Il Fascismo che sciacqua i panni nel Liberismo

Questa la falsariga su cui si muove il nostro governo di destra estrema: un palleggiamento tra fascismo redivivo, quale summa del risentimento difensivo piccolo borghese nella sua versione proterva più esplicita e violenta, e l’arroganza del privilegio legittimato dalla svolta reazionaria giunta al potere con l’insediamento di Margaret Thatcher e l’ascesa di Ronald Reagan.

Pierfranco Pellizzetti

Yo soy Giorgia, una italiana,
una mujer, una madre
Giorgia Meloni

Le madri [italiane]sono
generalmente fasciste
Ennio Flaiano

Eclettismo piccoloborghese
I laboratori da sottoscala, al lavoro sull’armamentario concettuale di questa Destra italiana giunta inopinatamente al potere, rimestano nei loro pentoloni i più disparati ingredienti, secondo ricette in apparenza contraddittorie; sostanzialmente risibili: il trito nazionalismo, che rilancia il 23 aprile (a contenere gli effetti sovversivi del 25) la giornata patriottica celebrativa del tricolore, già da tempo fissata per il 7 gennaio e finita nel dimenticatoio, come l’altrettanto vieta esterofobia della proposta di Franco Rastelli, deputato meloniano, di multare fino a 100mila euro chi usa parole straniere. Mix con il bieco revanscismo filo-padronale di pretendere moderazione salariale da lavoratori già afflitti dalle paghe più basse d’Europa, a fronte dell’effetto derisorio dal via libera all’evasione fiscale quale genuflessioncella alla plutocrazia di rapina; oltre al truce trumpismo e la torva Alleanza Visegrad dei muri di sbarramento anti-immigrati assunti a modelli. Senza tacere l’omaggio vassallatico al Washington Consensus, antemurale delle cricche pluto-demo-masso-giudaiche di mussoliniana memoria.

Il tutto accompagnato da uno sciocchezzaio di maldestre elucubrazioni pseudo storiche: tanto l’affermazione di premier Giorgia Meloni che lo Stato non crea lavoro, stante che il modello di imprese partecipate dal pubblico (IRI) venne messo a punto proprio durante il ventennio fascista, quanto i deliri dell’imbarazzante ministro della cultura Gennaro Sangiuliano, secondo cui il padre del pensiero destrorso moderno sarebbe nientemeno che una summa della cultura medievale quale Dante Alighieri.
Dunque, l’eclettica mescolanza di fascismo e classismo, globalismo proprietario e razzismo, in apparenza senza capo né coda, di cui l’impegno ricostruttivo richiede il ricorso a categorie più antropologiche (e magari psicanalitiche) che non propriamente politiche, quanto strettamente interconnesse tra loro: la mentalità con i suoi pregiudizi e la composizione sociale con le sue fobie.

Insomma, valori e modelli di rappresentazione rigorosamente radicati nel modo di pensare del ceto di provenienza dell’odierno personale di governo; del suo milieu d’appartenenza e frequentazione. Il referente, da cui questi governanti traggono ispirazione per definire le priorità d’agenda e il cui consenso, quale bussola di orientamento permanente nella loro azione politico-comunicativa: idee e linguaggio, distillati dalla comune tradizione identitaria da Strapaese.
Ossia il ceto medio italiano, di estrazione in larga misura impiegatizia. Una prevalenza da elevare, nelle sue multiformi declinazioni concrete, a questione centrale per la definizione del nostro sistema politico; per penetrare il mistero di un Paese irrimediabilmente destrorso anche se si è dato una Costituzione antifascista (possiamo dirlo? In quanto largamente influenzata dagli esiti del secondo conflitto mondiale); intrinsecamente contro-riformista. Ergo, già tendenzialmente fascista, nonostante il ruolo di contrasto da parte di minoranze d’orientamento progressista, pure presenti.

