Maternità e lavoro. Se tutti (s)ragionano come Elisabetta Franchi

Hanno fatto scandalo le affermazioni dell’imprenditrice Franchi in merito a donne e lavoro. Ma la stilista ha indicato una prassi comune, che contribuisce a tratteggiare un quadro deprimente in materia di occupazione delle donne. Confermato dall’ultimo rapporto di Save the Children.

Ingrid Colanicchia

Hanno fatto scandalo le affermazioni della stilista Elisabetta Franchi in merito a donne e lavoro. In sostanza l’imprenditrice ha dichiarato di assumere in determinate posizioni solo donne “anta”, cioè con più di quarant’anni, perché «se dovevano sposarsi si sono sposate, se dovevano fare figli li hanno fatti, se dovevano separarsi hanno fatto anche quello».

Uno scandalo più che giustificato, a patto però di non dimenticarci che di imprenditori (e imprenditrici) che ragionano come lei, il nostro Paese, e non solo il nostro, è pieno. Senza giri di parole, Franchi ha infatti indicato quella che è una prassi comune, rispetto alla quale anche lo Stato non fa quanto dovrebbe in termini di servizi per l’infanzia, leggi ad hoc per l’occupazione femminile eccetera.

In realtà il problema – che si presenta poi come un circolo vizioso – è a monte: in quel divario salariale tra uomini e donne che emerge già agli inizi della carriera. Il Rapporto su laureate e laureati di Almalaurea, che quest’anno per la prima volta ha dedicato un documento specifico alle differenze di genere, rileva che – nonostante i curricula delle donne siano generalmente più brillanti di quelli dei loro colleghi – le laureate, a cinque anni dal conseguimento del titolo, presentano un tasso di occupazione inferiore a quello dei laureati. Uno svantaggio che si rileva anche in termini retributivi: a cinque anni dalla laurea, gli uomini percepiscono, in media, circa il 20% in più. Inoltre, le donne svolgono in misura minore un lavoro autonomo o alle dipendenze con un contratto a tempo indeterminato, mentre lavorano in misura relativamente maggiore con contratti non standard, in particolare alle dipendenze a tempo determinato.

Un divario che si ripercuote sulle fasi successive della carriera lavorativa e che contribuisce largamente a far sì che, quando arrivano i figli, siano le donne a scegliere il part-time, a usufruire del congedo di maternità o ad abbandonare il lavoro. Semplicemente perché se c’è da rinunciare a una parte di stipendio o a uno stipendio intero, meglio rinunciare a quello meno sostanzioso e/o meno stabile.

Su ciò si innestano, ovviamente, anche le resistenze opposte da elementi “culturali”, costantemente rilevate da innumerevoli sondaggi, per cui in molti Paesi la maggioranza della popolazione ancora oggi ritiene che il più importante compito delle donne sia prendersi cura della casa e della famiglia e il più importante compito degli uomini quello di guadagnarsi il pane. E l’Italia non fa eccezione.

Un quadro confermato dal rapporto “Le Equilibriste. La maternità in Italia nel 2022” diffuso il 4 maggio scorso da Save the Children che delinea come, sia sul versante occupazionale sia su quello retributivo, le donne che diventano madri sperimentino quella che viene definita “motherhood penalty” (o “child penalty gap”).  Secondo il Rapporto, infatti, «il 42,6% delle mamme nella fascia d’età 25-54 risulta non occupata, con uno divario rispetto agli uomini di più di 30 punti percentuali. Il dato varia notevolmente a seconda delle aree del Paese, dal picco del 62,6% del Mezzogiorno al 29,8% del Nord passando per il 35,8% del Centro.  Inoltre, mentre il tasso di occupazione dei padri tende a crescere all’aumentare del numero di figli minorenni presenti nel nucleo familiare, per contro quello delle madri tende a diminuire. A fronte del 61% di madri con un figlio minorenne occupate (tre donne su cinque), gli uomini nella stessa condizione che hanno un lavoro sono l’88,6%. Il divario aumenta quando si hanno due o più figli minorenni (donne occupate 54,5% a fronte dell’89,1% degli uomini), con una differenza di 34,6 punti».

Anche i dati sulle convalide delle dimissioni delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri di bambini/e di 0-3 anni parlano chiaro: «Su 42.377 casi nel 2020, il 77,4% riguarda donne. Le lavoratrici madri rappresentano il 77,2% (30.911) del complesso delle dimissioni volontarie, a fronte delle 9.110 dei padri. Sul totale delle motivazioni indicate nelle convalide, quella più frequentemente segnalata continua a essere la difficoltà di conciliazione della vita professionale con le esigenze di cura dei figli».

«La crisi da Covid-19 è stata un acceleratore di disuguaglianze sociali, economiche, educative», sottolinea Antonella Inverno, responsabile politiche per l’infanzia di Save the Children. «In Italia le donne, e le mamme in particolare, hanno pagato un prezzo altissimo. La recessione conseguente alla pandemia è stata giustamente definita una “shecession”, i dati ci dimostrano che è ancor di più una “momcession”. Anche la ripresa dell’occupazione del 2021 è connotata in larga parte dalla precarietà delle donne e delle mamme nel mondo del lavoro. Servono misure efficaci, organiche e ben mirate che consentano di bilanciare le esigenze dell’essere madri e quelle dell’accesso e della permanenza nel mondo del lavoro».

«Le riforme in atto, come il Family Act o la legge sulla parità salariale, sono passi avanti – fa eco Raffaela Milano, direttrice dei programmi Italia-Europa dell’associazione – ma occorre completare il quadro con investimenti consistenti: dal sostegno al reddito alle politiche fiscali, dall’offerta di un’infrastruttura di servizi alla qualità del sistema scolastico, fino alle misure di conciliazione, tutto influisce sul benessere del nucleo familiare e anche sul tasso di fertilità, che sta segnando picchi drammatici ormai in Italia. È necessario poi che i decreti attuativi del Family Act scongiurino il rischio che tutto si risolva in misure transitorie o che non affrontano il problema in maniera strutturale senza il necessario rafforzamento dei servizi extrascolastici e di sostegno alla genitorialità».

Il Rapporto di Save the Children include, come ogni anno, l’”Indice delle Madri” che delinea l’impegno delle regioni a sostegno della maternità. Anche quest’anno sono le regioni del Nord a essere più mother friendly: le province autonome di Bolzano e Trento mantengono da varie edizioni, rispettivamente, la prima e la seconda posizione; seguono l’Emilia-Romagna, il Friuli-Venezia Giulia, la Lombardia, la Toscana e la Valle d’Aosta. Al contrario, le regioni del Mezzogiorno (assieme al Lazio) si posizionano tutte al di sotto del valore di riferimento (pari a 100). Basilicata (19° posto), Calabria (20° posto), Campania (21° posto) e Sicilia (17° posto) si avvicendano da anni nelle ultime posizioni. Quest’anno si affianca loro la Puglia (18° posto), anche se, per tutte le regioni del Mezzogiorno, il trend globale sembra in sensibile miglioramento con un aumento di quattro punti negli ultimi quattro anni.



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