Quando la vita incontra la storia. Intervista a Marilù Oliva

Viviamo le nostre storie individuali spesso senza renderci conto che sono sempre inserite nel flusso della grande Storia collettiva. Nell’ultimo romanzo di Marilù Oliva, attraverso la vita di due donne apparentemente lontane fra loro, il lettore viene condotto dal lager di Buchenwald nei primi anni Quaranta ai parchi desolati dove la droga ha devastato migliaia di vite negli anni Ottanta.

Cinzia Sciuto

Quella raccontata in Biancaneve nel Novecento è la storia di due donne che abitano luoghi ed epoche distanti tra loro e che vivono esperienze molto diverse. Liliane è una ragazza francese degli anni Quaranta del Novecento che subisce un matrimonio combinato con un uomo che non amerà mai, e dal quale non verrà mai amata, e che si ritrova in una storia molto più grande di lei, finendo quasi per caso nel lager di Buchenwald. Bianca è una bambina degli anni Ottanta, figlia di un padre premuroso che muore troppo presto e di una madre che la maltratta e si avvelena con l’alcool; un contesto familiare che condurrà Bianca sull’orlo dell’autodistruzione. Due storie che si srotolano parallelamente, senza avere apparentemente nulla in comune, e che tuttavia si richiamano di continuo, in un intreccio fra storia individuale e Storia collettiva che è il vero protagonista dell’ultimo romanzo di Marilù Oliva.

Da cosa nasce l’idea di intersecare la storia di queste due donne, che sono anche due pezzi della Storia del Novecento?

Nasce dal desiderio di raccontare il fluire delle nostre esistenze dentro alla grande Storia, quella con la S maiuscola. Lili è una vittima della storia, Bianca incarna le bambine che hanno subito qualche maltrattamento per colpa di uno o più adulti presi dai propri guai e feriti dal passato. Convinte entrambe che la Storia sia distaccata e in mano soltanto ai potenti, si illudono che scorra lontana, invece una ci si tuffa dentro per scelta volontaria, la studia, la scova, l’affronta; l’altra ne viene fagocitata, viene rinchiusa nel lager di Buchenwald e lì destinata al bordello.

Ecco, quello dei bordelli è un angolo dei lager a lungo rimasto nell’ombra. „Il sistema dei casini”, spiega Liliane, “era una strategia voluta da Himmler per migliorare la produttività dei lager. Pensato per ringalluzzire i prigionieri, ne approfittavano gli stessi ufficiali”. Perché questa parte della storia è stata finora quasi del tutto ignorata? Quante donne ha riguardato?

Himmler nel 1942 decise di istituire dei bordelli nei campi di concentramento nazisti, dove le ragazze venivano reclutate con l’inganno: si prometteva loro che dopo 6 mesi sarebbero state liberate, ma questa promessa non fu mai mantenuta, spesso capitava che si ammalassero, venissero colpite da malattie veneree o rimanessero incinte e, comunque, quando venivano considerate “inadatte” alla prestazione, finivano nella baracca degli esperimenti. Questa realtà, rimossa fin dopo la Liberazione perché ritenuta scomoda e inopportuna, è divenuta solo più tardi oggetto di ricerca storica.

Durante la guerra, le ragazze impiegate erano almeno duecento, ma in ogni bordello vi era un ricambio continuo, anche perché non tutte sopravvivevano nonostante fossero concesse loro migliori condizioni di detenzione: vivevano nei Sonderbauen che, con l’abilità nazista di rigirare le ossessioni dietro un lessico epurato e burocratico, significa «edifici speciali», e qui erano garantiti un letto abbastanza comodo, sigarette e alcol, acqua calda.  Le ragazze costrette a prostituirsi finivano per essere vittime multiple: vittime del lager, degli aguzzini e dei prigionieri, dei pregiudizi, dei loro sensi di colpa. Il perdurare del disprezzo nei loro confronti anche nei decenni successivi è indicativo, le si considerava le sole responsabili del trattamento subito, come se davvero avessero avuto possibilità di scelta.

Liliane si ritrova a vivere una vita che non aveva scelto, destino di molte donne, ancora oggi. Il Novecento è stato il secolo delle donne, con la conquista di diritti negati per secoli. Eppure la sensazione è che si facciano sempre tre passi avanti e due indietro…

Purtroppo non è solo una sensazione. Perché abbiamo la certezza, data dai numeri, dalle testimonianze e dall’alto tasso di femminicidi che ancora non accenna a calare, che – nonostante nel Novecento si siano fatte conquiste fondamentali quali il diritto di voto, l’accesso alle carriere precluse ecc.  – tuttavia ci sia ancora molto da lavorare, soprattutto a livello di cultura e mentalità, in ogni senso, verso ogni genere e ogni età. Che ci sia ancora una disparità lo sappiamo bene tutte noi che osserviamo la realtà, lo abbiamo provato, siamo state almeno una volta (magari fosse stata solo una volta!) mortificate, svilite, meno pagate, meno considerate rispetto a un uomo. Poi c’è la questione delle violenze e uso il plurale per riferirmi a quelle fisiche, morali, ma anche a quelle subdole, sotterranee e quindi più pervasive.