Tema segnalato per la prima volta da chi – probabilmente – fu il più attento analista del regime mussoliniano statu nascenti: Piero Gobetti. Per cui, se il prodigioso ragazzo torinese – nella sua precocissima Rivoluzione Liberale – definisce il Fascismo «autobiografia della nazione», completa immediatamente l’analisi con la notazione «in Italia non ci sono proletari e borghesi: ci sono soltanto classi medie»[1]. Un fenomeno in espansione costante nel secondo dopoguerra, poi in accelerazione negli anni ‘60, che Giuseppe De Rita definirà a posteriori “cetomedizzazione di massa”. «il grande fenomeno maturato nel sottosuolo della società e su cui fino alla metà degli anni ’70 non si misurò nessuno. […] Eravamo troppo impegnati, dal ’55 al ’72, a spiegare altri temi (la ricostruzione, il cosiddetto miracolo, la responsabilità pubblica in materia di sviluppo, i rapporti tra industrializzazione e urbanizzazione)»[2]. Fatto sta, «non è azzardato sostenere che l’invaso borghese che ne derivò, alla metà degli anni ’70, contenesse più del 90 per cento della società italiana»[3]. Un compattamento nella medietà che, se non produce dominio, crea un mood tale da uniformare ai suoi criteri “mediani/reazionari” l’intera società. Più umori e irrequietezza che non saldi convincimenti. Fisime e Risentimenti.

Quanto confermava un Eugenio Scalfari d’annata, sulle pagine di MicroMega 1994:
«da noi per piccola borghesia si è inteso finora quel gruppo sociale che deriva dall’impiego in genere e dall’impiego pubblico in particolare [che] ha avuto a Roma e nel Mezzogiorno il suo epicentro e il suo bacino di reclutamento. La piccola borghesia impiegatizia non ha mai ricoperto nella storia d’Italia un ruolo politicamente egemone, ma ha esercitato un forte peso condizionante soprattutto sul piano del consenso, del voto di scambio e della clientela. Piccoli favori, sbocchi occupazionali, tutela del reddito, istituti di assistenza: con l’uso in dosi massicce di questi strumenti i governi hanno organizzato e ottenuto l’appoggio della piccola borghesia impiegatizia a detrimento del bilancio e dell’efficienza complessiva del sistema. II ruolo degli impiegati ha avuto un’importanza politica particolare durante i governi Depretis e Giolitti, ma ha toccato il suo culmine nel cinquantennio democristiano. Era prevedibile che quel ruolo si sarebbe fortemente ridimensionato con la caduta della Dc e del sistema dei partiti che ad essa facevano corona. Ma è stata soprattutto la crisi economica degli anni Novanta a far retrocedere la borghesia impiegatizia in posizione di coda, essendo venute a mancare le risorse con le quali per tanti anni la sua quota di prelievo dalla ricchezza nazionale era stata alimentata. È emerso invece per la prima volta in Italia un altro aggregante sociale: quello appunto della piccola borghesia commerciale e industriale; il piccolo commercio, la piccola e media impresa, il lavoro autonomo e tutto il grande pianeta del “terziario” che in gran parte coincide con l’economia sommersa, con il “nordismo”, con un liberismo molto spinto e molto corporativo […]. Questa è dunque l’attuale situazione italiana. Un segmento di classe media si è affacciato per la prima volta e direttamente alla politica e si è “prenotato” alla guida dello Stato, ma si tratta proprio di quel segmento nel quale il cosiddetto senso dello Stato fa maggior difetto e che è portatore di interessi e valori profondamente conflittuali con quell’interesse generale che costituisce il fondamento stesso e la ragione necessaria dello Stato»[4].

Come detto, una dinamica rimasta a lungo fuori dai radar dell’indagine politologica. Semmai erano state le antenne sensibili della letteratura – oltre al giornalismo d’inchiesta – a percepire ciò che Pierpaolo Pasolini avrebbe denominato “il grande imborghesimento”; le cui miserie erano state romanzate già tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento: il mezze maniche lombardo Demetrio Pianelli, narrato da Emilio de Marchi nel 1890, si rispecchia nel pover’uomo Policarpo De’ Tappetti, pubblico impiegato romano del racconto di Luigi Arnaldo datato 1903; entrambi avendo come antesignano l’immortale Monsù Travet della commedia piemontese di Vittorio Bersezio, rappresentata per la prima volta nel 1863. Appunto, un inventario di miserie e acrobazie inenarrabili per difendere il decoro precario di un’umanità ossessionata dal timore di scivolare da penultima alla condizione di ultima nella scala del prestigio sociale (e ritrovarsi nell’aborrito gorgo dell’indistinto popolar/plebeo).
Per dirla con Pierre Bourdieu, «affermare la posizione che si occupa nello spazio sociale come rango da conservare o distanza da mantenere»[5].

