Mappe del nuovo mondo: Ngugi wa Thiong’o e Maryse Condé

In questa puntata di "Mappe del nuovo mondo", veniamo finalmente a un tema a cui tante volte abbiamo accennato, senza finora mai approfondirlo: quello delle Letterature post-coloniali. Lo facciamo con "Decolonizzare la mente" e "Le migrazioni del cuore".

Andrea Maffei

Ngugi wa Thiong’o , Decolonizzare la mente, trad. di M.T. Carbone, Jaca Book, Milano, 2015
Parlando di postcolonialismo e di Letterature postcoloniali, il punto di partenza non può che essere I dannati della terra (in Italia lo troviamo per Einaudi), il saggio-manifesto con cui Franz Fanon, francese della Martinica, nel 1961 riprendeva e approfondiva dal di dentro – cioè dall’esperienza in prima persona del colonizzato – l’antica teoria leniniana secondo cui l’imperialismo avrebbe rappresentato la fase suprema del capitalismo, dominato dalla finanza e dai monopoli e affamato di mercati vergini. Per Fanon il capitalismo di colonia non è che una versione senza veli, e dunque anche più riconoscibile, del capitalismo in essenza: nei paesi capitalisti fra lo sfruttato e il potere si frappone una caterva di professori di morale, di consiglieri, di “disorientatori”. Nelle regioni coloniali, invece, il gendarme e il soldato, con la loro presenza immediata, i loro interventi diretti e frequenti, mantengono il contatto col colonizzato e gli consigliano, a colpi di sfollagente o di napalm, di non muoversi. Come si vede, l’intermediario del potere usa un linguaggio di pura violenza. L’intermediario non allevia l’oppressione, non cela il predominio. Li espone, li manifesta con la buona coscienza delle forze dell’ordine. L’intermediario porta la violenza nelle case e nei cervelli del colonizzato. Secondo la riflessione di Fanon, la liberazione può passare soltanto attraverso una riscossa popolare e internazionale in grado di sottrarre al potere dell’oppressore il predominio della violenza. La violenza che ha presieduto all’assetto del mondo coloniale, che ha ritmato instancabilmente la distruzione delle forme sociali indigene, demolito senza restrizioni i sistemi di riferimento dell’economia, i modi di presentarsi, di vestire, sarà rivendicata e assunta dal colonizzato quando la massa colonizzata, decidendo di essere la Storia in atto, si riverserà nelle città proibite, scrive Fanon con l’ispirazione lirica che contraddistingue le sue pagine più felici.
In seguito, sono molti gli autori che più o meno a ragione sono finiti sotto l’ombrello della Letteratura postcoloniale, da Soyinka ad Achebe, fino a Jamaica Kincaid e ad Assia Djebar , ma nessuno ha probabilmente assorbito e rielaborato le parole di Fanon quanto il kenyota Ngugi wa Thiong’o che, d’altronde, quando era direttore del dipartimento di lettere all’università di Nairobi, a fine anni Settanta, prescriveva ai suoi studenti la lettura obbligatoria proprio de I dannati della terra e de L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (in italiano per Lotta Comunista). I semi di tali riflessioni germogliano, più o meno evidenti, in tutta la sua opera letteraria, dallo scintillante romanzo Un chicco di grano (per Calabuig, consigliatissimo) al possente Il mago dei corvi (per la Nave di Teseo). Si fanno più riconoscibili nelle pagine autobiografiche per esempio de Nella casa dell’interprete (ancora per Calabuig). Ma è solo nei quattro saggi raccolti in Decolonizzare la mente che essi fioriscono nel raggiungimento della piena consapevolezza, trasformando il volume, a sua volta, in un testo cardine della Letteratura post-coloniale.
In special modo il primo saggio della raccolta segna il passo di tutti gli altri: la presa di coscienza che la potenza vera degli invasori non stava tanto nei cannoni dell’alba, ma piuttosto in ciò che seguiva quei cannoni. Al posto dei cannoni sorgono scuole coloniali. Dal mio punto di vista la lingua è stata il veicolo più importante con cui il potere ha soggiogato le anime. Le pallottole sono state il mezzo dell’assoggettamento fisico. La lingua è stata lo strumento dell’assoggettamento spirituale. Thiong’o ripercorre con occhio critico l’educazione che egli stesso ha avuto impartita, rigorosamente in lingua inglese (anche questi saggi sono in inglese), la quale dal 1952 divenne obbligatoria in Kenya (dove abbiamo decine di lingue, compreso anche lo swahili; mentre la lingua madre dell’autore è il gikuyu), e a scuola chi non si adattava era sottoposto a punizioni corporali o pubbliche umiliazioni.
