Marilyn Monroe, l’attrice senza copione

Nella notte tra il 4 e il 5 agosto 1962 moriva una delle più celebri attrici della storia del cinema. A distanza di sessant'anni, ricordiamo la star a partire dalla consegna del David nella sede dell’Istituto italiano di cultura di New York. Al suo fianco, Anna Magnani.

Giovanni Savastano

Le labbra nervose della star si muovono a scatti, inumidite di tanto in tanto tra le pause dei suoi sguardi smarriti, mentre la ressa di fotografi e cameramen quasi la schiaccia contro la libreria alle sue spalle. È il 14 maggio del 1959 e Marilyn Monroe è al centro di uno dei tanti uragani mass-mediatici, per lei diventati ormai pane quotidiano da quando, all’inizio di quel decennio, era assurta al ruolo di superstar hollywoodiana. Quel giorno, la diva si trova all’Istituto italiano di cultura di New York per ricevere il David di Donatello come miglior attrice straniera dell’anno 1958, per la sua interpretazione nel film “Il principe e la ballerina”, al fianco di Lawrence Olivier. Tra tutti i presenti, è un euforico Ruggero Orlando, celebre inviato Rai “da Nuova York”, come lui stesso era solito annunciarsi, a offuscarla involontariamente in modo maldestro e goffo, spesso addirittura coprendola ai teleobiettivi. Poco prima dell’inizio della confusionaria cerimonia, Marilyn, come in cerca di un appiglio, sussurra qualcosa a un uomo alto con gli occhiali, seminascosto alla sua destra dalla ressa di giornalisti: è Arthur Miller, celebre scrittore e drammaturgo, suo consorte da tre anni, dal quale divorzierà nel 1961. La probabile rassicurazione da lui ricevuta dura poco, fino all’accendersi delle telecamere: è allora che la protagonista si smarrisce di nuovo, pur tentando di mantenere un certo aplomb, messo però a dura prova dalla litania di Orlando in una lingua che lei non parla. In questa tumultuosa marea umana, compare all’improvviso dal nulla, alle spalle del giornalista, una donna bruna con una sigaretta accesa in mano, che cerca di farsi largo tra i microfoni per mettersi accanto alla diva. “Congratulations, you deserve it”, “complimenti, te lo meriti”, le dice stringendole la mano con un sorriso sincero. Ed è allora che i flash si scatenano per ritrarre la surreale scena che vede incredibilmente Anna Magnani, in quei giorni negli Usa per girare un film con Tennessee Williams, fare da spalla a una Marilyn emozionata e confusa.

È l’attrice romana a chiederle, in un orecchio, cosa le piacerebbe dire in italiano, per ringraziare idealmente il pubblico del Bel Paese, ed è sempre lei a tradurle “Grazie, sono commossa”.

Di suo, Marilyn aggiunge, quasi a scusarsi di quel riconoscimento, di sperare di diventarne veramente degna, in futuro.

La sua insicurezza era naturale e candida come la sua esplosiva e disinibita sessualità: l’una non poteva esistere senza l’altra.

“Era un fiore di creatura: tutta morbida e bianca”, dirà la Magnani dopo la morte della collega, “compatta come un albero giovane. Quando seppi che l’avevano ammazzata, sembrò anche a me di morire un po’”.

Interpretare la scomparsa della Monroe, metaforicamente o realisticamente, come omicidio, è un’ipotesi che si fa largo da subito – e non solo nella mente di Nannarella – già a distanza di poche ore da quella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962, in cui il corpo dell’attrice americana viene trovato senza vita nel letto della sua abitazione, a Los Angeles. In molti vedranno, in quella morte, un prodromo degli assassinii del presidente John Fitzgerald Kennedy, avvenuto l’anno successivo, e di suo fratello Robert, nel 1968. I tre sono infatti legati da una invisibile trama comune da quando l’attore inglese Peter Lawford, sposato con Patricia Kennedy, sorella dei due politici, presenta loro la Monroe. I due giovani Kennedy in ascesa, entrambi soggiogati dal fascino di quest’ultima, ne diventano amanti in periodi diversi, intrappolandola probabilmente in una ragnatela di segreti e intrighi che le risulterà fatale.