Riscoprendo l’Italia di Demetrio e Policarpo
Sicché fu necessario attendere il 1974 perché si giungesse all’effettiva attenzione delle scienze umane a questo fenomeno pure così importante, sia per l’esplorazione della società italiana che per la messa a fuoco del marchio confisso storicamente nella mentalità collettiva nazionale; grazie a un importante economista in “libera uscita” sociologica: Paolo Sylos Labini, il cui “Saggio sulle classi sociali” divenne rapidamente un best-seller. Poi un classico.
«Se si considera che la piccola borghesia è spezzettata in tanti e tanti gruppi (localmente, in tante e tante clientele) e che non pochi di questi gruppi sono costituiti in misura notevole da individui famelici, servili e culturalmente rozzi – da quelli che chiamerei i topi nel formaggio – si comprende perché nella nostra vita pubblica siano così diffuse pratiche non di rado sgradevoli e perfino ripugnanti»[6]. Ma – come si diceva – una protervia perennemente sulla difensiva. Quanto ribadisce pure Sylos: «questi individui sono spesso indotti dall’ansia di differenziarsi a prendere anche politicamente le posizioni più reazionarie»[7]. Per poi arrivare – si direbbe con ispirazione profetica – proprio dove attualmente siamo giunti: «in periodi di crisi, un’alleanza fra la grande borghesia e ampi strati della piccola borghesia può condurre al fascismo»,[8] (detto la bellezza di mezzo secolo ante avvento di Giorgia Meloni). Mentre, solo cinque anni dopo il Saggio del celebre intellettuale, l’antropologo Carlo Tullio-Altan e lo statistico Roberto Cartocci completarono l’opera fornendo una cornice storiografica al quadro umano: le origini di una tipologia nazionale e relativa mentalità. Il tutto collocato alla fine dell’irradiamento italiano (quello che Fernand Braudel chiamava “il Secondo Rinascimento”); l’inizio del lungo declino, dalla metà del XVII secolo, che storpia definitivamente i caratteri nazionali forgiati nell’epopea comunale mercantilistica, poi nel Secoli d’Oro della formidabile produzione artistica finanziata grazie alla grande accumulazione capitalistica precedente. Ossia, la fine del “primato” riprodotto nei “caratteri” e segnato dal passaggio dell’italiano al francese come esperanto linguistico; la koyné dell’Europa colta. Dall’Accademia della Crusca all’Accadémie Française.

«La vecchia classe dirigente, venuta meno in gran parte la sua funzione storica, risultò esautorata e venne ricacciata nella sfera locale, dove le vennero lasciate notevoli zone di autonomia amministrativa. […] Ma la caratteristica forse più significativa di questa classe privilegiata fu quella del consumo delle rendite fondiarie nei centri abitati, che persero quasi del tutto la loro funzione produttiva di un tempo, si ingrandirono – soprattutto nel Meridione – in conseguenza del formarsi di una società parassitaria, composta dalle famiglie dei nobili o ricche, del loro servidorame, e da un sottoproletariato composto di artigiani che lavoravano per soddisfare la domanda dei nobili consumatori, e di faccendieri di ogni tipo che vivevano di espedienti»[9].
Analisi da cui emergono – procedendo per grandi contrapposizioni – le profonde differenze tra i processi formativi nelle placente palaziali dei nostri ceti medi, rispetto a quelli propri delle grandi nazioni europee – in primis inglese e francese – di estrazione artigiana; e quindi segnati da forte vocazione all’indipendenza. Ossia i gruppi sociali in cui vennero reclutati i volontari del New Model Army di Oliver Cromwell e le masse di manovra giacobine; nelle rivoluzioni del “lungo Settecento (1689-1789) che abbatterono l’Ancien Régime e decapitarono i re. Tempo dopo i contadini meridionali, guidati dal clero oscurantista, avrebbero ucciso a forconate i Pisacane.

