Un massacro dimenticato: Ahmići, Bosnia centrale

Era il 1993. Il 16 aprile il villaggio di Ahmići fu attaccato da militi croati dalle facce dipinte di nero che uccisero, sorprendendoli nel sonno, circa cento dei suoi abitanti musulmani.

Andrea Caira

«All’alba del 16 aprile il villaggio di Ahmići, etnicamente misto, fu attaccato da militi croati dalle facce dipinte di nero, che uccisero, sorprendendoli nel sonno, circa 100 dei suoi abitanti musulmani, molti dei quali – anche bambini – furono arsi vivi, impiccati o massacrati in modo così orrendo da non essere identificabili. L’imam locale, con la moglie, fu inchiodato sulla porta della moschea e bruciato»[1]. Con queste parole lo storico Jože Pirjevec ha brevemente ricostruito il massacro subito dalla popolazione civile Ahmići ad opera del Consiglio croato della difesa (Hvo).

L’eccidio commesso nella primavera del 1993 non rappresentò solamente una delle pagine più tristi e complesse della guerra in Bosnia, ma si caricò anche di forti significati allegorici, dato che segnò l’inizio dello scontro interno tra i musulmano-bosniaci (bosgnacchi) e croato-bosniaci (croati). Il bilancio finale dell’azione fu tragico: i civili assassinati furono 116, tra cui un bambino di appena tre mesi e un anziano di 82 anni. Vennero distrutte due moschee e date alle fiamme diverse abitazioni[2].

Con il massacro di Ahmići la politica espansionistica dei croati nell’Erzegovina emerse in massima chiarezza e, simultaneamente, apparve non più equivocabile la responsabilità di Zagabria in tali azioni, tanto che fu proprio il presidente Franjo Tuđman a fornire l’assistenza logistica per l’avanzata dell’aprile 1993[3]. Nei giorni successivi le truppe del presidente della Herceg-Bosna, Mate Boban, furono dislocate nella vallata della Lašva[4], dando inizio a diffusi massacri e bloccando l’afflusso di profughi verso Mostar. Tra la fine di aprile e l’inizio di maggio lo scontro tra i croato-bosniaci e i bosgnacchi si diffuse a macchia d’olio, trascinando in un nuovo vortice di violenza la popolazione civile: Kiseljak, Jablanica e Konjic, Vitez e Gornji Vakuf (dove successivamente saranno giustiziati i tre volontari italiani durante una spedizione umanitaria del 29 maggio 1993) divennero i teatri della breve, ma cruenta, guerra in Erzegovina.

Il 9 maggio, allo scadere dell’ultimatum con cui i croati esortavano i bosgnacchi di Mostar a lasciare le proprie abitazioni, le truppe dell’Hvo aprirono il fuoco verso la zona est della città, a predominanza musulmana, colpendo i ponti che congiungevano le due sponde della Neretva e isolando la popolazione in una sorta di quartiere-ghetto. Fino alla pacificazione del 1994, imposta per ragioni di realpolitik internazionale dall’establishment del governo Clinton alle due parti, circa 55.000 persone appartenenti alla comunità bosgnacca di Mostar vissero confinati in un fazzoletto di terra stretto tra le montagne Velež e il corso impetuoso della Neretva. Le truppe dell’Hvo per i successivi 8 mesi cannoneggiarono costantemente Mostar, commettendo, nel novembre del 1993, uno dei principali urbanicidi del conflitto: la distruzione dello Stari Most.

