Il Mattarella bis e il commissariamento della politica

Come il “il partito di Draghi” ha silurato la candidatura di Elisabetta Belloni al Quirinale. I retroscena della rielezione di Sergio Mattarella.

Mario Barbati

Lo scenario politico, impotente prima e da rovine postbelliche poi, a cui abbiamo assistito è la conseguenza del commissariamento della politica, l’idea che l’indirizzo politico debba essere “tecnico” e “neutro”, possibilmente calato dall’alto, evitando le scelte politiche, il confronto e la battaglia delle idee, i conflitti sociali, la contrapposizione tra interessi legittimi, che di una democrazia sono la forza, perché producono cambiamenti e innovazioni senza spargimenti di sangue.

Così non abbiamo assistito all’elezione di un capo dello Stato (era l’ultima cosa a cui i grandi elettori pensavano), ma all’elezione di un Presidente della Repubblica che avrebbe determinato il governo del Paese, il capo del governo e i suoi relativi ministri, la maggioranza di governo, lo scioglimento o meno del parlamento, i tanto agognati vitalizi dei parlamentari per cui bisogna avere tanta comprensione.
Un giro di roulette che avrebbe determinato tutto, una competizione tra bande politiche nell’arena di Montecitorio, che sempre c’è stata nella storia delle elezioni ma che in passato avevano cultura politica e rispetto reciproco, ora invece antepongono la loro sopravvivenza alla scelta di una figura adatta.

In questo quadro nasce il Mattarella bis, la seconda rielezione di un capo dello Stato. Dopo che per mesi lo staff del Presidente aveva fatto trapelare notizie del contratto d’affitto, immagini di scatoloni, traslochi nella casa di Palermo, traslochi in quella di Roma. E dopo le sue inequivocabili dichiarazioni come: “Leone ripropose la sollecitazione, già sottolineata dal presidente Segni, di introdurre la non rieleggibilità del presidente della Repubblica, con la conseguente eliminazione del semestre bianco”.

È il secondo Presidente eletto per la seconda volta Mattarella, dopo Napolitano, e con 759 voti è il secondo presidente più votato in 76 anni di storia dopo Sandro Pertini. Ora tutti i leader politici considerano la rielezione una vittoria per non dichiarare il default del sistema politico di cui sono responsabili (Bersani nel 2013 si dimise) e per non ammettere che non sono in grado di tirare fuori un nome all’altezza della più alta carica dello Stato.

Torsione, forzatura, anomalia della consuetudine costituzionale sono le espressioni di questi mesi. Chi fa informazione e racconta gli eventi all’opinione pubblica, ha il dovere di non nascondere che nei giorni in cui il numero dei voti per Mattarella cresceva (16, 39, 125, 166, 46, 336, 387 nei primi sette scrutini), dal Colle non è mai stata diramata una nota di ringraziamento ma di fermezza esplicita sulle posizioni note. Sulla figura di garanzia di Mattarella non si dubita, ma non si può non ricordare come proprio Napolitano perse consenso e popolarità dopo la rielezione. Aldo Cazzullo ha opportunamente ricordato quello che nel merito disse Ciampi: “La rielezione è incompatibile con l’istituzione repubblicana”. Il secondo mandato da eccezione diventa prassi e chiunque in futuro dal Colle potrà legittimamente aspirare a un doppio settennato, 14 anni, citando i precedenti. A meno che, e ci permettiamo di auspicarlo, il Mattarella bis non sia l’occasione per introdurre il divieto di un secondo mandato per il Presidente della Repubblica.

L’impasse si è determinata perché dalla casella del Colle sarebbe dipesa quella del governo. Dopo il giro di giostra di Salvini che fa ballare il parlamento in seduta comune nei primi giorni con rose, terne e quaterne messe al rogo della politica, dopo l’autocandidatura della Casellati che cercava la conferma di non essere votata nemmeno dai delegati del suo partito, la svolta arriva venerdì scorso intorno alle 18 con il primo vertice alla Camera tra Letta, Conte e Salvini. I primi due propongono al terzo, intontito dalle innumerevoli proposte andate in fumo, una rosa di nomi: Amato, Casini, Cartabia, Severino, Belloni. Tra questi solo uno non ha mai avuto veti e potrebbe trovare un largo consenso, da Meloni ai 5 stelle: è quello di Elisabetta Belloni.

