Meddlers contro Riggers: la crisi del sistema rappresentativo statunitense

Nel 2016 si fece un gran parlare della possibilità che le elezioni Usa fossero state influenzate dalla Russia. Viene un po’ da sorridere considerando che è più di un secolo che Washington interferisce pesantemente nella vita degli altri Paesi. Breve ricognizione sull’“istituto” dell’ingerenza straniera, dai colpi di Stato nelle Banana republics agli interventi umanitari della fine del secolo, passando per l’antica Grecia.

Marco d'Eramo

“Meddle: to involve oneself in a matter without right or invitation; interfere officiously and unwantedly” (implicarsi in una questione senza averne diritto o senza invito; interferire ufficiosamente e senza essere voluti). Così recita il dizionario americano Webster. Meddling, “ingerenza”, è un’altra di quelle parole che infuriano in una stagione per poi scomparire altrettanto misteriosamente, come fossero un ceppo d’influenza. Per due anni questa parola ha dominato la vita politica statunitense, pareva che avesse determinato il risultato delle elezioni presidenziali 2016, ha provocato persino un procedimento d’impeachment. Poi però nelle elezioni 2020, nessuno ha più meddled. I meddlers sono scomparsi. Il verbo alla moda è diventato to rig, “manipolare”. Donald Trump era stato accusato dai suoi avversari sconfitti di aver vinto grazie al meddling di una potenza straniera, mentre l’appena insediato Joe Biden è stato accusato dal suo avversario sconfitto di aver vinto grazie a una frode interna, a una manipolazione, per aver falsificato le carte, perché le elezioni erano rigged, a tal punto da aver incitato una folla a prendere d’assalto il Campidoglio di Washington il 6 gennaio scorso: ultimo sconcertante regalo dei Tre magi per il giorno dell’epifania.

La crisi del sistema rappresentativo statunitense si è perciò manifestata in due modi diversi, consoni ognuno alla rispettiva indole politica dei partiti che hanno impugnato queste accuse. Nell’accusa d’ingerenza lanciata alla Russia si coglie l’eco della mentalità dei cold war liberals. Addirittura, a un certo punto sembrava di assistere a un remake del film del 1962 The Manchurian candidate (tradotto in italiano col titolo “Va e uccidi”) su un candidato alla presidenza che in realtà è un agente dei sovietici, tanto era sfacciata la trama narrativa. A tutti noi – che non siamo né russi né statunitensi – veniva da sorridere al pensiero che gli Stati Uniti accusano un altro stato d’ingerenza nelle proprie elezioni, quando è più di un secolo che Washington interferisce pesantemente nella vita degli altri Paesi. Per un’ironia della sorte furono proprio gli Stati Uniti a praticare la più sfacciata interferenza nelle elezioni dell’ex Unione Sovietica nel 1996.

Cito un articolo di The Atlantic (22 luglio 2018):
“La terapia choc delle riforme economiche di Yeltsin aveva ridotto la rete di protezione statale e prodotto un picco di disoccupazione e inflazione. Tra il 1990 e il 1994 l’aspettativa di vita media dei russi era crollata di ben sei anni. Quando Yeltsin cominciò la campagna per la sua rielezione nel gennaio 1996, il suo tasso di consenso era al 6%… Così l’amministrazione Clinton si mise in azione. Fece pressione sul Fondo monetario internazionale per concedere alla Russia un prestito di 10 miliardi di dollari, una parte dei quali Yeltsin distribuì ai propri elettori. Quando arrivava in una città, spesso annunciava: ‘Ho le tasche piene’. Tre consulenti politici americani – compreso Richard Dresner, un veterano delle campagne di Clinton in Arkansas – andarono a lavorare per la rielezione di Yeltsin. Ogni settimana Dresner spediva alla Casa Bianca i sondaggi interni della campagna di Yeltsin… E funzionò. In un capovolgimento improvviso, Yeltsin – che aveva cominciato la campagna all’ultimo posto – sconfisse il suo avversario comunista di ben 13 punti percentuali. Talbott dichiarò che ‘molti osservatori internazionali avevano giudicato quest’elezione libera e corretta’. Ma Michael Meadowcroft, un britannico che dirigeva la squadra di osservatori dell’Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa, affermò più tardi che aveva ricevuto pressioni per non rivelare che c’era stata una diffusa frode elettorale. In Cecenia, che secondo gli osservatori contava meno di 500.000 adulti, votò un milione di persone e Yeltsin, malgrado stesse conducendo una guerra brutale nella regione, ottenne ben il 70 % dei voti”.