Gradualmente si osserva l’affermarsi della lingua coloniale come unica permessa prima e poi accettabile, finché gli stessi autori africani rinnegano l’ibo o lo yoruba, il wolof o lo zulu, il kiswahili o l’arabo e si esprimono nell’idioma colonizzatore. Il poeta senegalese Léopold Senghor, ad esempio, riteneva il francese lingua della gentilezza e dell’onestà, in grado di mantenere tutte le virtù delle lingue negro-africane. Il nigeriano Chinua Achebe, invece, è più pragmatico: È giusto che un uomo abbandoni la sua lingua madre per quella di un altro? Sembra un tradimento orribile e produce un senso di colpa. Ma per me non c’è altra scelta. Mi è stata data questa lingua e intendo usarla. Il poeta (e negli anni Settanta anche presidente) angolano Agostinho Neto semplicemente vi si rassegna. Il lettore di questi versi comprenderà l’angoscia di chi non ha ancora avuto la fortuna di vedere la propria opera – non importa quanto valida – scritta nella propria lingua e letta dal proprio popolo. L’autore, pur essendo angolano, ha scritto in portoghese, in conseguenza della pressione oscurantista di un gretto europeismo.
Che ruolo riveste lo scrittore in questo processo? Deve imbracciare la lingua del colonizzatore, così però raggiungendo un pubblico più vasto, al quale poter comunicare le ingiustizie subite? Deve contribuire ad arricchire la lingua dell’invasore, o piuttosto volere che sia la lingua di quello ad arricchire la sua? Deve insistere sul proprio idioma, rischiando però di sparire come voce internazionale (ad esempio Shabaan Robert e Chief Fagunwa, considerati fra i massimi autori rispettivamente della lingua swahili e yoruba, senza mai cedere a inglese o francese, sconosciuti all’Occidente perché praticamente mai tradotti: e che colpo sarebbe, per una delle tante intraprendenti piccole case editrici italiane, segnalarsi come pioniera in tal senso)? Thiong’o riferisce del suo inizio in lingua inglese; della sua volontà, a fine anni Settanta, di comporre una pièce teatrale in gikuyu, che fosse sul popolo e per il popolo (quello ch’egli chiama il teatro degli oppressi). Dell’arresto e dell’incarcerazione da parte degli inglesi nel penitenziario di Kamiti, e in cella la decisione di scrivere un romanzo in gikuyu, figlio della tradizione orale africana (così come la pièce si nutriva del teatro precoloniale africano, per lo più d’impronta sacra, con ampio spazio concesso al ballo e al canto): ne nascerà Caitaani Mutharabaini, venduto a prezzi ridottissimi e spesso regalato affinché la popolazione, per lo più troppo povera per acquistare un libro, potesse ugualmente leggerlo. Solo in un secondo momento l’autore lo tradusse in inglese, col titolo Devil on the cross, ancora assente in italiano. In seguito, Thiong’o avrebbe continuato ad alternare tra gikuyu e inglese.
C’è un ultimo tema, però, che davvero non possiamo evitare di affrontare. Thiong’o riporta più volte i nomi degli scrittori che ebbe modo di leggere in gioventù. Abbiamo ovviamente gli anglosassoni, Dickens, Stevenson, Milton, Joyce, Eliot, naturalmente Shakespeare e poi moltissimi minori inglesi, e ancora Platone e Aristotele, Balzac, Tolstoj, Gorkij, Brecht eccetera. L’autore compila spesso simili elenchi per mostrare per lo più la distorsione coloniale: sono unicamente autori europei. Ma noi da qui non possiamo non notare qualcosa che forse allo stesso Thiong’o è sfuggito: non viene nominato mai, in nessuna situazione, un singolo autore italiano. Proprio così: neppure Dante. E questo ci getta nel più profondo imbarazzo, perché partiamo dal pregiudizio – mai esplicitato ma da tutti ben chiaro sentito – che chi non abbia letto Dante (sicuramente Thiong’o lo conoscerà almeno in parte, ma è notevole che non lo indichi mai fra i punti di riferimento letterari) non può affermare di conoscere veramente la Letteratura e men che meno può aspettarsi di poterne produrre di nuova, almeno non di qualità. Eppure Thiong’o è uno dei maggiori scrittori viventi, che si spera un giorno vincerà il Nobel. Come sono conciliabili queste due condizioni?