L’annuncite, che è uno dei mali dei nostri tempi, nel flusso continuo delle notizie che richiede l’esibizione e l’affermazione del proprio ruolo per la paura di perderlo, fa uscire allo scoperto prima Letta (“sono molto ottimista, bisogna trovare una soluzione per una presidente o un presidente all’altezza di Mattarella”), poi Salvini (“lavoro perché si chiuda domani su un presidente della Repubblica donna”), infine Conte (“saremmo contenti che ci sia la disponibilità da parte di tutte le forze politiche ad avere un presidente della Repubblica donna”).

L’impegno è quello di risentirsi, consultare gli alleati ma già nella notte il nome di Belloni crea il panico tra le forze politiche ed entra in azione “il partito di Draghi”, trasversale a tutti ma il cui nome nessuno ha avuto il coraggio di esplicitare come candidatura ufficiale. La figura di Mario Draghi ha comportato spaccature trasversali tra i gruppi parlamentari. Le alleanze che si formano per eleggere il presidente della Repubblica non dovrebbero mettere in fibrillazione la maggioranza di governo, almeno in una democrazia solida e quindi non nella nostra. Sono scelte diverse con mandati e tempi diversi: i padri costituenti pensarono a tempi sfasati proprio per non sovrapporre le cariche. Il presidente della Repubblica è il garante delle istituzioni democratiche e dell’unità nazionale, non è il garante del Pnrr e del debito pubblico.

Così nella notte tra venerdì 28 e sabato 29 gennaio scopriamo in diretta televisiva che non “Una” di nome e “Donna” di cognome, ma una diplomatica che ha servito il Paese come ambasciatrice, poi per anni al ministero degli Esteri, stimata per la gestione di crisi come quelle degli ostaggi italiani all’estero, attenta alle esigenze e al dialogo con le organizzazioni non governative, che non si è mai fatta cooptare dalla politica politicante dei partiti, non sarebbe adatta e compatibile con la Presidenza solo perché nominata da sette mesi al vertice dei servizi segreti, proprio da Mario Draghi, con cui i rapporti istituzionali sono ottimi. Invece, sarebbe andato benissimo un premier che passa direttamente da Chigi al Colle, eletto dalla stessa maggioranza per due poteri istituzionali che hanno compiti diversi, e tutti applaudiamo al secondo mandato consecutivo di un presidente della Repubblica. Senza dimenticare Cossiga, che è stato presidente della Repubblica mentre si scopriva essere il fondatore di Gladio.

Renzi spara a zero: “Solo in un Paese antidemocratico il capo dei servizi segreti diventa Presidente della Repubblica”. Forza Italia si dichiara contraria. Di Maio smentisce Conte e Grillo: “indecoroso buttare in pasto il nome della Belloni senza accordo”. Anche Guerini considera inopportuna l’ipotesi Belloni.

Proprio Di Maio e Guerini sono ministri nel governo Draghi, insieme agli altri perseguono l’ascesa del premier al Colle e remano contro i rispettivi leader.

Il nome della Belloni crea il panico non per la carica che ricopre da pochi mesi ma perché è l’unico che potrebbe trovare i numeri se i gruppi fossero compatti e seguissero le indicazioni dei capi politici. I 234 grandi elettori del M5s sommati ai 212 della Lega, ai 154 del Pd e ai 63 di Fratelli d’Italia sarebbero ampiamente sufficienti a eleggere la presidente Belloni. Il mattino seguente la candidatura è già bruciata e Salvini ammette: “c’è una parte del Parlamento che non vuole trovare un accordo” e rilancia il Mattarella bis. La destra si spacca e la Meloni dichiara: “il centrodestra non c’è più”. A sinistra e nei 5 stelle volano gli stracci di cui si sapeva da mesi.

Domanda: quelle che Flores d’Arcais chiama le “non destre” (Pd-M5S-LeU) hanno assorbito il fatto che la crisi e la caduta del Conte 2 mirava proprio a impedire la nascita di un campo progressista? Letta e Conte che tipo di leadership possono esprimere se non controllano i gruppi parlamentari e anzi, hanno al loro interno chi va in direzione ostinata e contraria a qualunque decisione? Inoltre: che senso ha far votare gli iscritti del M5S su Conte leader con un consenso “bulgaro” (92% di si) ed eleggere Letta segretario del Pd praticamente all’unanimità se nei partiti non ci sono più quelli che un tempo si chiamavano congressi? Piattaforme politiche che si confrontano e da cui viene fuori una maggioranza e una minoranza, una linea, una visione delle cose. È il dramma politico dei partiti italiani, che esprimono ipocritamente capi politici per conservare il potere, senza una vita democratica interna. In più, c’è la partita che riguarda la selezione dei candidati per la prossima legislatura, nominati dai capi con l’attuale legge elettorale. Quasi tutti i ‘dimaiani’ sono al secondo mandato e preparano un riposizionamento. Tutto questo spiega la guerra senza esclusione di colpi Conte-Di Maio, Salvini-Giorgetti, Letta-correnti del Pd.