Questo meddling spudorato non era il primo da parte degli Stati Uniti. E non sarebbe stato l’ultimo. Dov Levin della Mellon University ha repertoriato 62 interventi americani in elezioni straniere tra il 1946 e il 1989. Non sempre furono semplici interventi politici: non si contano i colpi di Stato organizzati nelle Banana republics per favorire la United Fruit Company (ora Chiquita Brands International), da quello del 1912 in Honduras per deporre il presidente eletto Miguel Dávila, a quello del 1954 in Guatemala per rovesciare il presidente democraticamente eletto Jacobo Árbenz Guzmán (vedi il libro The Octopus and the Generals: The United Fruit Company in Guatemala di Geoffrey Jones). In un altro continente, fu da manuale l’operazione Ajax con cui nel 1953 la Cia rovesciò il moderato primo ministro iraniano Mohammad Mossadeq perché aveva l’ardire di voler nazionalizzare l’industria petrolifera. Dopo la fine della guerra fredda, possiamo ricordare la mano data ad Haiti per cacciare definitivamente il presidente Jean-Bertrand Aristide, ex prete fautore della teologia della liberazione; l’appoggio nel 2003 alla “rivoluzione rosa” in Georgia per deporre il presidente Shevardnadze (vecchio notabile sovietico) e sostituirlo con il politico pro-NATO Mikheil Saakashvili; il sostegno alla “rivoluzione arancione” in Ucraina nel 2004 con espliciti finanziamenti “a media- indipendenti, formazione politica non-partisan, formazione di osservatori e scrutatori”; e, sempre in Ucraina un’ancora più esplicito sostegno alle manifestazioni Euromaidan 2013-2014, quando il senatore John McCain si recò a Kiev per (tra l’altro) cenare con esponenti dell’estrema destra e la vicesegretaria di stato per l’Europa orientale Victoria Nuland andò a distribuire caramelle ai dimostranti di Piazza Maidan e poi discusse al telefono con l’ambasciatore Usa a Kiev le nomine del futuro governo ucraino (è quasi ironico che la storia sia raccontata in un sito estremamente conservatore come quello del Cato Institute).

Ma è inutile continuare con questa lista. Ed escludendo i casi in cui l’ingerenza si materializza in colpi di Stato e assassini, è anche sbagliato, e fuorviante, scandalizzarsi. Che cosa è infatti la politica estera di un Paese se non un modo d’interferire nella situazione politica degli altri Stati per creare le condizioni più favorevoli ai propri interessi?

Certo, c’è politica estera e politica estera. Quella più felpata che preferisce perseguire i propri interessi passando inosservata, e quella invece che non si perita di sbattere le scarpe sul tavolo (come fece Nikita Chruščëv nel corso di una seduta dell’Onu del 1960). Ma la politica estera ha sempre cercato di indirizzare l’ascesa al potere di esponenti favorevoli ai propri interessi: dove c’erano regni, questi tentativi assunsero la forma di manovre per far succedere al trono il ramo della locale famiglia regnante imparentato con la propria dinastia (tanto che nel XVIII la successione al trono divenne il più comune movente per dichiarare le guerre che furono appunto chiamate “guerre di successione”). Dove invece il potere viene deciso in base al voto, l’ingerenza nelle altrui elezioni ha una storia millenaria.

Mi fa notare la grecista Daniella Ambrosino che nell’antica Grecia c’era per esempio “l’istituzione dei pròsseni, cittadini locali scelti ufficialmente dalle polis straniere per curare i loro interessi. Questi pròsseni facevano di tutto per ottenere che nella propria città si prendessero decisioni favorevoli alla città di cui erano pròsseni, cercavano di appianare le controversie o impedire che potessero scoppiare, favorendo una decisione politica piuttosto che un’altra. È noto che Cimone, pròsseno di Sparta, fece di tutto per mantenere buoni rapporti tra Atene e Sparta, per tutto il tempo in cui fu al potere. Comunque le città greche, se potevano interferire a proprio vantaggio nella politica interna delle altre polis, con qualunque mezzo, lo facevano di continuo, con le buone e con le cattive, in modo subdolo o apertamente. Si cercava di favorire in tutti i modi che in una città ci fosse un sollevamento contro il regime democratico, o viceversa che le città si sollevassero contro gli oligarchi, allo scopo di ottenere, con il cambio di regime, un rovesciamento delle alleanze: nel 447 a. C. Tebe fomentò – con successo – una rivolta di oligarchi in Beozia per scalzare i regimi democratici di Cheronea e Orcomeno, alleate di Atene. Naturalmente queste ingerenze potevano portare a una guerra, quando già non avvenivano nel corso di una guerra (dichiarata o ‘fredda’). Non parliamo poi delle ingerenze di una potenza straniera, come la Persia: Senofonte racconta che Farnabazo, sotto attacco da parte del re di Sparta Agesilao, cercò di costringerlo a ritirarsi sollevando contro Sparta le città della Grecia; inviò Timocrate di Rodi – un greco – a distribuire diecimila dracme d’oro nelle città principali. Timocrate fece il giro di Atene, Tebe, Corinto e Argo, riuscendo a convincere consistenti fazioni in ciascuna di quelle città a perseguire una politica anti-spartana”.