Come non riconoscere nella mutria di questo “servidorame reazionario” nazionale, plebeo anche nel suo essere odiatore del popolo, tracce dell’eterna Italia profonda riportata alla luce nel dopoguerra dalle investigazioni sul campo di politologi americani in trasferta nel nostro Mezzogiorno: l’antropologo Edward Banfield che, studiando la società lucana, individua la dominante rappresentata dal “familismo amorale”[10]; il politologo Joseph La Palombara teorizzatore della diade “clientela-parentela” quale costante modalità italica di acquisizione/organizzazione del potere[11].
Gli arcaismi irranciditi che Giorgia Meoni occulta astutamente per non mostrare il proprio vero volto, ma che vengono spudoratamente esplicitati dal cognato maldestro Francesco Lollobrigida, ministro di Fratelli d’Italia per meriti familistici; che paventa da suprematista bianco il pericolo di “sostituzione etnica” rappresentato dall’arrivo di immigrati africani di epidermide più scura. Questo virgulto dell’Agro Pontino che probabilmente si ritiene la quintessenza della razza superiore e che vorrebbe spedire tutti i nostri giovani a zappare la terra, mentre ripropone l’orrida metafora dei “fancazzisti sul divano” per i percettori del reddito di cittadinanza. Come se un bonus di neppure 600 euro medi consentisse bagordi e lussi faraonici a un nucleo familiare in miseria. Al di là dei difetti del contestato provvedimento (in particolare la confusione fatta dalla normativa vigente tra povertà assoluta e relativa, che induce a presumere di affrontare anche la prima in termini di occupabilità, impraticabile nel caso di anziani o gravi disabili sprovvisti di altre forme di reddito), bersaglio dell’odio nei confronti dei “poveracci”, percepiti come “ceto pericoloso”, che si salda con il disprezzo legittimato dalla vague neoliberista di matrice anglo-sassone, manifestato da improvvisati proconsoli della restaurazione reaganiano-thatcheriana europea: il presidente francese François Hollande, segnalatosi nell’irridere i propri connazionali meno abbienti come “gli sdentati”, il premier rottamatore (di se stesso) Matteo Renzi che pubblicamente liquidava con sufficienza quanti avevano perso i lavoro: “sfigati”.

Americanismo straccione
Questa la falsariga su cui procede il nostro governo di destra estrema; in un palleggiamento tra fascismo redivivo, quale summa del risentimento difensivo piccolo borghese nella sua versione proterva più esplicita e violenta, e l’arroganza del privilegio legittimato dalla svolta reazionaria giunta al potere nel periodo 1978/1982, che vide l’insediamento di Margaret Thatcher quale premier inglese e l’ascesa di Ronald Reagan a presidente degli Stati Uniti. L’orrida mescolanza concettuale di cui si diceva all’inizio; il cui furbesco tatticismo, nell’ennesima caricatura della dinamica servo-padrone, produce gli esiti tendenti al paranoico evidenziati di recente dallo storico Paolo Favilli: «il progetto governativo di Meloni non sfiora nemmeno la sfera economico-sociale, regolata in automatico secondo l’agenda neoliberista. L’accettazione in toto di quell’agenda e delle sue narrative permette, però, di non mettere in pericolo il sostegno al suo governo dei poteri economico-finanziari dominanti. La retorica sui padroni come unici job creators, sebbene storicamente falsa, non è però indicativa di alcuna forma di fascismo. Tuttavia resta essenziale per mettere in sicurezza le politiche derivanti da ciò che i governanti, esponenti dell’attuale forma di fascismo, ascoltano davvero. Infatti il solido ancoraggio all’ordine sociale neoliberista, nazionale ed internazionale, scongiura qualsiasi intervento dei custodi di tale ordine nella sfera che Fratelli d’Italia considera l’area privilegiata della propria vocazione governativa»[12].