Eppure, dietro una retorica semplicistica, che tenta di ridurre il conflitto balcanico a folcloristici e antidiluviani scontri etnici e religiosi, emerge un panorama molto più frastagliato, che si innerva tra le trame della diplomazia sovranazionale. Infatti, sfuggendo da ogni postura evenemenziale, il massacro di Ahmići è il risultato dell’anellarsi di alcuni avvenimenti che ne hanno reso possibile la realizzazione. L’avanzata croata ha trovato una sua legittimità militare proprio in sede diplomatica, dove venne proposto, ma mai approvato, il progetto di pace nato durante la Conferenza di Ginevra presieduta mediatori internazionali Cyrus Vance (ONU) e David Owen (CE). Il piano Vance-Owen, arzigogolato quanto evidentemente decentrato dalla comprensione del territorio bosniaco, prevedeva la creazione di una nazione confederativa, suddivisa in dieci zone definite su criteri etnico-religiosi. Secondo il trattato il 24% dei territori sarebbe spettato ai croato-bosniaci, il 32.3% ai bosgnacchi, mentre il 42.5% ai serbi-bosniaci. Le reazioni al piano Vance-Owen non furono univoche. Il ministro della Difesa croato della Herceg-Bosna, Bozo Rajic (Hdz), manifestò entusiasmo per quanto proposto a Ginevra e, come la maggior parte del nazionalismo zagabrese, interpretò il piano come una sentenza definitiva. Il 15 gennaio del 1993 diede disposizione alle truppe federali dislocate nelle province della Posavina, Livno Duvno e, appunto, nella valle della Lašva[5], di sottomettersi al comando dei militari dell’Hvo per dar seguito al piano dei mediatori. Il secco rifiuto di Sarajevo a tale pretesa inclinò ulteriormente i già fragili rapporti con Zagabria. Come ha scritto il giornalista dell’Oslobođenje Zlatko Dizdarević, fu proprio «su questa base che si sviluppò il sanguinoso conflitto tra i musulmano-bosniaci dell’ArBih e i croato-bosniaci dell’Hvo»[6].

Da parte loro, i bosgnacchi ravvisarono nel piano Vance-Owen una postura troppo accondiscendente nei confronti delle richieste nazionaliste. Di fatto, la Bosnia disegnata a Ginevra avrebbe cessato d’esistere come entità statale e per diventare una zona cuscinetto giustapposta tra i desideri di una Grande Serbia e di una Grande Croazia.  La pax americana del 1995 e la necessità di pacificare politicamente la narrazione del conflitto nella neonata Federazione Bosnia-Erzegovina[7], hanno prodotto un dimissionamento di alcune memorie conflittuali che nello spazio pubblico avrebbero potuto ledere al processo di autorappresentazione statale post-bellica. Nel caso specifico, il ricordo istituzionale del massacro di Ahmići sembra più suscettibile alle logiche del “buon vicinato” con la Croazia che non il risultato di un processo di metabolizzazione del trauma. Il quale, invece, continua ad essere trasmesso negli spazi pubblici e privati della comunità locale diventando tratto identitario dell’autorappresentazione collettiva presente.

Credit foto: Samir Yordamovic / Anadolu Agency

[1] Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave 1991-1999, Einaudi, Torino, 2014, p.283.

[2] Balkan Transitional Justice: https://balkaninsight.com/2019/04/16/bosnia-marks-anniversary-of-ahmici-village-mass-killings/.

[3] Le guerre jugoslave, op. cit., p.283

[4] The Library of Congress: https://www.loc.gov/resource/g6841sm.gct00210/?sp=24&st=image&r=-0.294,0.467,1.527,0.697,0

[5] Per approfondire: https://www.balcanicaucaso.org/Tesi-e-ricerche/Pulizia-etnica-il-caso-della-Valle-della-Lasva-205495

[6] Alessandro Marzo Magno (a cura di), La guerra dei dieci anni. Jugoslavia 1991-2001, i fatti, le persone le ragioni dei conflitti, Il Saggiatore, Milano 2015, p. 183.

[7] L’attuale Repubblica di Bosnia-Erzegovina è una sorta di “cerbero giuridico”, complesso e arzigogolato, dove al potere centrale si anellano funzioni e pratiche d’appannaggio internazionale e locale. L’assetto odierno della nazione prevede la convivenza delle tre comunità costituenti in due Entità territoriali: la Federazione della Bosnia-Erzegovina (FBiH, 51% del territorio nazionale e 92 municipalità), amministrata dai croato-bosniaci e dai bosgnacchi, e la Republika Srpska (RS, 49% del territorio e 63 municipalità), gestita dai serbo-bosniaci.



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