Ebbene è lo stesso Dante a venirci in soccorso in quella che forse, fuori dalla Commedia, è una delle sue pagine più indimenticabili, e qui la riportiamo perché rappresenta la bussola della nostra rubrica, fin dal suo primissimo numero, ormai un anno e mezzo fa. Nel De vulgari eloquentia scrive: […] Chiunque si ritrova esser di così disonesta ragione, da reputare il luogo dove egli nacque il più dilettoso sotto l’occhio del sole, a costui anche sarà concesso vantare il vulgar suo, cioè la sua nativa loquela, sopra tutte le altre: e di conseguenza reputarla quella istessa che Adamo parlò. Ma noi che teniamo per patria il mondo, come è l’Oceano a’ pesci, e sebbene abbiamo bevuto dalle acque d’Arno prima che mettessimo i denti, e abbiam così nel cuore Fiorenza che per amor suo sofferiamo immeritato esiglio, pur tuttavia più alla ragione che al sentimento fermiamo i fondamenti del nostro giudizio. E quantunque, secondo il piacer nostro, o il desiderio del nostro cuore, non esista sopra la Terra più dilettevole luogo di Fiorenza, pure cercando ne’ libri de’ poeti e degli altri scrittori ne’ quali il mondo è generalmente e particolarmente narrato, e fra noi considerando le posture varie de’ luoghi della Terra e le costumanze loro tra i due poli e il circolo equatoriale, intendo per fermo e credo esservi e regioni e città di più nobili e dilettose oltre Toscana e Fiorenza, ov’io fui nato e donde son cittadino; e genti e nazioni assai più bello ed util sermone usare degli Italiani. Occorrerebbe un saggio intero per sottolineare, in tutte le sue sfumature, la grandiosità di questa singola pagina, di questo immortale manifesto al mondo e all’umanità intera (e chi tenta di raffigurare Dante come nazionalista dovrebbe con queste righe tacere definitivamente, se soltanto conoscesse la vergogna), dall’avversativa al mezzo, che eroica staglia il Poeta sopra le impressioni fuggevoli, fino alle note struggenti dell’esilio e dell’amata Firenze: ma sempre sarà da amare maggiormente il mondo. Ciò che ignoriamo è ogniqualvolta più di quello che sappiamo già. Dobbiamo proseguire, perché ci saranno lidi più splendidi, più in là, e per quanto attiene alla Letteratura troveremo poeti più gloriosi dello stesso Dante (sebbene ci riesca ancora inconcepibile), e non abbiamo letto ancora niente, e non abbiamo scritto ancora niente.

