Marco Pantani, 25 anni fa l’accoppiata Giro-Tour

Il 2 agosto del 1998 Marco Pantani vinceva il Tour De France, diventando uno dei sette ciclisti riusciti nell’impresa di trionfare nello stesso anno al Giro d’Italia e alla Grande Boucle. Solo l’anno seguente, con la squalifica subita quando era di nuovo in testa al Giro, sarebbe iniziata la sua caduta agli inferi. Il Pirata è morto il 14 febbraio del 2004, a soli 34 anni, e le inchieste giudiziarie per far luce sull’accaduto da allora si sono susseguite. Ma le inchieste giudiziarie sono materiale per la cronaca mentre ciò che va ricordata oggi è un’estate ormai consegnata alla leggenda dello sport.

Fabio Bartoli

A volte, quasi per uno scherzo del destino, si verificano anomalie che sono difficili da spiegare. Se nasci a Cesenatico, sulla riviera romagnola, e tua madre gestisce un chiosco di piadine e crescioni che si affaccia proprio sull’Adriatico nessuno si aspetta da te che otterrai la gloria sulle montagne. E invece è stato così per Marco Pantani, per tutti il Pirata. Un’anomalia condivisa con un altro corregionale, stavolta toccato in sorte al versante emiliano, Alberto Tomba, nato in quella Bologna celebre per le bicilette proprio grazie alla sua condizione pianeggiante e diventato uno dei più grandi sciatori del mondo. Strano destino, quello di due degli sportivi che più hanno infiammato gli animi degli italiani negli anni Novanta dello scorso decennio, che per uno dei due, proprio Pantani, avrebbe assunto dei tratti crudeli. Ma se chiudiamo gli occhi e li riportiamo a una magica estate di venticinque anni fa, allora tutto assume connotati trionfali, perché quella per il Pirata è un’estate da leggenda. Ma prima di riviverla facciamo ancora un altro, necessario, passo indietro.
Pantani non costituisce una deviazione dai binari della regolarità solo per ciò che riguarda lo spazio ma anche per il tempo. Il corridore di Cesenatico ha costituito un fenomeno del tutto inattuale nel mondo del ciclismo dell’epoca, che viveva la fase appena successiva al dominio esercitato all’inizio degli anni Novanta da Miguel Indurain. Lo spagnolo, grande passista, dominava le corse a tappe con una regolarità brutale, replicando uno schema quasi scientifico: grandi distacchi inflitti agli avversari a cronometro, mantenimento del vantaggio accumulato sulle montagne. Proprio sulle montagne invece Pantani ha costruito i suoi successi, andando più forte degli altri “per abbreviare la mia agonia”, come avrebbe confidato in un’intervista a Gianni Mura, che per lui coniò il soprannome Pantadattilo, proprio per sottolineare questa sua appartenenza a tempi remoti, arcaici. E proprio lo spirito antico del ciclismo era solito risvegliare Pantani, riportando con la fantasia ai tempi di Fausto Coppi, a quelle imprese solitarie destinate a diventare leggenda in un’epoca in cui invece già predominavano pianificazione, controllo, razionalità. “Un uomo solo al comando”, per rievocare la celebre definizione data proprio a Coppi dal radiocronista Mario Ferretti descrivendo la leggendaria tappa Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia del 1949. Anche un’altra cosa accomuna il Pirata al Campionissimo, ovvero quella di essere gli unici due italiani ad aver centrato l’accoppiata Giro-Tour nella stessa stagione (e sono solo sette in totale a essere riusciti nell’impresa), che Pantani conquistò appunto in quell’estate del 1998.
Al giro rivaleggiò con il russo Pavel Tonkov, già vincitore della corsa rosa nel 1996, e lo svizzero Alex Zülle, quest’ultimo dotato di caratteristiche molto simili a quelle di Indurain. Proprio Zülle infatti diede un distacco di tre minuti e mezzo a Pantani nella gara a cronometro del 31 maggio, che attraversava la città di Trieste. Per tanti altri ciclisti la corsa si sarebbe conclusa lì ma Pantani poteva ancora contare sulle salite. Tant’è che soli due giorni più tardi, nella tappa di montagna del 2 giugno Asiago-Selva di Val Gardena (che prevedeva l’ascesa della Marmolada, del Pordoi e del Passo Sella), diede oltre quattro minuti e mezzo allo svizzero, che da lì entrò irreversibilmente in crisi, concludendo il Giro a più di mezz’ora da Pantani. A frapporsi tra lo scalatore romagnolo e la vittoria restava il solo Tonkov, staccato di oltre un minuto nella tappa Cavalese-Pian di Montecampione del 4 giugno. A questo punto era da esorcizzare solo lo spauracchio della cronometro Mendrisio-Lugano del 6 giugno, nella quale Pantani riuscì a classificarsi terzo mantenendo così il primato in classifica, andando per ironia della sorte a vincere il Giro proprio in casa del rivale Zülle.