La personalità di Marilyn è una calamita che attira e respinge, in modo incontrollato, coloro che le sono accanto e che inevitabilmente cadono preda di una attrazione mista a paura, folgorati e paralizzati, accecati e oscurati dalla sua luminosità.

Lo scrittore inglese Anthony Burgess, in un articolo per il trentennale della scomparsa dell’attrice, oltre a descrivere “i frammenti della sua bellezza” come “epifanie della divinità”, riportava le parole di un Arthur Miller neo-sposo il quale a sua volta ricordava, ma con sofferenza, che “molti uomini, davanti a lei, non resistevano all’impulso di masturbarsi, senza nemmeno nascondersi”.

E a Oriana Fallaci, in un’intervista a fine anni Cinquanta, subito dopo il grande momento di crisi di coppia a causa di un aborto spontaneo, lo stesso Miller riferiva che “Marilyn blocca il traffico per la strada… la riconoscono dal modo di camminare, e ciò mi dà fastidio”.

Impalpabile, non comprensibile, sempre altrove mentalmente, Norma Jeane Mortenson – questo il suo vero nome – sfugge alla catalogazione dei più, apparendo “vuota” e “stupida” solo all’occhio frettoloso e superficiale: “Ho l’impressione che tutto succeda sempre a qualcun altro”, dichiarava, “proprio accanto a me. Io sono lì vicino, posso ascoltare, toccare, ma non sono mai veramente lì”. La sua “vuotezza” è in realtà uno spontaneo scoprirsi, denudarsi, totalmente privo di malizia. Da ragazza preferiva farsi vedere nuda perché si vergognava dei suoi vestiti straccioni da orfanatrofio, dopo che, quando aveva soltanto nove anni, la madre, ricoverata per gravi problemi psichiatrici, l’aveva affidata a un istituto dal quale era uscita tempo dopo, solo per fare il giro di famiglie adottive disadattate e abusanti.

Da adolescente, priva da sempre di una figura paterna, capisce che il suo corpo è uno strumento di potere nei confronti degli uomini e perciò lo usa, seppur con distacco e ironia, senza posa, conservando un giocoso infantilismo che trasparirà poi nelle sue interpretazioni cinematografiche, contribuendo a renderla una bravissima attrice comica.

È proprio così che si presenta, scanzonata, dominatrice, ironica e tremendamente sexy quando appare, come al suo solito in ritardo, sul palcoscenico del Madison Square Garden, il 19 maggio del ’62, avvolta da un abito che la fa sembrare nuda, per cantare una sensualissima “Happy Birthday, Mr. President” al quarantacinquenne John Kennedy, suscitando le ire di gelosia della di lui moglie, Jacqueline. Il giorno dopo, la famosa reporter e personaggio televisivo Dorothy Kilgallen scriverà, sulle colonne del New York Journal-American, che “Marilyn ha fatto l’amore con il presidente in diretta tv davanti a quaranta milioni di americani”.

Il dipanarsi dei momenti precedenti all’entrata della star su quel palco, quella sera, ha un che di preveggente e sinistro: quando il maestro di cerimonie della serata Peter Lawford la annuncia, lei si fa attendere per svariati minuti, dando forma, per l’ennesima volta, a uno dei suoi tanti e proverbiali ritardi che altro non erano che un suo “esserci” ancor di più. Nella spasmodica attesa, la folla della platea si gonfia di rumore e Lawford, dopo aver pronunciato una serie di battute scontate, quando la vede finalmente comparire sotto il riflettore, la accoglie con uno scioccante “the late Marilyn Monroe”, intendendo “la Marilyn Monroe ritardataria”, ma giocando sul doppio significato della parola inglese “late”, che vuol dire anche “defunta”. Quella macabra presentazione, che anticipa inconsapevolmente ciò che avverrà realmente a distanza di appena due mesi e mezzo, non tocca però minimamente Marilyn la quale, imperturbabile, con fare sicuro e dominante, dà con le dita una “schicchera” al fallico microfono sul quale poserà la sua voce sussurrata, diretta al presidente.