Nello specifico della Giorgia, la contraddizione apparentemente incomprensibile di questa Pasionaria reazionaria, cresciuta nel semi-popolare quartiere romano della Garbatella e formatasi alla politica militando nel Fronte della Gioventù, l’organizzazione della Destra Nazionale apparecchiata con la paccottiglia patriottica del Fascismo movimento, che oggi per le grandi scelte di indirizzo si uniforma senza il benché minimo tentennamento al pensiero unico del tempo. Seppure questo tempo rintocchi la fine del secolo americano e l’esaurimento della stagione NeoLib. Comunque il mainstream che in apparenza un/a destro/a sociale dovrebbe aborrire. Indubbiamente qui gioca l’opportunismo della ragazza in carriera; la sua ansia di essere accolta nel presunto salotto buono, seppure in posizione subalterna. Ma in tale adesione ai diktat imperiali c’è qualcosa di genuino quanto rivelatore: ancora una volta il servilismo reazionario di chi vuole blandire il padrone e – al tempo stesso – la costante del ceto medio fascistizzato di coltivare l’ammirazione della protervia. E se un caposaldo del pensiero di destra è la tradizione, nella versione mussoliniana prevale soprattutto il principio gerarchico-autoritario come orizzonte prospettico prevalente. Il me ne frego, spia dell’assoluta mancanza di senso del ridicolo (che diventa furore se messi alla berlina da un innocuo vignettista, la cui presa in giro evidenzia la precarietà emotiva di questi insicuri/e pretenziosi/e).

Dunque, l’omaggio vassallatico ai padroni del mondo in quanto tali consente di potersi concentrare sull’unico disegno pensabile per chi concepisce la politica come una campagna elettorale permanente: consolidare la propria presa sulla base elettorale di riferimento riportando le lancette della storia all’indietro. A quell’Italietta “grande proletaria”, con tutti gli ammennicoli del buon (?) tempo antico rimessi a nuovo grazie all’opera di cancellazione delle tracce di democrazia inclusiva e partecipata che la modernità novecentesca aveva calato – come un antidoto – nel mondo piccolo, autarchico e provinciale, diventato regime nel Ventennio; con tutti i suoi veleni. La corsa all’indietro, una sorta di rivincita di questo personale politico marginale per decenni, giunto al potere per una irripetibile congiunzione astrale, che tutto induce a ritenere l’estrema devastazione di quel che resta dell’Italia civile. E la realizzazione dell’habitat funzionale all’instaurazione di un regime oscurantista 2.0 di lunga durata. Operazione che se registra di sovente il silenzio assordante della premier, vede i suoi scherani impegnati nel lavoro sporco a tempo pieno: oltre al cognato tamarro/naif, ecco comparire il volto grifagno della seconda carica dello Stato, l’ex paninaro picchiatore sanbabilino siculo-milanese Ignazio Benito La Russa, presidente nel Senato, provocatore h24 alternando il serio al faceto, sempre promuovendo la delegittimazione ad ampio raggio della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista. Azione negazionista devastante che si avvale anche di promotori del ritorno al passato all’opera su temi specifici: dal revival della soluzione nucleare, che azzera ogni pensiero condiviso sull’urgenza di uscite di sicurezza verso le energie pulite, sostenuta a spada tratta dal commercialista di Biella Gilberto Pichetto Fratin, a capo di un ministero titolato ironicamente dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (con l’immancabile contributo del “rieccolo”, lo scienziato di Corte e di Palazzo Roberto Cingolani); al batrace dandy sul british Carlo Nordio, un ex magistrato carico di risentimenti verso la propria categoria, ora guardasigilli preposto al compito di estirpare la pretesa della magistratura di poter “disturbare il manovratore”; inteso come fare le pulci a un ceto politico affarista, per non dire di peggio, che si pretende al di sopra di ogni controllo. E che dire del ministro per il PNRR, oltre che per la Coesione e gli Affari Europei, Raffaele Fitto, incaricato di prendere tutto il tempo possibile per dare modo al governo Meloni di riconoscere il più tardi possibile che non è in grado di realizzare i progetti relativi ai 200 miliardi di euro piovuti dal cielo di Bruxelles come Recovery Fund; il finanziamento erogato al nostro Paese per quasi la metà a fondo perduto, destinato (sulla carta) a opere infrastrutturali che favoriscano la ripresa post Covid. Ossia la dissipazione di ciò che, quando l’allora premier Giuseppe Conte era tornato trionfante da Bruxelles con in tasca il più consistente aiuto allo sviluppo nella storia della Ue, era sembrata la massima opportunità che mai ci fosse capitata per invertire la corsa al declino nazionale. Tanto da scatenare un’avida corsa all’accaparramento dei potentati economici, perseguita con il cambio di governo ottenuto grazie al killeraggio del ben noto terminator Matteo Renzi e l’arrivo a Palazzo Chigi di un manovratore di fiducia dell’establishment internazionale, quale l’algido banchiere Mario Draghi. Ma allora l’opportunità Recovery era ancora in vita. Poi – dal settembre scorso – con l’avvento della banda Meloni l’unico impegno relativo è diventato quello di spiegare – a giustificazione della propria inadeguatezza e inettitudine – che l’ormai fantomatico Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza era solo un fastidio. Peggio, una trappola, da cui fuggire al più presto.