Maryse Condé, Le migrazioni del cuore, trad. di D. Salvatico Estense, Fabbri Editori, Milano, 1996
Se con Fanon e Thiong’o abbiamo parlato soprattutto di teoria, con la francese della Guadalupa Maryse Condé veniamo invece a una splendida pratica. Finora abbiamo visto che il movimento postcoloniale rappresenta la liberazione (meglio che non dire “la riappropriazione”) di uno spazio fraudolentemente occupato, da tempo, da una forza estranea oppressiva. Però non è tutto: postcolonialismo significa pure imparare che esiste sempre anche uno sguardo altro, una versione altra. Di Condé abbiamo scelto Le migrazioni del cuore (e non l’imponente Segù, edito in due tomi per le Edizioni Lavoro) non soltanto perché è senza dubbio una perla letteraria, ma anche perché ribalta il punto di vista usato. Prende un classico della Letteratura europea, Cime tempestose di Emily Brontë, e lo trasferisce al Caribe. Il risultato è eccezionale, pare che al romanzo della Brontë sia stato iniettato un qualche tipo di steroide, esso si è inturgidito, è rigoglioso, mentre smorto slavato appare ormai il suo modello. Al cielo plumbeo ventoso dello Yorkshire è sostituito quello dorato e salmastro di Cuba. La storia non è più a sé, ma contaminata dalla Storia maggiore (siamo a fine Ottocento, nell’aria ancora rimangono echi di Haiti e Toussaint Louverture, e poi la recente formale abolizione della schiavitù, il primo socialismo, i tumulti), la geografia non oppressa di nebbie e brughiera, ma invece spalancata su oceani indaco solcati da navi corsare e burrasche ed isole (il romanzo è suddiviso per sezioni e ognuna un’isola: Cuba, Guadalupa, Marie-Galante e Roseau). I personaggi non sono più bianchi inglesi, ma una mescola fra discendenti di schiavi africani, indiani, meticci e beké, coloni europei e caribeñi d’ogni dove con la pelle scura ed i capelli crespi. Non indossano più rendigote o cappellini di trine ma pittoresche uniformi bucherellate macchiate, provocanti abiti stretti alle cosce e facili a levarsi con passione: poiché l’erotismo è sicuramente uno dei vantaggi che la versione della Condé può prendersi sopra al modello (naturalmente nell’Inghilterra inizio-ottocentesca sarebbe risultato inaccettabile). Le migrazioni del cuore è adesione totale tra Vita e Letteratura, in una zaffata di pagine disperde volumi interi di pseudoscientifica, arguta critica letteraria, è narrazione tanto vivace e potente e autentica che persino ci si vergogna a soffermarsi ai suoi dati formali, in una prosa lussureggiante che riflette la tropicale Natura dattorno. L’obiettivo non è persuadere o interessare il lettore, ma entusiasmarlo. La vicenda è presto detta: si racconta la storia d’amore fra Razyé e Cathy (per la Brontë erano Heathcliff e Catherine), di natura tanto selvaggia che come ciclone travolge ed eradica qualunque cosa gli sbarri il cammino, e le cui conseguenze si propagano ancora per le generazioni successive, condizionandone l’esistenza. I due protagonisti – e in special modo Razyé poi, in scena fino all’ultimo – giganteggiano e si iscrivono al ristretto novero dei personaggi indimenticabili (come un Aureliano Buendìa, un Bartleby, un Pereira, un Esteban Trueba, un Pierre Bezuchov, un’Anna Karenina, un’Emma Bovary, un Cyrano, uno Svedese, una Medea, un Arturo Bandini, un sottotenente Trotta), e il lettore ha la netta impressione, anche a distanza di tempo, di averli conosciuti di persona e di potere tornare a incontrarli, talvolta, riaprendo le pagine del vecchio libro, così come si verrebbe in visita a un amico. E però rispetto al modello, in cui i personaggi secondari eran davvero tali, Condé riesce pure ad animare vivaci e validissimi comprimari, primo fra tutti il colto e sensibile Aymeric de Linsseuil, ma anche la di lui sorella Irmine, rispettivamente antagonisti di Razyé e di Cathy. La celebre struttura a scatole cinesi di Cime tempestose viene mantenuta anche nel rifacimento, in cui però assume – staremmo per dire – un valore quasi politico. Per Condé sono i dannati della Terra a parlare con la loro viva voce, a riferire di volta in volta la propria versione dei fatti, sono i braccianti della canna da zucchero e dei bananeti, serve in odor di schiavitù, scure cameriere con pizzi bianchi a emulare una grandeur europea mai vista e solo immaginata, la cui voce si fonde, senza conflitti, con quella calda della narratrice. Infine, riprendendo quanto detto più sopra: la questione della lingua. Per lo più persa nella pur eccellente traduzione italiana, nell’originale Maryse Condé opera ibridando il francese per così dire ufficiale con quello creolo di Guadalupe, fino all’ottenimento di un impasto singolarissimo e musicale. Le migrazioni del cuore (a dispetto di questo brutto e niente affatto necessario titolo) è un misconosciuto capolavoro letterario caraibico, probabilmente il più luminoso della sua molto talentuosa autrice: che i lettori si facciano un regalo di Natale e lo recuperino presto.

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