Mappe del nuovo mondo: Herta Müller e Charles Simic

In questa puntata: “Lo sguardo estraneo” e “Hotel Insonnia”.

Andrea Maffei

Herta Müller, Lo sguardo estraneo, trad. di M. Rubino, pref. di A. Sofri, Sellerio editore, Palermo, 2009
Umberto Eco fa dire a Guglielmo da Baskerville, ne Il nome della rosa (Bompiani): “Spesso i libri parlano di altri libri. Spesso un libro innocuo è come un seme, che fiorirà in un libro pericoloso, o all’inverso, è il frutto dolce di una radice amara”. Così è: e se la gentile lettrice il lettore hanno letto, tanti anni fa ormai, Kafka, e s’accostano adesso a Lo sguardo estraneo, della romena germanofona Herta Müller (Nobel 2009), oppure al più noto Il paese delle prugne verdi (per Keller), parrà loro d’avere dinnanzi il resoconto di chi personalmente sia passato per un luogo che a lungo s’era ritenuto puramente letterario. In quella che Adriano Sofri chiama la “grottesca satrapia di Ceauşescu, infatti, kafkiani sono i dialoghi, illogici affinché non possano essere intesi e riferiti, e ogni personaggio è ambiguo e insonne e si tendono capelli sui manici delle valigie, sulla soglia per sapere poi se qualcuno le ha aperte, se qualcuno è entrato. Si è investiti in bicicletta da un’auto, fortunatamente in modo lieve, e durante l’interrogatorio un commento di sfuggita, “Capitano incidenti stradali.” La parrucchiera s’informa della bicicletta: però non le s’era mai rivelato di possederne una. Nell’interrogatorio “in quanto accusato bisogna non tener conto di chi si è in realtà. […] Occorre attenersi rigidamente all’invenzione, non si deve esulare mai dal suo contenuto, ritenendo di evitare in tal modo l’invenzione successiva. Con dettagli non inerenti all’invenzione si spalancano semplicemente porte che forse l’accusatore da solo non avrebbe aperto. Un’unica parola detta di troppo può suggerire nuove sfumature o intere diatribe alla cieca. A propria difesa non si devono mai tirare in ballo elementi che non siano già presenti nell’accusa”. Letteralmente Kafka e i suoi simboli cavi. Annota Mark Fisher nell’imperdibile Realismo capitalista (NERO), “la sua [di Kafka] visione purgatoriale di un labirinto burocratico senza fine rimanda a quell’“impero dei segni” che secondo Žižek era il regime sovietico […]. Nessuno sapeva cosa gli veniva richiesto: gli individui potevano solamente supporre quale potesse essere il significato di particolari gesti o direttive”. Fisher anche rammenta che un simile clima, checché ne strillino i liberisti (ci fa piacere citare il filosofo e youtuber Mortebianca: per il cartaceo raccomandiamo almeno la novella Necropolis, in Abissi digitali, per Poliniani), non è esclusiva del comunismo reale (si badi, però: in Mitteleuropa, Silvy edizioni, gli studiosi Libardi e Orlandi ricordano come quello rumeno fosse “regime con dei tratti particolari, integrando motivi direttamente mutuati dal fascismo”, si veda la preminenza che assunse la corrente ultranazionalista dei Protocronişti dalla metà degli anni Settanta), ma proprio d’ogni sistema totalizzante, come certo è anche il capitalismo: pensiamo al call center, folle labirinto kafkiano […] privo di memoria, in cui i meccanismi di causa ed effetto si legano tra loro in maniera misteriosa e imperscrutabile. Chi spia cosa spia e a quale fine (sorveglianza di massa, trafugamento di dati)? La realtà “foresta di simboli”, messaggio cifrato. Chi riesce a intercettare le telefonate interne al Castello che sente? Solo “un brusìo e un canto.

Charles Simic, Hotel Insonnia, trad. di A. Molesini, Adelphi, Milano, 2002
Nella Romania di Ceauşescu, Herta Müller componeva poesie all’apparenza insensate ritagliando e assemblando parole e frasi dai quotidiani tedeschi (raccolte in Essere o non essere Ion, Transeuropa Edizioni): e noi nella nostra recensione abbiamo provato, modestamente, a omaggiarla con un piccolo collage di citazioni. Anche il poeta statunitense – ma profugo jugoslavo da bambino – Charles Simic (1938-2023) usava volentieri tale tecnica (del resto raccomandata anche da Gianni Rodari nel suo Grammatica della fantasia, per Einaudi, e la nostra rubrica, che tanti grandi autori ha nel tempo nominato, si onora di citare qui il maestro e poeta Rodari), così come egli stesso riferisce nella miscellanea in prosa La vita delle immagini (Adelphi), la cui lettura consigliamo in parallelo all’antologia Hotel Insonnia, perché se quest’ultima è il dionisiaco la prima è l’apollineo. Cioè? Cioè qui abbiamo versi fulminanti concavi, lì è la speculazione sopra la Poesia, sulla Letteratura e sulla vita in relazione a queste. Le liriche somigliano alle scatole di Joseph Cornell – di cui infatti Simic si dichiarava fervido ammiratore -, accostando fra loro elementi all’apparenza irrelati e spesso miseri, i quali però insieme esalano un afflato quasi mistico: la Poesia, appunto. Milioni di camere vuote con le TV accese./ Non c’ero ma ho visto tutto./ Sullo schermo il Titanic come una torta di compleanno che affonda./ Il portiere di notte, Poseidone, ha spento le candele./ Che mancia dare al fattorino cieco?/ Alle tre del mattino l’aggeggio sputa-chewing-gum nell’atrio vuoto/ con lo specchio rotto da poco/ è la nuova Madonna con il bimbo appena nato. Il luogo simiciano per eccellenza è non a caso la sfatta lugubre fetida camera d’albergo mezzo buia, in cui i nostri poveri oggetti si affiancano ad altri di dubbia provenienza, d’ambiguo aspetto. Dagli scritti teorici traspare invece un uomo sorridente (senz’altro faceva parte della sparuta famiglia di scrittori lieti, forte l’influenza dei tre ottimisti patriarchi letterari statunitensi: Whitman, Thoreau e soprattutto Emerson), sempre pronto al banchetto (l’autobiografia scandita dai pasti più notevoli, ad esempio) e al gioco, ma soprattutto curioso, spaziando dal jazz alla filosofia, dalla fotografia alla pittura, fino al cinema. Trait d’union resta però sempre e solo la Poesia, vissuta in prima persona come sguardo obliquo, singolare, propositivo e giocoso sul mondo, e il poeta come grande anarchico, irriducibile irregolare, non più vate né rivoluzionario ma ribelle sì, e infatti quella dell’individuo come misura per tutte le cose (già notato qui). Dobbiamo per onestà ammettere che Simic non ha rappresentato, diremmo sotto nessun punto di vista, un elemento di assoluta  unicità nel panorama letterario coevo, ma ha saputo incarnare nella forma più pura molti dei suoi tratti distintivi. Il lettore instaura nei confronti dell’autore persino un affetto personale, forse per via della chiara gioia che traspare da ogni rigo (similmente in passato su Blanca Varela). Così l’entusiasmo che Charles Simic profondeva, come suole, gli ritornava indietro dai molti che l’hanno negli anni letto e amato, e che ora lo rimpiangono, e fra questi senz’altro anche noi.

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