Il ruolo inquietante di Lawford nel percorso esistenziale della Monroe non terminerà quella sera su quel palco: secondo fondate indagini investigative, sarà proprio lui a cancellare le tracce del passaggio di Bob Kennedy (all’epoca ministro della Giustizia) presso l’abitazione dell’attrice, avvenuto poco prima che il padrino mafioso Sam Giancana la facesse uccidere per far ricadere lo scandalo sul politico e la sua famiglia, vendicandosi così di essere stato “mollato” dai Kennedy, dopo aver contribuito alla loro scalata al potere. Lawford, dal canto suo, soltanto pochi giorni prima di morire, nel dicembre dell’84, rivelerà il suo rimorso per non aver salvato l’attrice.

Quella sera, poco prima della tragedia, Marilyn aveva ricevuto la telefonata del figlio del suo secondo marito Joe Di Maggio, Joseph Jr., il quale le aveva chiesto conforto a seguito della crisi con la sua fidanzata. Avendolo sempre considerato come una sua creatura, la star, pur essendo nel pieno di una alterazione mentale dovuta alla pesante assunzione di barbiturici e alla delirante situazione in fieri intorno a lei, riuscì a consolarlo e a infondergli forza e fiducia nel futuro. Il ragazzo le rimase attaccato a vita, occupandosi personalmente, insieme al padre, ormai divorziato dall’attrice da ben otto anni, di tutte le procedure organizzative e burocratiche per la cerimonia d’addio, dalla quale i due Di Maggio decisero di escludere tutti i vip e i falsi amici della bionda diva, a cominciare proprio da Peter Lawford.

L’atteggiamento di cura avuto dalla Monroe nei confronti del figlio acquisito faceva parte di un lato generoso e altruistico della sua personalità che la rendeva immediatamente attiva, intraprendente, sicura e volitiva quando si trattava di aiutare il prossimo. Se avesse riservato a se stessa un decimo dell’energia propositiva che donava agli altri, avrebbe superato tutte quelle insicurezze che la portavano a chiedere ai partner, agli amici o ai registi di turno, non semplici consigli, bensì vere e proprie istruzioni di comportamento. Oriana Fallaci, la quale, per una serie di coincidenze, non riuscì mai a incontrarla pur avendola spasmodicamente cercata per intervistarla in varie occasioni, si sentì dire da Jean Negulesco, regista di “Come sposare un milionario” nel 1953, che l’attrice era “una timida con complessi di inferiorità […] quando la interrogano resta zitta per paura di dire sciocchezze […] non risponde mai a una domanda senza mai chiedere consiglio a un amico”, come se avesse bisogno di qualcuno che le scrivesse il copione della vita. La giornalista toscana, nel fare il ritratto del fantasma-Monroe che non era mai riuscita ad avvicinare, incorniciò le parole del regista con la sua solita veracità, allorché la definì come una diva “torturata dall’idea di essere stupida”, bisognosa di “qualcuno che decidesse al suo posto. Per questo leggeva Dostoevskij”.