A quel punto la stagione agonistica di Pantani doveva aver vissuto il suo picco, tanto che quell’anno non prevedeva di partecipare al Tour. Fu la morte di Luciano Pezzi, suo mentore e manager della sua squadra, la Mercatone Uno, a fargli scattare qualcosa dentro, portandolo a cambiare idea. Ma il Pirata arrivava alla partenza della Grande Boucle a corto di allenamento e solo nelle prime sette tappe pagò un ritardo di cinque minuti dal battistrada, il tedesco Jan Ullrich, che aveva vinto il Tour l’anno prima e sembrava destinato a ripetersi, instaurando un periodo di dominio che avrebbe fatto seguito al precedente di Indurain. Ma tra Ullrich e il suo secondo trionfo parigino si frapponevano le montagne, pirenaiche e alpine, che ancora una volta avrebbero salutato invece l’apoteosi di quel ciclista che veniva dal litorale adriatico e che con le grandi vette non avrebbe dovuto avere niente a che fare. Da principio furono i Pirenei a rinvigorire Pantani, che soprattutto grazie alla vittoria in solitaria della Luchon-Plateau de Beille del 22 luglio dimezzò il suo vantaggio da Ullrich e arrivò a collocarsi al quarto posto nella classifica generale. Viste le premesse iniziali, una o due vittorie di tappa avrebbero costituito già un bottino di tutto rispetto per il Pirata, che però via via cominciò a sentire che la condizione lo assisteva sempre di più e, con quel suo tipico silenzio che contraddistingueva le fasi in cui la consapevolezza si faceva strada dentro di lui, iniziò a mutare radicalmente le prospettive iniziali. E poi c’era da onorare al meglio la memoria dell’amato Pezzi e come farlo se non andandosi a prendere la maglia gialla? E il giorno designato fu il 27 luglio 1998, uno di quelli che si raccontano ai nipoti e che riconsegnano il ciclismo alla sua dimensione leggendaria. Nella tappa Grenoble-Les Deux Alpes il Pantadattilo andò all’attacco sul Col du Galibier, proprio laddove il 4 luglio 1952 era stata scattata la foto più famosa della storia dello sport italiano, quella dello scambio della borraccia tra Bartali e Coppi. Le condizioni atmosferiche erano tutto fuorché ottimali, essendo una giornata gelida e piovosa, tant’è che l’unico momento di incertezza Pantani lo avrebbe vissuto infilandosi a fatica la mantellina che doveva proteggerlo da quella giornata infame. Ma le sferzate del vento e l’inclemenza della pioggia non potevano mandare all’aria l’appuntamento con la vittoria: Pantani primo al traguardo e Ullrich staccato di ben nove minuti dopo aver vissuto anche una crisi di fame ed essersi ritrovato senza compagni di squadra, vittima anche di una gestione della gara non proprio impeccabile da parte del suo team, la Deutsche Telekom. Quel giorno Pantani si infilò per la prima volta la maglia gialla, che avrebbe portato con sé anche sugli Champs-Élysées. Pezzi poteva essere soddisfatto ancora una volta di più del suo ragazzo. Il campione di Cesenatico aveva conquistato il Tour cinquant’anni dopo la celebre vittoria di Bartali, che imbeccato da De Gasperi ricompattò un’Italia sull’orlo della guerra civile dopo l’attentato a Togliatti.
Ma quel Tour non fu illuminato soltanto dal sole di quell’estate perché fitte ombre all’epoca si addensavano sul ciclismo: quello fu anche il Tour dell’affaire-Festina, che portò a decine di arresti tra ciclisti, dirigenti, staff tecnici e alla comminazione di numerose squalifiche sportive. L’ombra del doping si abbatteva in quegli anni sul ciclismo e in particolare sulla Grand Boucle, le cui edizioni che vanno dal 1999 al 2005 non sarebbero state attribuite per la squalifica del loro vincitore, Lance Armstrong, a causa dell’accertato utilizzo sistematico di pratiche dopanti.
E sempre nel 1999, l’anno successivo al suo picco, iniziò la discesa della carriera di Pantani – e la caduta sarà verticale. Mentre era in testa alla classifica del Giro d’Italia del 1999, il 5 giugno vennero resi pubblici i risultati di un test che riscontravano nel sangue del Pirata una concentrazione di globuli rossi superiore al consentito: il valore di ematocrito, sebbene di poco, era troppo alto. Nonostante non si trattasse propriamente di doping, Pantani fu così escluso dalla competizione “a scopo precauzionale” per tutelare la sua salute in accordo ai regolamenti allora vigenti. Il colpo fu per lui durissimo e, nonostante tante volte avesse avuto la meglio sugli infortuni che ne avevano costellato la carriera, in quell’occasione si sentì definitivamente sopraffatto: “Mi sono rialzato, dopo tanti infortuni, e sono tornato a correre. Questa volta, però, abbiamo toccato il fondo. Rialzarsi sarà per me molto difficile”. E difficile lo fu davvero, tanto che i tentativi successivi di tornare competitivo fallirono, seguiti dal tunnel di solitudine, depressione, abuso di alcol, psicofarmaci e cocaina che ne avrebbe decretato la prematura scomparsa il 14 febbraio del 2004, ad appena trentaquattro anni. Diverse inchieste giudiziarie sono seguite alla sua morte, sulla quale non è stata fatta pienamente luce, dovute soprattutto alla tenacia dei genitori, in particolare di mamma Tonina, e del loro legale, l’avvocato Fiorenzo Alessi.
Ma le inchieste giudiziarie sono materiale per la cronaca mentre oggi a essere celebrata è la leggenda di Marco detto il Pirata, partito dal litorale romagnolo per conquistare le vette delle Alpi e dei Pirenei, quelle vette che scalava più veloce di tutti per abbreviare la sua agonia.

CREDITI FOTO: Brian Townsley|Wikimedi Commons 



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