Il grande protagonista del libro è il rapporto fra storia individuale e grande Storia collettiva: “La vicenda di ciascuno di noi è indissolubilmente legata a quella degli altri. Noi siamo quello che siamo diventati. Noi siamo quello che la vita ha combinato o meno coi nostri incontri, con le nostre emozioni e con i vuoti, con le nostre speranze, con le nostre fobie e con i nostri guai. Nessuno può sfuggire”. Ma se le cose stanno così, che margine di azione e di autonomia abbiamo? Davvero nessuno può sfuggire al proprio destino?

Premesso che io non credo nel destino, se per destino però intendiamo la concomitanza più o meno casuale di fattori, incontri, eventi, eccome se il nostro margine di azione conta. Lo includevo nella frase: “Noi siamo quello che siamo diventati”, perché nel “divenire” implicavo una forte impronta soggettiva. Credo che la percentuale del nostro potere nei confronti dell’esistenza dipenda però anche dalle condizioni in cui nasciamo e dalle possibilità che ci vengono date. Per questo non mi stanco mai di ripetere un’ovvietà che, però, non è ovunque rispettata: una vera democrazia dovrebbe garantire a tutti le stesse possibilità.

Le storie di Liliane e di Bianca sono tenute assieme da alcuni “fili rossi” come per esempio il giudizio netto, senza appello, contro gli ignavi, che con la loro indifferenza non fanno che rafforzare i violenti e i prepotenti. Il disprezzo di Bianca nei loro confronti è anche il tuo?

Sì. Mi sento molto vicina a Dante e a Virgilio e questo è anche un omaggio al terzo canto dell’Inferno. Chi di fronte a un’ingiustizia per un proprio tornaconto o per una propria comodità di posizione non si espone è per me responsabile allo stesso modo di chi compie quell’ingiustizia. Anzi, forse lo è in misura anche più deplorevole, perché il suo immobilismo è dovuto a opportunismo. Per colpa dell’inazione di molti sono avvenute diverse sciagure (penso all’avvento del fascismo, ad esempio) e avvengono tuttora (penso al fenomeno del bullismo, dove un ruolo importante hanno gli spettatori che osservano il sopruso senza muovere un dito o ai genitori del bullo che, e lo dico per esperienza di docente, spesso tendono a negare l’evidenza).

Un altro filo rosso che percorre tutto il romanzo è il rapporto madre-figlia. “Se avessi potuto scegliere”, confessa Liliane, “non avrei mai voluto mettere al mondo una creatura a cui un giorno dover raccontare che non trovo il senso della vita. Che il suo corpo deperirà inesorabilmente. E arriverà il momento in cui uno di noi due morirà e non ci vedremo più”. Naturalmente l’esperienza di Liliane è estrema e dunque il suo disincanto comprensibile. Eppure la maternità in generale porta con sé un elemento letteralmente tragico: mettere al mondo un figlio, destinato a morire…

Se hai una visione lucida e non edulcorata della realtà, sei consapevole che, mettendo al mondo un figlio, non solo darai alla luce qualcuno che prima o poi dovrà morire (ma la morte è considerata negativamente da noi per una questione culturale, in realtà la natura ci insegna che la morte è soltanto una componente fugace del ciclo della vita), ma – e questo per me è molto peggio –  lo costringi all’incognita di un’esistenza che, come sappiamo, potrebbe comportare dolori, perdite e disagi. Io credo che si decida di diventare madri o per incoscienza o perché lo si desidera tantissimo oppure perché la consapevolezza del rischio è pari allo stupore per la meraviglia della vita, della natura e di un Universo che, porteranno pure in sé una dose significativa di ferocia, è vero… ma sono così rifulgenti di bellezza!

Nelle note finali scrivi: “Questo non è un romanzo autobiografico, eppure la vita di Bianca in qualche modo mi appartiene” e riveli che nella costruzione del personaggio di Bianca hai attinto molto ai ricordi dei tuoi primi 24 anni. Quanto è difficile, partendo dall’autobiografia, liberarsene per entrare nel regno della finzione?

Non ho voluto toccare la mia biografia fino a quando non mi sono sentita pronta. Prima sarebbe stato molto difficile, quasi impossibile. A vent’anni avevo infatti scritto un breve romanzo autobiografico che non mi sono azzardata a pubblicare proprio perché mi ritenevo troppo coinvolta. Ho ripreso alcune parti e le ho riscritte – adattandole alla voce di Bianca – solo quando mi sono sentita nello stato d’animo di trattarle “letterariamente”, staccandomi dalla mia storia personale e considerando soltanto la gestione della vicenda narrativa e il destinatario.

Da ragazzina Bianca legge molto: Elsa Morante, Maria Bellonci, Italo Calvino, Cesare Pavese, Natalia Ginzburg, John Fante, Miguel Ángel Asturias, Isabel Allende, Virginia Woolf, Franz Kafka, Fedor Dostoevskkij, Gabriel Garcia Marquez: è anche il tuo pantheon?

Assolutamente sì. Ma è incompleto. Mancano Roberto Bolaño, Goliarda Sapienza, molti altri non solo novecenteschi. E mancano i contemporanei. Infine aggiungiamo al suo/mio pantheon anche Lady Oscar, icona per eccellenza di guerriera e ribelle, desacralizzando chi pensa che solo la letteratura possa trasmettere sani princìpi.

 

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