina, forse – ha mancato di scrivere. Non è cosa da poco. A Giuseppe Montesano, dunque, la controcandidatura inattesa di MDNM.

Márcia Theóphilo, Amazzonia verde d’acqua, trad. di M. Theóphilo, Milano, Mondadori, 2020

C’è una poetessa che da decenni ormai va filando lo stesso interminabile poema, che mai finisce perché a ogni ora a ogni istante si rigenera: è la brasiliana Márcia Theóphilo e canta l’Amazzonia. Come nei dipinti di Henri Rousseau, così nella sua poesia ogni foglia può rivelarsi occhio vivo o mano o armadillo o fiume o goccia o sesso o frutto o volto, le stelle sono uccelli variopinti, i pesci si animano e il giaguaro,/ divinità suprema/ del tempio fatto da alberi/ spicca il suo salto, un volo. Scriveva l’illustre Mario Luzi, a prefazione di Amazzonia respiro del mondo (Passigli): È impossibile attribuire a un essere distinto la voce che parla, loda, alloquisce, descrive, esalta, colorisce nella foresta nella quale tutta la vita vegetale, animale, elementare si accende della sua compresenza e sacralità. Come divinamente feconda appare la terra di Amazzonia, così ogni essere senza sosta trascende tra vita e morte, tra fioritura e appassimento, in eterno ritorno, perché vive nel flusso immenso e autorigenerantesi della foresta. In questo panteismo poetico la Theóphilo sente il bisogno d’un vocabolario altro dal solito, poiché le parole i pensieri degli uomini non possono essere quelli dei rami, dei rivoli, dei colibrì: e allora plasma termini sulla ormai estinta (?) lingua india tupi: murici, urucu, anajá, tauari, perché ad ogni mondo la sua lingua. Compaiono di tanto in tanto figure antropomorfe, come i figli della dea giaguaro (esiste anche I bambini giaguaro, per De Luca Editori d’Arte) o i giovani amanti Kuambu e Kupaúba, ma sono organici alla foresta, dialogano da pari con piante ed animali e dèi: in questi potrebbero ad ogni momento convertirsi. Quando appare l’uomo estraneo, invece, urbano, l’intera foresta si inquieta, gli alberi sono affamati e moribondi, gli animali fuggono, dell’invasore resta il rombo minaccioso e presago della motocicletta e il canto si fa accorato, civile (lo celebrava il poeta spagnolo Rafael Alberti: Con un nodo nella gola/ Márcia Theóphilo grida/ Márcia Theóphilo canta.). Nel suo rorido, fluente poema arboreo, ogni nuova lirica s’aggiunge come isola che appare scompare illusoria nella nebbia acquosa del Rio Cuniuá, del Rio Afuá, del Rio Igarapé Cirilo, del Rio Madeira, del Rio Jurua, del Rio delle Amazzoni. MDNM suggerisce di sorvegliare il nome della Theóphilo in ottica Nobel. Ad avvicinarglielo non è solo la magnifica fattura dei versi, ma anche il loro essere perfettamente nello Spirito del Tempo, col loro possente inebriante ecologismo d’arte: combinare un tema così giustamente in auge con il Nobel potrebbe interessare l’Accademia. Inoltre, la Theóphilo è bilingue: compone in portoghese e italiano, e in prima persona traduce qui i suoi testi. Premiarla, cioè, equivarrebbe pure a onorare insieme due lingue di tradizione aurea, le quali a una voce cantano gli indios amerindi. Insomma, a nostro parere i siti di scommesse dovrebbero davvero cominciare a quotare anche l’ipotesi Márcia Theóphilo e i membri dell’Accademia di Svezia, laddove non l’avessero già fatto, ad approfondirne il lavoro.

Titos Patrikios, La resistenza dei fatti, trad. di N. Crocetti, Milano, Crocetti Editore, 2007

Nei versi chiari, franchi del poeta Titos Patrikios possiamo ritrovare l’intera, novecentesca travagliata storia del suo Paese, la Grecia, dai torbidi degli anni Venti alle dittature militari, dall’invasione fascista (anche questa, come tutte l’altre, ridicolmente fallimentare) a quella spaventosa dei nazisti, e poi ancora sei anni di guerra civile nell’ambito del grande gioco USA-URSS, la tirannia dei colonnelli, le prove di democrazia e infine il nuovo secolo, con la drammatica crisi economica del 2009 e la feroce austerità europea. Patrikios vive in prima persona questa infinita teoria di rivolgimenti: fra i partigiani combattendo i nazisti, nelle file del comunista ELAS e poi dell’Esercito Popolare Greco contro i monarchici appoggiati da Inghilterra e Stati Uniti. Dopo la vittoria di questi ultimi (nel tempo il supporto prima dei sovietici e poi degli jugoslavi alla causa comunista in Grecia era venuto meno) ci sono gli anni del confino e dell’esilio all’estero, a Parigi e a Roma, per rientrare ad Atene soltanto a metà degli anni Settanta. È apprezzato soprattutto per le raccolte immediatamente successive alla guerra, e in effetti è qui che troviamo i versi di maggior valore. Per esattezza di parola, austerità di tono, concisione ma anche gioia di scrivere al lettore italiano potrebbe ricordare – per tentare un accostamento – Franco Fortini. Vogliamo riprendere il tema della gioia: perché la Poesia di Patrikios è come se si dischiudesse in luminoso splendore dopo il fosco incubo bellico, limpida e sgombra e vasta come un’alba. Si veda ad esempio il poemetto Di fronte al cielo, oppure questi versi: Quando la vita passa e non chiede dove siamo/ dille che una mattina all’alba su un colle ci troverà., oppure ancora: La terra accolse i corpi/ una radice per guanciale/ e il sole inchiodava le mani aperte./ Tentazioni per un flauto le canne/ antichissime arie dalle conchiglie./ Sulla soglia dell’orto aspettava l’estate. Al tempo stesso, infatti, la ritrovata felicità è traversata dai luttuosi fantasmi di chi è caduto: e il sopravvissuto sente di dovergli qualcosa. Si veda la toccante Gli amici, oppure: Non potrò più ridiventare/ un grumo di bronzo silenzioso./ Non potrò dimenticare/ i tanti che hanno dimenticato sé stessi./ Non potrò respirare un’aria/ che non sia dilatata da migliaia e migliaia di vite., dal poemetto citato poco sopra. I versi più indimenticabili Patrikios li ha composti quando non aveva neanche trent’anni (chi ricorda ancora la sentenza di Lee Masters?: Il genio è saggezza e gioventù.). Nel corso dei decenni apprende per così dire il mestiere di poeta (pensiamo alle liriche Abiti vuoti, Dati d’identità, Lettera non finita, alla recente Crisi degli alloggi), ma l’abbagliante verginità e Poesia d’un tempo è svaporata via, le immagini appannate, la melodia già nota. Un appunto editoriale, per concludere. A tradurre è Nicola Crocetti, totem della Poesia greca in Italia, che del rinascimento ellenico novecentesco ha consegnato ai lettori nostrani non solo Patrikios, ma anche Elytis, Ritsos, Kavafis, Kazantzakis (recente l’impresa di trasporre la sua Odissea, pubblicata nel 2020). A Crocetti insomma la cultura italiana è debitrice.

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