Per concludere questo excursus non possiamo dimenticare la grande invenzione del XX secolo, e cioè “l’ingerenza umanitaria”. In cui l’interferenza non solo è praticata, ma rivendicata e sbandierata come un atto di virtù.

Diciamo che il meddling elettorale dei russi vanta un pedigree di razza. Possiamo anche affermare che non ci scandalizza affatto che ci sia un’ingerenza russa, o cinese, o israeliana nelle elezioni degli Stati Uniti, la cui presidenza pesantemente influisce su (interferisce con) la vita e la politica di questi altri Paesi. Forse ci dovremmo interrogare sul perché altre ingerenze non sono state rilevate con la stessa acribia. Forse all’elezione (e rielezione) di Donald Trump Arabia Saudita e Israele avevano altrettanto (se non maggiore) interesse di quanto ne avesse la Russia. E infatti uno dei maggiori finanziatori di Donald Trump è stato Sheldon Adelson, il miliardario proprietario di casinò a Las Vegas, sposato a una cittadina israeliana a cui è intestato il più diffuso quotidiano gratuito del paese, Israel Hayom, che era talmente pro Netanyahu da essere chiamato “Bibiton” (contrazione tra il soprannome “Bibi” del premier e il termine ebraico per “giornale”). Per non parlare del principe saudita MbS (Mohammed bin Salman), il cui destino è legato a filo doppio con la famiglia Trump, e in particolare il genero factotum Jared Kushner.

C’è un ultimo punto problematico, ed è quanto si rivela efficace l’ingerenza di cui parliamo. Che i russi avessero tutta l’intenzione d’influenzare le elezioni Usa (come gli Usa d’influenzare qualunque elezione al mondo) non c’è alcun dubbio. Ma che potessero riuscirvi è inverosimile. Le campagne elettorali statunitensi costano ormai miliardi di dollari: quella del 2016 per esempio costò 6,5 miliardi di dollari, di cui 2,4 la campagna presidenziale e 4 quella per il Congresso (dati da Forbes), quella del 2020 è costata 14 miliardi di dollari, di cui 6,6 miliardi solo per la campagna presidenziale.

Ora, in base alle audizioni del Congresso, l’investimento totale da parte della Russia nell’ingerenza del 2016 non può avere superato qualche decina di milioni di dollari. Che quindi sarebbero stati più efficaci del miliardo e passa speso da Hilary Clinton. Soprattutto, è la sproporzione dei due Paesi a chiarirci la pretestuosità di tutta l’argomentazione. Quando infatti pongo ai miei interlocutori una domanda semplicissima, la risposta che ottengo è un silenzio imbarazzato. La domanda è: “A quanto ammonta il prodotto interno lordo della Russia rispetto a quello dell’Italia, della Germania o degli Usa?”. La risposta che non viene data è che il pil russo è tre quarti del pil italiano, un terzo del pil tedesco, un tredicesimo del pil statunitense. Perciò se è pensabile che gli Stati Uniti abbiano successo nell’ingerirsi nella politica italiana (e infatti è avvenuto innumerevoli volte), non è invece credibile che l’Italia riesca e piegare ai propri interessi la politica degli Stati Uniti.

La verità è che negli Usa sono ormai due cicli elettorali che il partito perdente cerca di delegittimare – con il meddling o con il rigging – la vittoria dell’avversario. Questo tipo di delegittimazione indica che l’alternanza dei due partiti non rappresenta più un ricambio di classe dirigente all’interno di un singolo blocco sociale dominante, come era avvenuto per tutto il secondo dopoguerra, ma esprime la spaccatura in seno alla stessa classe dominante americana. Una spaccatura che è percettibile anche nella scelta lessicale. Perché c’è una differenza tra ingerire e immischiarsi (interference e meddling). Il meddling introduce una connotazione furtiva e subdola che nella parola interference è assente: mentre infatti il dizionario americano Webster assegna al termine meddling solo l’interferenza, il vocabolario inglese di Oxford ci rivela un altro risvolto, perché al primo posto mette “Meddle: mix, mingle, combine; mix (goods) fraudulently; having sexual intercourse (with)” (mischiare, mescolare, combinare; mischiare (beni) fraudolentemente; avere rapporti sessuali (con)). In qualunque senso, sempre sotto la cintura. *

 

*Articolo ripreso da “Sidecar”, blog della New Left Review.

 

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