Ancora tre giorni prima del 25 Aprile (ricorrenza urticante per i destrorsi), intervenendo a un convegno, il ministro, storico braccio destro della Meloni, Guido Crosetto dichiarava con grave sprezzo del ridicolo che la colpa del fallimento annunciato non è di chi è incapace di spendere tutti quei soldi, ma il reo del misfatto di aver procurato all’Italia “troppi soldi”. La colpa imperdonabile di aver smascherato l’inadeguatezza di questi improvvisati pretenziosi; che pensano di salvare la faccia facendo risuonare l’immancabile coro per la distrazione di massa che il vero pericolo incombente è rappresentato dall’arrivo di qualche barcone di disperati provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo. Nell’alleanza di abbienti e impauriti di cui il ritorno in forze del servidorame piccolo borghese è l’agente, che promette il ripristino di una storia indecente, a cui ha già apposto in sei mesi il proprio marchio d’origine mediocre/pessimo; da cui si sperava di esserci liberati per sempre: il miserevole ritorno dell’Arci-Italia macchiettistica e inquietante. Familistica, risentita, abbarbicata al viluppo dei propri pregiudizi. Cattiva, come quella madre che Giorgia Meloni rivela di essere blaterando al diapason nelle adunate madrilene di VOX. Gente – ironizza Maurizio Crozza – «nostalgica del tempo in cui le puttanate arrivavano in orario».

La Thatcher de’ noantri
Nel frattempo, viene completato il puzzle dei referenti privilegiati dal governo Meloni; la base da blandire con provvedimenti legislativi e politiche ad hoc. In larga misura gente della propria risma, come la lobby dei balneari, difesi dall’altrettanto balneare ministra Daniela Santanché, pronti a innalzare barricate contro le direttive europee punitive delle rendite di posizione. Nel caso, la pretesa di opporsi alla rimessa in discussione dei loro ingiustificati vantaggi, attraverso l’andata a gara, da parte dei concessionari, da tempi immemorabili e a prezzi stracciati, di aree demaniali; e così – nel gergo meloniano – continuare nella “pacchia” a danno delle casse dello Stato (oltre che della possibilità di cittadini e famigliole di fruire dell’accesso gratuito a spiagge libere, come avviene normalmente in Francia).

Una prima inventariazione in materia ce l’offriva il Fatto Quotidiano del gennaio scorso, maneggiando il bandolo maleodorante che unifica una serie di provvedimenti («depenalizzazione dell’evasione fiscale, rottamazione delle pendenze esattoriali, via la Spazzacorrotti, taglio alle intercettazioni, abolizione della Severino con rieleggibilità dei condannati»[13]) direttamente a vantaggio di una tipologia ben precisa: la neo-borghesia affaristica. Dunque, un orientamento di stampo thatcheriano, secondo la descrizione della “Lady di ferro” tratteggiata dallo storico del Novecento Tony Judt: «una parvenu della lower middle-class con un’inclinazione per gli uomini d’affari nouveau riche»[14]. Ma a fianco degli arricchimenti dalla dubbia origine e di spudorata ostentatività, tipici di questi anni, c’è il secondo target – tanto per Margaret Thatcher come per Giorgia Meloni – che anche in questo caso è Judt a segnalarci: «riduzione delle tasse, libero mercato, privatizzazione di imprese e servizi, patriottismo, individualismo»[15]. Istanze riconducibili a un altro conservatorismo, che allignano nel modo piccolo dei bottegai e dei padroncini; nelle loro nevrosi ansiogene di mantenere un qualche distacco dall’odiata moltitudine degli ultimi; cui si vuole togliere persino il modesto puntello del reddito di cittadinanza per impedirgli di galleggiare.

