Marinella Fiume riscopre le Streuse d’ogni tempo

Il libro parte da un termine che per secoli è stata uno stigma. Ma le donne che abitano il volume sono "streuse" nel senso più autentico del termine.

Maria Concetta Tringali

Si intitola “Streuse” che è termine dialettale per dire, in Sicilia, di una donna straniera, o strana, di certo diversa, particolare. L’ultimo libro di Marinella Fiume, edito da Iacobelli, parte da un’accezione che si è prestata per secoli a essere stigma, ma le donne che abitano quel volume sono streuse nel senso più autentico del termine. Trenta ritratti femminili di originale e perciò irripetibile bellezza animano circa duecento pagine. Incontriamo Alessandra che dopo Eleonora Duse fu la Nike di D’Annunzio. Al Vate rivolge parole che rivendicano autonomia, in una corrispondenza epistolare modernissima. C’è la prima donna a guidare un’automobile in Italia. Ma c’è anche “Aita lucente”, la patrona della città di Catania, alla quale finalmente e senza infingimenti l’autrice restituisce le origini, scoperchiando la traduzione cristiana del mito pagano di Iside. Nel martirio di Agata Fiume riscopre un femminicidio, il prezzo per la libertà e l’autodeterminazione. C’è un ritratto di Bianca, dei dialoghi di Pavese con Leucò. Ci sono le sirene che ammaliano, pur nella doppiezza di una dimensione che racchiude moltitudini.
Il libro è spunto per sguardi che scavano in profondità.

È un invito alla consapevolezza il capitolo sulle matriarche (la Mammadraga di Capuana), qui è il punto esatto in cui la scrittrice fa un salto in alto. Quella che Romana Petri in un libro recente e doloroso definisce “mostruosa maternità” è una realtà che ripudiamo senza conoscere, un tasto (dolentissimo) che invece andrebbe affrontato a fondo. La domanda da porsi è forse delle più semplici, ci chiede di indagare se anche dietro l’esperienza di essere madre ci possa essere un’insidia. La sola risposta che possiamo darci ci consegna la necessità di trovare un equilibrio.
Se la donna non è madre non è donna, per il sentire comune. E se non lo è per necessità la poverina va compatita, se invece non lo è per scelta va criticata: lo stereotipo la inchioda. Dov’è la libertà in questo spazio? Questo, intanto, bisognerebbe chiedersi. Marinella Fiume è tra le più prolifiche intellettuali siciliane. Sappiamo della sua abitudine preziosa di scavare nel passato e ridare memoria a quante sono state dimenticate perché taciute.

Le dobbiamo riconoscere il lavoro di una vita e una rara coerenza di sforzi, a difesa del femminile, sacro e profano insieme, e perciò autentico. La capacità di sollevare il velo e riportarle alla luce del sole, illuminandone le vite, le opere, il pensiero è un lavoro di cura che la scrittrice tesse intorno alle sue donne. E mi pare che sia questo il pregio dell’opera che segue di pochi anni La bolgia delle eretiche e poi Ammagatrici. Fiume continua un esercizio di recupero.
Lo fa dopo Le Ciociare di Capizzi, scavo certosino, condotto con la pazienza dei contadini che smuovono la terra zolla per zolla, fino a far riaffiorare ciò che era sepolto. In quelle pagine era un crimine di guerra, ancora attualissimo, reati ignobili, vittime e carnefici; la scrittrice tende la mano a tutte le donne, chiamate a superare un trauma intimo e al tempo stesso collettivo.

Studio e rielaborazione, per ridare vita e dignità di memoria.
Tutto si tiene, direbbe qualcuno. Ed è vero. La vita di molte è violata ogni giorno in ogni parte del mondo. Femminicidi, abusi, sfregi, maltrattamenti dentro e fuori dalla famiglia, sono gravissime violazioni dei diritti umani, per troppa parte taciute ancora adesso. E queste atrocità ci dicono che non è mai un fatto privato: se si aggredisce una donna, si aggrediscono tutte le donne.
E l’aggressione non è mai solo fisica. L’altra forma di annientazione passa per la cancellazione delle tracce del femmineo, e va in parallelo con quella che invece si nutre di un uso discriminante della lingua.

Al centro c’è sempre lo strumento, c’è la parola, la questione mai sopita della necessità di scegliere, adottare, volere, pretendere una declinazione non sessista del linguaggio: se le donne non le si nomina, semplicemente si decreta che quelle donne non esistono! Di questo dice “Streuse“, della necessità di raccontare, dire, nominare. Sono eterne le “donne di fuora”, le “regine senza corona” di Marinella Fiume, e sono ovunque. Sono tra noi; siamo noi che ci sentiamo streuse tutta la vita o che ci siamo sentite così, almeno una volta nella vita. C’è un’urgenza, oggi, non più differibile. C’è bisogno di colmare una distanza, quel gender gap che ci lascia in ombra, forzandoci all’invisibilità e alla solitudine dell’isolamento.

La percezione è che le donne scontino il patriarcato in molti modi, diversi ma ugualmente violenti. Sono streuse anche le detenute che espiano la loro pena per reati commessi su commissione: le volte che la loro vita è deragliata perché gli uomini le hanno dirette e le hanno volute ladre o dedite alle truffe. Fiume, a margine della presentazione del volume, racconta a MicroMega di aver raccolto queste confessioni in un recente laboratorio, tenuto presso la casa circondariale catanese, storie che però sono rimaste fuori da questa pubblicazione.

Di questa profonda conoscenza del femminile c’è forte la traccia, tuttavia, anche nel libro appena uscito; c’è nel senso profondo di quel lavoro. L’autrice, insomma, ha saputo mettere su carta un tratto che lega e che accomuna: le battaglie quotidiane, lo sforzo per sopravvivere, per non soccombere a una società che le donne le vuole ancora oggi sottomesse e dimenticate, recluse, sepolte, già da vive prima ancora che da morte. Quella che Fiume dedica alle streuse d’ogni luogo e d’ogni secolo è un’attività risarcitoria, certamente. Ma è anche liberatoria, è di riparazione. Una forma di giustizia, femminile e femminista.



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