Valerio Valentini rivela su Il Foglio un dialogo in Transatlantico tra Di Maio e Beatrice Lorenzin, con il primo che dice: “Giocavano sul fatto che io non ne sapessi niente, due furboni (riferendosi a Conte e Salvini, ndr). Ma appena abbiamo capito l’aria che tirava ci siamo sentiti con Guerini e abbiamo bloccato tutto’. Eccolo, il ministro della Difesa. Mezz’ora più tardi, un piano più giù, appena fuori dalla Sala del Mappamondo… ‘Abbiamo evitato di mettere la presidenza della Repubblica nelle mani di due personaggi in cerca d’autore trovati per strada’, sibila il ministro. Manco a dirlo, si riferisce pure lui all’operazione Belloni, di cui poi spiega i dettagli a Marcucci. ‘C’hanno provato davvero, altroché”.

La rielezione di Mattarella è solo il primo tempo di una partita che si giocherà nei prossimi mesi. Se il mandato del Presidente dovesse finire prima dei sette anni, ci potrebbe essere la “staffetta” al Colle con Draghi, una sorte di elezione posticipata. Alcune forze e leader politici spingeranno per cambiare la legge elettorale ma in senso proporzionale, con la scommessa di far sparire le coalizioni e lasciare i partiti secondo uno schema di moto centripeto, che magari confermi Draghi al governo anche dopo le elezioni del 2023. Con la costituzione di una maggioranza che nasca intorno al “draghismo”, eliminando chi ne sta fuori o ne propone delle alternative.

È quello che il direttore del Foglio Claudio Cerasa ha definito il “Forza Draghi. Un elogio di chi ci ha provato. Letta, Giorgetti, Fedriga, Zaia, Di Maio, Renzi, Toti, Brugnaro. La battaglia quirinalizia ha illuminato un fronte trasversale che avrà un peso nel futuro”. Rino Formica (l’ex ministro socialista, quello che “la politica è sangue e merda”) ha dichiarato a La Stampa: “Per la prima volta abbiamo assistito a un attacco del potere esecutivo al potere di garanzia. In queste settimane si è consumato uno scontro tra chi voleva mantenere l’equilibrio dei poteri previsto dalla Costituzione e chi voleva cambiarlo a Costituzione invariata”. A chi si riferisce Formica? “All’ambizione di un ‘partito personale’. Mai l’istituzione (il governo, ndr) si era fatta partito. Quasi nessuno dei ministri draghiani sarà candidato nel proprio partito”.

Fossimo in Draghi, che davvero per l’Italia rappresenta una risorsa e che ha grandi competenze per giocare ruoli ben diversi, lasceremmo perdere queste alchimie politiche. Dopo la lettera che lo stesso Draghi ha pubblicato con il presidente Macron sull’esigenza di ripensare il fondamento dell’Unione europea e la ristrutturazione del debito, la presidenza della Commissione europea nel post von der Leyen sarebbe il luogo dove potrebbe lasciare il segno e cambiare le sorti del continente.

Quanto all’Italia, la democrazia parlamentare è guasta, non funziona più. I parlamentari non rispondono più agli elettori, che non li scelgono, e non rispondono ai capi politici senza la garanzia di essere ricandidati. Sarebbe bello se proprio dalla società civile, da coloro che ancora hanno a cuore la democrazia, arrivasse una proposta dal basso di modifica dell’articolo 49, sulla trasparenza e la democraticità dei partiti. Anche il Financial Times di ieri sottolinea: “le prospettive a lungo termine per la democrazia italiana appaiono fosche. Ricorrere ai tecnocrati non è una buona soluzione a lungo termine per una democrazia moderna”.

È stata la notte dei maschi, pure parecchio incapaci, della Repubblica.



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