Ecco – però – apparire, a fianco dei furbetti/furbacchioni insofferenti delle regole e degli impauriti alla ricerca di protezione e rassicuramento, un terzo soggetto, di ben maggiore peso: i signori dell’ordine costituito e i loro fiduciari (politici e maîtres à penser) preposti a giustificare il vigente sistema delle disuguaglianze. Potremmo chiamarli “i cittadini del Mondo Davos”; con la loro post-ideologia, che mentre attesta la fine di tutte le ideologie promuovendo il pensiero unico semplificatorio, fornisce alle due signore la corazza di convinzioni con cui promuovere le rispettive ascese politiche.
La figlia del droghiere di Grantham, nella marginale contea del Lincolnshire, e la ragazza venuta dal quartiere periferico della Garbatella; la prima eleggendo a propria guida spirituale un simil-filosofo austriaco – Friedrich Hayek – e l’altra cercando la pietra filosofale del successo negli States; nell’America della scuola di Chicago, a lezione dall’economista hayekiano Milton Friedman: il profitto è una forma di bene sociale e senza di esso una società libera non può funzionare; negli ultimi duecento anni grazie al libero mercato tutti gli indicatori di benessere si sono impennati; il capitalismo garantisce il dinamismo, il socialismo assicura dignità ma non mantiene quanto promesso; compito del governo è quello di garantire lo stato di diritto e poi levarsi di torno. Insomma, il sogno americano spiegato al popolo e riassunto nella formula friedmaniana “la responsabilità sociale dell’impresa è la massimizzazione del profitto”. Sempre la stessa solfa da oltre mezzo secolo. Ma mentre la dama arrivata dall’Inghilterra profonda non aveva avuto modo di verificare gli effetti di tali corbellerie dottrinarie, la nostra borgatara dalla voce baritonale avrebbe – volendo – modo di constatare il disastro prodotto – tanto alle persone come all’ambiente – da un turbocapitalismo senza regole, che elegge l’interesse avido a proprio criterio-guida.

Ed è stupefacente giungere a una tale valutazione, considerando che la premier – come si è già più volte detto – veniva annunciata quale portabandiera di una destra sociale propugnatrice di tutt’altre tesi: certo, un armamentario nostalgico arrugginito di cui non si sente la necessità ma che la premier alterna con qualcosa persino più pericoloso: la determinazione a farsi cooptare dall’establishment politico (la Casta), la sovresposizione ai richiami plutocratici delle diseguaglianze, dello sfruttamento e della demofobia (leggi l’odio verso gli ultimi). Un po’ Mario Draghi, un po’ Flavio Briatore.
Per cui, la nostra puffetta mannara Giorgia on my mind ci sta cantando una vecchia canzone che suscita soltanto ricordi tristissimi di impoverimenti e disunione civica.

[1] P. Gobetti, La rivoluzione liberale, Einaudi, Torino 1964 pag. 179

[2] G. De Rita, Che fine ha fatto la borghesia (con M. Cacciari e A. Bonomi), Einaudi, Torino 2004 pag. 41

[3] Ivi pag. 43

[4] E. Scalfari, “Meditazioni sul tramonto della borghesia”, Micromega 4/1994

[5] P. Bourdieu, La Distinzione – Critica sociale del gusto, il Mulino, Bologna 1983 pag. 57

[6] P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma/Bari 1974 pag. 53

[7] Ivi pag. 54

[8] Ivi pag. 83

[9] C. Tullio-Altan e R. Cartocci, Modi di produzione e lotta di classe in Italia, Mondadori, Milano 1979 pag. 39

[10] E. C. Banfield, The Moral Basis of a Bacward Society, Free Press, New York 1958

[11] J. La Palombara, Clientela e parentela – studi sui gruppi di interesse in Italia, Ed. Comunità, Milano 1967

[12] P. Favilli, “Con coerenza Meloni continua a parlare alla fiamma”, il Manifesto 15 aprile 2023

[13] A Padellaro, “Rottamazione di tutti i reati contro la P.A.”, il Fatto Quotidiano 25 gennaio 2023

[14][14] T. Judt, Postwar, Laterza, Roma/Bari 2017 pag. 669

[15] Ivi pag. 667

 

Foto Governo italiano, Presidenza del consiglio dei ministri 



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