Marry-your-rapist law: 40 anni fa in Italia era così

Nel 1981 in Italia sparisce dalla legislazione l’odiosa e iniqua possibilità, tutta maschile, di ricorrere al matrimonio riparatore dopo la violenza sessuale.

Monica Lanfranco

Soltanto 4 decenni separano l’Italia di oggi da quello stesso paese nel quale un uomo, dopo aver stuprato una donna, poteva sottrarsi al carcere, evitando la condanna penale come quella morale, semplicemente sposandola. Il 5 agosto 1981 in Italia sparisce dalla legislazione l’odiosa e iniqua possibilità, tutta maschile, di ricorrere al matrimonio riparatore, (parente stretto del ‘delitto d’onore’), dopo la violenza sessuale, ma questo passaggio epocale non è senza traumi.

I traumi, incancellabili, furono e restano incarnati nei corpi e nelle vite di centinaia di donne, (parliamo solo di quelle italiane, nel mondo sono ancora milioni) che prima di quella data non hanno avuto scampo, vivendo la loro esistenza in una gabbia legalizzata, sotto gli occhi della collettività, chiamata matrimonio. Vale la pena di ricordare la filosofia che legittimava in Italia gli uomini a violentare, o uccidere impunemente le donne, prima di quella data.

L’articolo 587 del Codice Penale Rocco, in vigore dal ventennio fascista fino al 1981 così recitava: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella”.

L’atto d’ira, quindi, veniva in parte motivato e giustificato dal fatto che l’uomo, e la sua famiglia, fosse stato disonorato. La fine in Italia di questa ingiustizia criminale, che secondo l’ultimo report dell’UN Population Fund (UNFPA) attesta in vigore il matrimonio riparatore, definito dalle Nazioni Unite Marry-your-rapist law in 20 paesi nel mondo tra cui Mali, Niger, Senegal, Russia, Thailandia, Iraq, Kuwait, Iran, Afganistan e Venezuela porta il nome di Franca Viola. Ne ha scritto in un libro, dal titolo Niente ci fu, la narratrice e drammaturga siciliana Beatrice Monroy, che dieci anni fa raccontò a Genova la storia di Viola e del contesto politico e sociale nel quale maturò la volontà legislativa di chiudere una fase oscurantista, durata ben 15 anni dopo la sua personale vicenda.

Nel 2018 sono state le attiviste femen Inna Shevchenko e Pauline Hillier ad analizzare lo stretto e letale legame tra tradizione patriarcale e fondamentalismo religioso che nutre la logica dell’onore e del matrimonio riparatore e di quello forzato nel loro Anatomia dell’oppressione: “I matrimoni organizzati o forzati a volte rispondono a una spersonalizzazione tradizionale della relazione amorosa. Il matrimonio è vissuto come un ‘contratto’ stipulato davanti a Dio, per servirlo, e non risponde al richiamo dell’amore. Nell’ebraismo gli ‘incontri organizzati’ (chiddur) da sensali (chadkhan) orientano i giovani ebrei verso la scelta dei loro congiunti. L’idea di Dio schiaccia tutto ciò che incontra, persino l’amore. Dopo il matrimonio il corpo della donna trova un proprietario, e la sua esistenza un senso, così ogni parte del corpo deve rispondere ai comandamenti e ai desideri del marito, che a partire da quel momento scavalcano quelli del padre o dei fratelli. Ciò che colpisce in primo luogo negli scritti religiosi è che in molte formulazioni che descrivono il matrimonio i coniugi non si scelgono l’un l’altro: è l’uomo che sceglie la donna. In tutti i testi sacri le formule suggeriscono che i padri ‘danno le loro figlie’. Il Deuteronomio (7, 3) ordina: “Non entrerai in matrimonio con questi popoli, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli”. Nel versetto 12 della sura 3 del Corano donne e bambini appaiono come ‘possedimenti’ tra altre piacevoli ricchezze: “L’amore per i piaceri, come donne, bambini, i tesori d’oro e d’argento, i cavalli superbi, le greggi e i campi, tutto ciò sembra bello per gli uomini, ma sono solo godimenti temporanei; il delizioso ritiro è con Dio””.

Prima del 1981, un battito di ciglia nella storia italiana dei diritti, la violenza su una donna era una colpa e una condanna per la vittima, non per il perpetratore: una bella cerimonia in chiesa con fiori e invitati metteva a tacere ogni eventuale rigurgito di coscienza o di giustizia.

Il ‘danno’, ovvero lo stupro, cancellato. La fine di quella ignominia segna un anniversario sul quale riflettere, visto che soltanto una generazione di donne italiane, grazie alle lotte femministe, ha potuto crescere in un paese nel quale non è più possibile ricorrere alla riparazione matrimoniale dopo la violenza.

Il ferale computo dei femminicidi, l’aggressività verso le donne e le ragazze, la misoginia che ammorbano i social intossicando le giovani generazioni stanno però lì a ricordarci che, se l’evoluzione delle leggi è indispensabile, il cammino culturale per sradicare l’ancestrale e pericolosissimo senso di possesso maschile impunito sui corpi e le vite delle donne è ancora molto, molto lungo.



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