Non era esattamente la visione di Ella Fitzgerald la quale, alla stregua del figlio di Di Maggio, conobbe invece la forza e la determinazione di Marilyn quando quest’ultima, appassionata di jazz e grande ammiratrice della cantante, intervenne in suo aiuto senza che le fosse richiesto. Resasi conto che la regina del jazz, per motivazioni razziali e di scarsa avvenenza fisica, non veniva mai scritturata in uno dei locali più “in” di Hollywood, il Mocambo, Marilyn, nel novembre del ’54, fece pressione sul proprietario Charlie Morrison promettendogli che, se Ella fosse stata inserita in cartellone, lei avrebbe garantito non solo la sua presenza tra il pubblico, in prima fila, per molte serate, ma avrebbe portato con sé, la sera del debutto, la crema dello show business del tempo. Promessa mantenuta: al tavolo con Marilyn, a quel primo live, sedevano, tra gli altri, Judy Garland e Frank Sinatra. “Le sono infinitamente debitrice”, dichiarerà in seguito la Fitzgerald, “dopo il suo intervento mi si aprirono le porte dei locali più alla moda. Marilyn era una donna atipica, avanti rispetto ai suoi tempi, e non lo sapeva”.

La stereotipizzazione operata da Hollywood, che le cucì addosso il ruolo della fatalona poco arguta, fece sì che l’opinione pubblica, come spesso accade in tali casi, confondesse la persona con la maschera. Solo leggendo fra le righe di un copione falsato si potevano intravedere, anche nelle sue interpretazioni, parti più oscure e profonde (come in “Gli spostati” di John Houston, non a caso da un soggetto di Arthur Miller) o scanzonate e taglienti, dal già citato “Come sposare un milionario” fino al capolavoro della commedia americana “A qualcuno piace caldo” di Billy Wilder, che valse alla Monroe un Golden Globe nel 1959.

L’influenza di Marilyn sulle artiste a venire sarà immensa nei decenni successivi alla sua tragica scomparsa, persino tra le cantanti, tra le quali si distinguerà, negli anni Settanta, un’altra afro-americana, Donna Summer, la quale non soltanto si farà ispirare, per sua esplicita ammissione, dalla platinata diva dello schermo, nell’interpretazione del suo celebre brano erotico “Love To Love You Baby” (“Nella sensualità di Marilyn c’è un’innocenza che mi ha sempre colpita”, dirà la regina della disco music), ma le tributerà, prima e unica nera finora, persino un omaggio fotografico riproponendo, per uno dei suoi album, la iconica posa con la gonna alzata dal vento che Marilyn aveva girato in una scena della pellicola “Quando la moglie è in vacanza” nel 1955.

Il commiato di Norma Jeane dal mondo della celluloide è conservato in alcuni fotogrammi in cui la star, a poche settimane dalla morte, in tutto il suo splendore si fa ritrarre completamente nuda ai bordi di una piscina. “Something’s got to give”, questo il titolo della pellicola incompiuta di George Cukor nella quale sono impresse quelle sequenze, che l’avrebbe vista come protagonista a fianco di Dean Martin, è l’ultimo copione tenuto tra le mani dall’attrice. È così che la ricorda il giornalista Nantas Salvalaggio, all’epoca inviato del Corriere della Sera, quando la incontra nell’appartamento semivuoto di Central Park South, a New York. Nell’accomiatarsi da lui, Marilyn lo accompagna alla porta e, togliendosi una scarpa, facendo finta di zoppicare, gli chiede “Dicono che cammino come una pantera… Lei, che ne pensa?”.

“Gli ultimi trenta secondi”, chiosa Salvalaggio nel suo articolo, “la vidi così, e così la ricordo: sicura di sé, spiritosa… Lo ammetto: anch’io, come gli altri che la conobbero, non avevo capito nulla”.

Giovanni Savastano, psicoterapeuta e docente di Filosofia e Psicologia, è autore di diversi articoli e libri tra cui il saggio biografico Gian Maria Volonté. Recito dunque sono, pubblicato da Edizioni Clichy nel 2018, e il saggio storico-musicale La Storia della Disco Music, scritto con Andrea Angeli Bufalini, edito da Hoepli nel 2019. Sempre con Angeli Bufalini sta per pubblicare, per Atlante Libri, la prima monografia italiana su Donna Summer.



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